Dai Fridays For Future alle Sardine, i giovani riscoprono la politica. In nome della collettività. Per un pianeta senza odio e razzismo. Salvato  dal cambiamento climatico

Giulia Fidale, calabrese, 20 anni è un'attivista contro la 'ndrangheta
Hanno riscoperto la politica, ben prima di diventare sardine. Usano la parola «comunità», ma anche «collettività» e soprattutto «bene comune». Sono impegnati, ma senza per questo seguire qualche partito. Anzi, non li nominano mai, se non per identificare uno spartiacque generazionale che si sta formando tra l’attuale classe dirigente e loro. C’è chi lotta contro la mafia, chi manifesta per l’ambiente, chi studia la Costituzione e per questo è antifascista, chi si batte per l’Europa. Nella stagione di «prima gli italiani» e prima noi stessi, mentre si raccontava solo l’avanzata dell’estrema destra, sono spuntati quelli che lottano per i diritti degli altri, a sorpresa. E si è scoperto che sono tanti.

Lorenzo Donnoli, 28 anni, promotore delle Sardine
Lorenzo Donnoli, 28 anni, sardina romana, è rimasto due anni in Australia prima di tornare per staccare biglietti al Colosseo: «Ho deciso di tornare perché ogni volta che parlavano male dell’Italia e degli italiani piangevo». Diventato celebre nel web per aver pubblicato un post contro Beppe Grillo «da tempo pensavo di fondare un movimento o una forza politica che fosse costruttiva e non distruttiva, il movimento delle sardine risponde a quella mia idea di reazione popolare da far scaturire negli altri». Nessuna appartenenza a un partito «ma solo politica attiva». E spiega: «Ho insegnato in Ecuador, ho aderito a Ong che si occupavano di ambiente, mi sto impegnando per realizzare insieme ad altri il sogno di una mia amica africana, malata di Sla, di diventare stilista». E così via.
«Adesso con le Sardine la fase uno è la battaglia culturale, uscire da questo cono nero di odio e riportare nella società un dialogo democratico, lontano da quello imposto da Matteo Salvini, Giorgia Meloni o Luigi Di Maio». La fase due si concretizza con una birra, dopo la piazza di San Giovanni a Roma: «Abbiamo un programma che va oltre lo scendere in piazza e che abbiamo intenzione di presentare alle forze politiche, vedremo se ci ascolteranno». Una risposta allo «scollamento generazionale a cui stiamo assistendo, dove le nuove generazioni si preoccupano per quelle che verranno e tentano di cogliere una riflessione più profonda che abbia contenuti».
Lorenzo appartiene a quella onda anomala che interroga e mescola le coscienza con un rimando continuo alla Costituzione: «Il confronto giusto da fare è con il ’48, momento in cui i padri fondatori si riconoscevano in valori comuni, di confronto pulito e di antifascismo. Non è più stato così ed è tempo di tornare a questo». Lui, sindrome di Asperger come Greta Thunberg, spiega: «Ho fatto qualsiasi lavoro nella mia vita per entrare nella testa degli altri e capire come diventare più empatico». Da migrante a barista, fino al semplice volontario.

È una generazione che studia il passato per cambiare il futuro. Distaccati da un presente che guardano con diffidenza.

Deborah Funer
Deborah Fruner, 24 anni, studentessa. Una tra le organizzatrici della piazza delle sardine di Verona, nomina la Costituzione, ne conosce i principi e la prende come esempio per la sua città: «Questa è diventata una città complessa e non credevamo che rispondessero alla chiamata oltre seimila persone». Verona la città dell’estrema destra, dell’Hellas Calcio, di Fortezza Europa. La città dal passato oscuro che porta con sé lo pseudonimo Ludwig: i due serial killer che uccisero in nome del neonazismo. Ma questa è anche la città «che canta Bella Ciao, canzone di liberazione e non certo comunista come molti l’hanno stigmatizzata». Deborah pronuncia la parola ricorrente collettività: «Abbiamo lanciato una sfida e l’abbiamo vinta, non per noi, ma per tutti, perché questa è una piazza nata per far nascere nuovamente quei valori democratici che sentiamo perduti e rispondere a un vuoto politico che si è creato». Continua: «La verità è che si guarda solo ai fini politici, ma ci siamo scordati delle persone, della comunità e questo deve cambiare, altrimenti non andiamo da nessuna parte».

