Ogni giorno vanno a vivere all’estero 400 ragazzi, molti dei quali laureati. Ma non sono arrabbiati o egoisti come li dipinge una certa retorica. E se vanno via non è solo per una questione di soldi

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Laura ha 31 anni, lavora a Parigi, ha una relazione complicata con l’Italia: «Uno di quegli amori non corrisposti che ti strazia il cuore». Alberto vive a Londra e ci insegna perché gli expat, cioè i giovani in cerca di fortuna all’estero, detestano la definizione di “cervelli in fuga”: «Si fugge da una guerra, non da un paese bello come l’Italia». Sergio, 35enne e professore negli Stati Uniti, spiega che il sistema educativo italiano è migliore di quello americano. Giulia sta in Cina e dice: «Il sistema sanitario italiano, gratuito per tutti, è cosa di cui andar fieri».

Laura, Alberto, Sergio, Giulia fanno parte di una generazione di italiani under trentacinque, per lo più laureati e diplomati, che nell’ultimo decennio ha lasciato in massa l’Italia, ma che è pronta a tornare. Lo raccontano le loro cartoline all’Italia, pubblicate da l’Espresso e tante altre ancora sul nostro sito, e lo confermano con maggior forza due studenti italiani della Kennedy School di Harvard che dalle colonne dell’Espresso lanciano un appello politico a chi, come loro, si trova all’estero e sente forte il desiderio di rientrare, per contribuire a far risorgere il proprio paese.

Sono Gaia van der Esch, 32 anni di Anguillara Sabazia (Roma), selezionata nel 2017 da Forbes fra i trenta giovani europei più talentuosi, e Tommaso Cariati, 26 anni, fiorentino, ex consulente McKinsey, che oggi si divide fra un mba a Stanford e un master ad Harvard. Dicono: «Torniamo a casa. Siamo partiti, abbiamo imparato, ci siamo divertiti. Ci siamo sentiti anche lontani da casa, soli. L’Italia è in crisi, economica e culturale: sta a noi fare qualcosa per il paese che ci ha cresciuto e ci ha insegnato tanto. Tocca a tutti noi, è il nostro turno. Torniamo a un lavoro che paga meno, con l’obiettivo di cambiare le regole dall’interno, torniamo per fare fronte comune alla corruzione e alla politica da spiaggia. Lanciamo questo appello a tutti coloro che come noi sono partiti: abbiamo un’opportunità e una responsabilità unica per partecipare alla rinascita dell’Italia. Usiamo le nostre idee ed energie per fare dell’Italia un esempio per il mondo. Torniamo e portiamo con noi i nostri colleghi e compagni di università, invitiamoli a lavorare nel Bel Paese, invertiamo la rotta, assicuriamoci che i giovani di oggi e di domani siano valorizzati, come noi lo siamo stati all’estero. Dobbiamo provarci. Tutti insieme».
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L’appello di Gaia e Tommaso giunge nel momento in cui il fenomeno dell’espatrio sta assumendo una dimensione preoccupante. Lo conferma il rapporto Italiani nel Mondo 2019 della Fondazione Migrantes: «In dieci anni il numero di expat è triplicato, passando da 39 mila nel 2008 a117 mila nel 2018». Nell’ultimo anno le partenze hanno interessato soprattutto i giovani - il 40 per cento sono ragazzi fra 18 e 34 anni - provocando «la dispersione del grande patrimonio umano giovanile. Capacità e competenze che, invece di essere impegnate al progresso e all’innovazione dell’Italia, vengono disperse a favore di altre nazioni più lungimiranti, che le attirano a sé, investono su di esse trasformandole in protagoniste dei processi di crescita e di miglioramento».



Lunedì anche l’Istat ha lanciato l’allarme: 30 mila laureati hanno lasciato l’Italia nel 2018 e nell’ultimo decennio sono stati 182 mila. Se ne sono andati soprattutto dal Sud Italia, ma come singola regione è la Lombardia la più colpita dall’esodo. Altri dati piovono dall’Aire, anagrafe italiani residenti all’estero, che ha registrato oltre 128 mila expat nel 2018, mentre i paesi ospitanti ne hanno individuati 150 mila.

Insomma il paese non è neppure in grado di calcolare con esattezza l’estensione del fenomeno, perché molti se ne vanno senza dichiararlo apertamente, anche perché l’iscrizione all’Aire comporta la perdita di preziosi diritti, come l’assistenza sanitaria. La retorica da bar descrive chi se ne va come gente arrabbiata, un po’ egoista, in contrapposizione ai martiri rimasti in patria e ai neet, quelli che non studiano e non lavorano. Ma le cose non stanno proprio così.

