Si chiamano Pfas le sostanze perfluoro-alchiliche che usate per decenni dalle industrie della zona, hanno contaminato 300 mila persone. E ora un’azienda chimica è finita alla sbarra

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C’è una cosa che accomuna tutti le persone che abitano questo pianeta o quasi. Sono i Pfas, molecole composte di fluoro e carbonio usate nella creazione di un’infinità di prodotti industriali. Con il tempo sono passate dalle fabbriche ai corsi d’acqua e da lì nel sangue del 95 per cento della popolazione mondiale. Nella maggior parte dei casi la presenza di Pfas negli organismi umani è minima, con effetti sulla salute difficili da determinare. In altri casi le concentrazioni sono massicce, con conseguenze sanitarie potenzialmente gravi.

C’è una ragione se i Pfas si sono diffusi così capillarmente in tutto il globo. La loro composizione li rende molto stabili dal punto di vista termico e chimico, idrorepellenti e solubili nelle sostanze oleose. Questo li ha portati, a partire dagli anni ‘60, a essere sintetizzati in più di 3.000 varianti e inseriti in un numero crescente di prodotti: detersivi, imballaggi alimentari, shampoo, dentifrici, pellicole fotografiche, schiume per estintori e, più recentemente, Teflon e Gore-Tex.

In sessant’anni di produzione - e dispersione - i Pfas sono finiti in ogni angolo della Terra, tanto che sono presenti anche negli organismi di animali selvatici come orsi polari e foche. Si dibatte su quali siano i rischi legati alla presenza di Pfas in grande concentrazione nell’organismo umano. A livello internazionale l’Organizzazione Mondiale della Sanità e l’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro ritengono che il Pfoa (uno dei Pfas di più largo uso industriale) sia «possibilmente collegato» all’emergere di alcuni tipi di tumore. Oltre alla cancerogenicità si sospetta che i Pfas abbiano altri effetti nocivi sull’organismo umano come interferenza endocrina, aumento del colesterolo, malattie cardiocircolatorie, problemi durante la gravidanza (soprattutto sulla salute del feto). Il tutto per arrivare a una questione italiana: ci sono 300 mila persone che, in Veneto, in un’ampia fascia a cavallo tra le province di Vicenza, Padova e Verona, a partire dal 2016 hanno scoperto nel loro sangue concentrazioni anomale di Pfas.

Come mai una larga fetta di veneti si ritrova nel sangue un accumulo fuori norma di Pfas? Tutto inizia nel 2013, quando il Consiglio Nazionale delle Ricerche pubblica un corposo studio sulla dispersione degli Pfas nei maggiori fiumi italiani, soffermandosi in particolare sulla abnorme presenza di questi nei bacini fluviali del Veneto. Risalendo verso le Alpi per capire il luogo da cui le sostanze provenivano la ricerca è arrivata a Trissino, paese di 8.000 abitanti in provincia di Vicenza. E sede di un’importante fabbrica di produzione di Pfas, la Miteni S.p.a.

La battaglia
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27/12/2019
La relazione del Cnr ha ritenuto la Miteni responsabile della dispersione dei Pfas nelle acque dei fiumi veneti, mentre successive indagini mostreranno che dalla sede dell’azienda i Pfas erano penetrati anche nella falda acquifera sotterranea, dalla quale pescavano molti impianti idrici di tutta la Regione.La contaminazione - che potrebbe essere in atto sin dall’apertura dello stabilimento negli anni’60 - porta all’inizio di un’opera di bonifica della zona, che a parere di molti è però tardiva e insufficiente.

Ci vuole tempo, ma lentamente la notizia passa dalle sale chiuse di amministrazioni e centri ricerca al dibattito pubblico. In una terra storicamente poco portata alle proteste collettive iniziano a nascere comitati spontanei che chiedono chiarezza su quanto successo. I primi sono le Mamme No Pfas, nate nel comune di Lonigo e poi sbocciate un po’ dappertutto dentro i confini della “zona rossa”, l’area a cavallo tra le tre province più colpite dalla contaminazione. Le Mamme No Pfas chiedono di capire cosa si può fare per la salute dei loro figli, dato che i Pfas sembrano avere effetti più pesanti sulle fasce più giovani della popolazione.