Antonio Lenti
Non hanno confini, non ne vogliono, ma sperano in un mondo globale dove il problema di uno diventi il problema di tutti. Antonio Lenti, 28 anni, quartiere Tamburi di Taranto, vicino all’Ilva, così vicino da sentirne l’odore. Non parla solo di coscienza, ma anche di tumori, piani programmatici, disoccupazione giovanile, ma soprattutto, anche lui, come in una preghiera costante «di bene della collettività che supera manovre di bilancio». È un attivista del FridaysForFuture, il movimento contro i cambiamenti climatici nato con Greta Thunberg, ma è anche sardina, uno che scende in piazza a prescindere «basta che sia giusto», perché «la nostra generazione un giorno si è svegliata e ha capito che non era più sola. Che il problema di Genova, di Bagnoli, dell’Ilva di Taranto erano tutti problemi della collettività». Antonio si accalora: «Noi siamo i NoTav, i no Tap, siamo la Sardegna, siamo questo mondo che non va e che continua a distruggersi. Noi siamo quelli che si chiedono cosa lasceremo alle nuove generazioni». «Ci sono state persone scese in piazza in questi anni per motivi specifici, ognuno guardando il proprio orto, ma mai nessuno aveva trattato tutto questo globalmente. A questo punto il problema è però di sostanza: collegare tutte le battaglie e farne un’unica lotta». Questo per Antonio e per tutti gli altri «è fare politica, farla seriamente». Era presente quando il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, saputo che Arcelor Mittal voleva lasciare Taranto, è arrivato in città: «Mi ha stupito sentirlo confessare che non aveva soluzioni, ma ancor di più mi ha allibito quando ci ha chiesto se volevamo lasciare il quartiere Tamburi e spostarci in soluzioni abitative provvisorie. La cosa forse più assurda è che non sapeva quanta gente vivesse nel quartiere». Antonio parla di una città devastata, ammazzata dalla disoccupazione: «Gli abbiamo presentato un piano di 370 pagine, dove spieghiamo punto per punto come chiudere l’Ilva e creare lavoro, il tutto correlato di dati, studi di Confindustria e un’idea di futuro».

Emmanuele Napoli
Emmanuele Napoli ha 21 anni, emigrato a Milano da Terrasini, paese della costa siciliana. È uno dei settecentomila studenti fuori-sede e lotta per chi non vive nel suo paese di origine ed è costretto a tornare «molti non riescono a votare perché non hanno i soldi per un aereo». Si emoziona quando racconta la sua vita al collegio Augustinianum dell’università Cattolica dove studiarono Romano Prodi, Giovanni Maria Flick e Tiziano Treu. E lui come loro è cattolico: «Mi sento un anticonformista. Ma purtroppo anche il cristianesimo sociale sta diventando estraneo a una parte della Chiesa». Progressista per natura, volontario per vocazione, politico finto inesperto: «Credo che la superficialità di oggi abbia invaso il dibattito pubblico, i giovani ora chiedono semplicemente di superarla. Abbiamo capito che bisogna combattere pigrizia e ignoranza e il modo migliore per farlo è scendere nelle piazze e combattere la politica fatta da bufale e campagne elettorali continue». Nessuno parla di Europa «perché per la nostra generazione è un fatto scontato, siamo patrioti europei, non c’è molto da discutere in merito». Torniamo a parlare di fede e politica: «Il mio impegno da cattolico non mi spinge a fare politica con metodi diversi ma a concentrare il mio impegno su quei temi che partono da una determinata lettura del Vangelo che significa solo aiutare il prossimo, senza bigottismo».