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L’Espresso raccoglie quindi l’appello degli studenti di Harvard, pubblicando la loro analisi accompagnata dalle cartoline scritte da ogni angolo di mondo, per dare voce a chi è espatriato ma vorrebbe tornare (o almeno non lo esclude) e avanza soluzioni per arrestare l’emorragia.

L’obiettivo è offrire un megafono agli expat, dando la possibilità a chiunque vorrà condividere la propria storia, i dubbi e le proposte per un’Italia migliore, di scrivere al sito de l’Espresso e alimentare così il primo contenitore digitale di dialogo fra italiani e giovani all’estero. Sarà un nodo di quella rete internazionale che Maria Chiara Prodi, presidente della commissione “Nuove Migrazioni”, sta cercando di costruire per rispondere al desiderio di molti di rendersi utili al proprio paese e spiegare quanta voglia c’è di tornare, anche se non sempre esistono le basi per fare le valigie a contrario.

La ricerca
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I giovani chiedono un contratto di lavoro stabile, aziende in grado di valorizzarli, un contesto professionale e sociale internazionale: «Dovremmo non solo far rientrare gli italiani, ma attirare talenti di altre nazionalità. Così fanno le università, le aziende, i centri di ricerca degli altri paesi europei», spiega, con la sua cartolina Nicola Tamanini, 33 anni, espatriato subito dopo la laurea in Fisica «perché da noi non c’è possibilità di fare ricerca di base». Nicola lavora al Max Planck Institute di Berlino in un team di 30 ricercatori provenienti da 12 nazioni: «Solo rendendo l’Italia più invitante e aperta a chiunque, si riuscirà a convincere i giovani italiani a tornare». Tutto il contrario della retorica diffusa da una certa politica italiana, concentrata sui migranti in approdo sulle coste italiane. Invece l’osservatorio European Council on Foreign Relations, il primo think tank paneuropeo per la ricerca e promozione di un dibattito informato a favore dello sviluppo dei valori europei, sostiene che gli italiani sono più preoccupati per l’esodo dei propri connazionali e il 52 per cento dei cittadini sarebbe favorevole a un sistema di controllo e contenimento degli espatri. Timori che l’Italia condivide con Grecia e Spagna, anch’esse colpite dallo stesso fenomeno.

L'appello
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Il centro studi del colosso dei servizi di consulenza aziendale PricewaterhouseCoopers ha rivelato che il 76 per cento dei laureati all’estero tornerebbe in Italia a fronte di adeguate opportunità di lavoro: «Sono tuttavia frenati dalle dinamiche del mercato del lavoro, dalla cultura per nulla meritocratica, dalla scarsa attitudine nei confronti dei giovani, dalla corruzione. L’opportunità di invertire la rotta esiste, bisogna solo trovare gli strumenti per creare queste condizioni», incalzano gli studenti di Harvard.

La soluzione di finanziare i rientri non basta. Spiega un dossier del gruppo Controesodo che metà dei 14mila talenti (ricercatori, professori universitari, startupper di successo) richiamati grazie agli incentivi fiscali succeduti dal 2010, hanno nuovamente lasciato il paese tra il 2012 e il 2017. Motivazione? Alcuni hanno ricevuto offerte più vantaggiose all’estero, altri non hanno trovato qui le infrastrutture minime per costruire i propri progetti innovativi. Di più, non solo gli incentivi vengono gestiti in modo disordinato, ma le iniziative per favorire il rientro sono decine, rintracciabili solo con qualche ricerca random sul web. Milano offre “Talent in Motion”, la Sardegna “Master and Back”, poi c’è “Brain Back Umbria” e così via, nel perfetto stile campanilistico all’italiana.

La ricetta, dunque, deve essere più articolata: secondo i nostri giovani all’estero, deve partire dalla valorizzazione del loro potenziale. «L’Italia, il paese delle università più antiche al mondo, non ha neppure un istituto fra le top cento università secondo i World University Ranking Qs. È partendo da questo elenco che gli studenti più meritevoli scelgono dove inviare le candidature per svolgere specializzazioni e dottorati. Ecco dove risiede la prima decisione di emigrare. Per capirci, l’Italia ha ridotto i finanziamenti pubblici alle università di venti punti percentuali nell’ultimo decennio», spiegano Gaia e Tommaso. Che si focalizzano poi sugli aspiranti startupper: «Le opportunità di aver successo in proprio, nel paese famoso per le piccole e medie imprese, sono praticamente a zero. Il fondo di venture capital Atomico conta in Europa novantanove start up con un valore più alto di un miliardo di dollari (le cosiddette Unicorns), ma nessuna di queste sta in Italia. Ci sono in Estonia, Ucraina, Romania, due in Spagna, ma zero in Italia». Per non parlare del mondo della ricerca: l’Italia investe in questo campo l’1,3 per cento del pil. Capito perché i giovani se ne vanno dall’Italia?