Le guerre alle porte dell’Ue ne esaltano la debolezza e i missili rivitalizzano leadership in crisi

I nuovi confini della diplomazia del disordine

Non era inevitabile, ma è accaduto. Dopo Gaza, un nuovo, devastante fronte si è aperto in Medio Oriente. Israele e Iran sono ora protagonisti di un conflitto diretto che, al di là dei confini e delle rivalità storiche, rischia di travolgere l’equilibrio già fragile dell’intero scacchiere internazionale. La copertina di questa settimana – “Le guerre di Bibi” – chiama per nome la responsabilità di Benjamin Netanyahu, che da tempo cavalca la strategia del conflitto permanente, dentro e fuori i confini di Israele. Un primo ministro che ha fatto della minaccia esterna il cemento della sua leadership, oggi più che mai in bilico. Ma non è il solo responsabile.

 

Teheran non è una vittima passiva. Il regime iraniano ha continuato imperterrito nel proprio programma nucleare, eludendo gli accordi internazionali e, di fatto, alimentando la tensione con Tel Aviv. L’Iran degli Ayatollah, sotto pressione per le proteste interne – giovani, donne, minoranze etniche e religiose – sembra aver scelto la via del confronto militare per ritrovare un’unità nazionale perduta. Due leadership in crisi, due nazioni che si guardano con odio e sospetto, mentre il mondo trattiene il respiro.

 

Gli Stati Uniti – e in particolare Donald Trump – non escludono un coinvolgimento diretto. Eppure, paradossalmente, lo stesso Trump invoca l’intervento di Vladimir Putin come mediatore. Una mossa che dice molto: della debolezza diplomatica di Washington, della nuova centralità del Cremlino nelle dinamiche medio-orientali, e dell’assenza tragica dell’Europa.

 

Già, l’Europa. Una volta potenza culturale e interlocutore privilegiato nelle crisi del Mediterraneo, oggi resta ai margini. Incapace di parlare con una voce sola, ostaggio delle proprie divisioni interne, spettatrice passiva di una guerra che pure la riguarda da vicino. Perché se la crisi si espande – e i segnali in questa direzione sono già fin troppo evidenti – sarà il Vecchio Continente a pagarne le conseguenze: rischio di nuove ondate migratorie, terrorismo, instabilità economica. «L’Europa sarà la vittima collaterale del Medio Oriente diviso», avverte il politologo francese Gilles Kepel, tra i massimi studiosi del mondo arabo.

 

Nel frattempo, le monarchie del Golfo – Arabia Saudita in testa – osservano con calcolo, evitando di schierarsi apertamente. Troppo coinvolte, troppo vulnerabili. La loro neutralità non è prudenza diplomatica, ma impotenza geopolitica. E anche questo è un segnale del mutamento profondo che attraversa la regione: i vecchi equilibri non reggono più, ma i nuovi non si sono ancora imposti.

 

In questo contesto esplosivo, la domanda più urgente è anche la più scomoda: chi può fermare questa guerra? Gli Stati Uniti? Troppo divisi e ossessionati dalle elezioni. La Russia? Più interessata a guadagnare influenza che a stabilizzare l’area. L’Europa? Irreperibile. Le Nazioni Unite? Un’eco lontana. Queste considerazioni ci inducono a pensare che la guerra fra Israele e Iran non sia soltanto l’ennesimo episodio di un conflitto senza fine, bensì la prova generale di un disordine globale sempre più vicino. La possibilità di un’escalation è una minaccia concreta e tangibile, un pericolo che troppe volte in questi giorni di aspro conflitto è stato sottovalutato, se non ignorato.

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