Amnin Anour
Viaggiano costantemente, abituati a spostarsi da un capo all’altro. Amnin Anour va verso Verona. Somalo d’origine, arrivato in Italia che aveva appena due anni. Lui che la cittadinanza non ce l’ha, nonostante un accento romano impietoso: «Da piccolo ero una promessa del karate, non ho potuto continuare perché per me era impossibile partecipare alle gare. Allora mi sono detto “farò l’attore” ma visto il colore della mia pelle mi davano sempre le stesse parti. Allora ho detto “farò il regista” ma il governo giallo-verde ha chiuso i bandi che mi permettevano ad accedere ai fondi, visto che non sono cittadino italiano potevo aspirare solo a quelli». Insomma, uno stillicidio di sogni infranti, ma il riscatto «della piazza, lontana da quelle realtà che si ghettizzano e si incattiviscono, guardando solo il proprio ombelico». Da qui la voglia di appoggiare tutte le cause: «Oh, io scendo in piazza sempre, sardine, diritti civili violati, diritto di cittadinanza». «La verità è che noi abbiamo capito, a dispetto di chi ci governa, che la vittoria di uno è la vittoria di tutti». Una frase che non si concretizza nell’uno vale uno del Movimento5Stelle, ma nel «siamo tutti diversi, siamo tutti minoranza, ma siamo tutti una grande comunità e per questo dobbiamo lottare e affermare i diritti».
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Amnin è amico di Diana Pesci, 34 anni, impegnata in tutto quello che le capita a tiro. La intervistiamo mentre torna da un flash mob contro la violenza sulle donne. «In piazza anche oggi», ci pensa un attimo e con il fiatone riprende, «le nuove generazioni hanno una visione trasversale delle lotte, un amore per la Costituzione e per i principi umani». Figlia legittima dell’Erasmus: «Sono andata a vivere in Francia, mi sarebbe convenuto restare, ma per cambiare bisogna tornare nel proprio paese». Sarà l’apertura verso nuovi mondi, sarà l’assenza di confini con la quale siamo cresciuti, sarà l’abbattimento dei muri: «Bisogna avere una visione globale delle cose, cerchiamo di portare avanti una serie di principi e valori umani che sempre di più vengono messi in discussione dagli attuali politici ed è per questo che non scendo in piazza solo per l’emancipazione femminile ma per tutti». La lontananza dai partiti politici e la necessità per Diana «di avere gli strumenti giusti per interpretare una società divenuta complessa e che ha perso la sua umanità, generando mostri».

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Chiedono democrazia, ma anche cultura. Valerio Carocci, uno dei ragazzi del Cinema America di Roma: «Cerchiamo di ricostruire un legame intorno alle piazze, generando discussione e confronto. Facciamo politica così». In Europa ad appropriarsi nuovamente dei cinema sono i giovani perché «strumenti di aggregazione, dove la comunità torna al centro». Valerio racconta il sostegno avuto dopo l’aggressione di alcuni neofascisti la scorsa estate quando a Trastevere sono arrivati da Richard Gere a Francis Ford Coppola: «In un giorno abbiamo avuto migliaia di condivisioni e quello che è accaduto, grazie alla rete, è arrivato lontano». Anche in questo caso abbattimento dei muri: «C’è un cambiamento epocale dovuto al potenziale comunicativo, è come se avessimo rotto delle barriere con i social».

Il cinema che si fa operatore: «Ci confrontiamo e difendiamo con la cultura la nostra libertà democratica». Non solo: «I movimenti giovanili che stanno nascendo sono consapevoli che dobbiamo attivarci per creare e cambiare le cose. È il momento in cui tutti dobbiamo fare la nostra parte e lasciare un mondo migliore rispetto a quello che abbiamo trovato, diceva Baden-Powell». Il Cinema America ha un nuovo sogno realizzato: «A Roma daremo vita a un cinema aperto 24 ore su 24, da sala di proiezione a biblioteca e aula studio, un luogo dove i nostri coetanei potranno essere protagonisti e non più semplici fruitori».

Giulia Fidale
Giulia Fidale, 20 anni, nata a Polissena, in Calabria, è cresciuta con le storie dei morti ammazzati per strada e da sempre impegnata nell’antimafia. «Qui la ’ndrangheta esiste». Racconta dei figli dei boss che si intrecciano alla sua vita «consapevoli che è giusto che il padre sia in carcere» ma anche di quelli «che no, non cambiano». Giulia va in piazza «per cambiare le cose, perché ogni volta che vado in piazza lo faccio non per la Calabria, ma per l’Italia intera». La collettività, la responsabilità della società e l’impegno «per le generazioni future, perché quando insegno legalità ai bambini lo faccio nella speranza che un giorno i miei nipoti mi chiedano “nonna, ma cosa era la mafia?”». È sicura che un giorno succederà, ne è certissima. «Lo sai che il palazzo dove abito era di una famiglia di mafiosi, sono stati portati per strada e li hanno uccisi». Giulia si è formata con don Pino Demasi, il referente di Libera per la piana di Gioia Tauro, «grazie a lui ho capito cosa è il bene comune».

Come tutti questi ragazzi, parla poco di partiti politici, come se non esistessero, non vive l’assenza di concretezza, ma la riempie con l’atto per eccellenza «manifestazioni pacifiche». Giulia si sfoga: «Ogni volta che arriva il 21 marzo, vado a leggere i nomi delle vittime di mafia, mi hanno sempre detto “ma che ti frega, non è mica che il boss cambia idea se tu leggi quei nomi”, e invece da un po’ di anni a questa parte è successo che, a forza di farlo, in molti si sono convinti a venire». Il risultato, lo dice, soddisfatta e serissima. «Le cose stanno cambiando anche qui da noi. Perché hanno ragione le sardine, tanti uno fanno un oceano».