La mobilitazione si fa via via più forte, coinvolgendo sempre più persone, associazioni e gruppi spontanei. Nel dicembre 2016 la pressione pubblica si fa sentire anche sulla Regione Veneto che dispone un massiccio screening della popolazione, per quantificare l’estensione della contaminazione. Su 300 mila persone potenzialmente contaminate 89 mila vengono invitate a sottoporsi a delle analisi per verificare la presenza dei Pfas nei loro organismi. Secondo una ricerca pubblicata a maggio del 2019 dall’Isde (International society of doctors for environment) hanno preso parte allo screening circa il 60 per cento degli invitati e in una larga parte di essi è stata trovata una concentrazione anomala degli inquinanti.

A questo punto la vicenda travalica i confini della Regione e arriva direttamente al Parlamento, alla Commissione sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti che, nel febbraio del 2018, pubblica una relazione che fa il punto su tutta la vicenda. La relazione riporta in particolare gli inquietanti dati sui possibili effetti della contaminazione nella zona rossa. Posta la difficoltà statistica e scientifica di provare il nesso tra inquinamento e malattie, dagli studi emerge un aumento della mortalità generale nella all’area rossa rispetto alle zone vicine, soprattutto per alcune patologie che la letteratura ha già accostato ai Pfas, come malattie cerebrovascolari, infarti, diabete e Alzheimer (le ultime due soprattutto per le donne).

Durante il 2018 si consumano gli ultimi atti della vicenda: a marzo viene dichiarato lo stato di emergenza nelle zone contaminate (con uno stanziamento di 56 milioni di euro per la bonifica) e in ottobre la Miteni dichiara fallimento, anche a causa dell’ormai insostenibile pressione dell’opinione pubblica.

Manca l’ultimo attore del dramma. Un attore che fino ad ora è stato sullo sfondo ma che ha seguito tutto l’accaduto: la Procura di Vicenza. Il primo atto pubblico nel processo che tutti si aspettavano è del luglio del 2019 ed è la richiesta di rinvio a giudizio per dieci amministratori della Miteni per i fatti compiuti fino a quando la contaminazione è diventata di dominio pubblico, nel 2013. Tra gli imputati ci sono sia figure apicali delle società che detenevano la maggioranza delle quote della Miteni - la Mitsubishi fino al 2009 e successivamente la multinazionale della chimica Icig - che alcuni tra i dirigenti dello stabilimento stesso. Le imputazioni formulate dai Pm sono pesantissime: avvelenamento di acque e disastro doloso, accuse che potrebbero portare a condanne superiori ai 15 anni di carcere.

La prima udienza si è tenuta l’11 novembre scorso e per il momento il processo è fermo alla fase di costituzione delle parti civili. A chiedere di essere risarciti sono in più di 200 tra famiglie, ex operai, associazioni, enti pubblici, sindacati; un indicatore significativo del turbamento che la vicenda ha portato a tutti i livelli della società veneta. Il processo si preannuncia come parte di un’iniziativa dell’autorità giudiziaria che dovrà necessariamente essere più ampia.

Ci sono due aspetti di tutta la vicenda finora ignorati e che prima o poi dovranno finire sotto gli occhi dei giudici. Il primo riguarda quello che è successo dopo il 2013, momento in cui si è scoperta la contaminazione ma non in cui questa è stata fermata. Il secondo riguarda le responsabilità pubbliche in tutto l’accaduto: finora sono stati chiamati in causa solo gli amministratori della Miteni, ma sarà necessario valutare le responsabilità dell’amministrazione pubblica nel mancato controllo su un inquinamento che è proseguito per decenni. In altre parole, gli stessi enti pubblici che oggi siedono tra i banchi dei danneggiati, domani potrebbero finire su quello degli accusati.

Questo processo non potrà raddrizzare tutti i torti causati dalla contaminazione dei Pfas. Potrà individuare delle responsabilità, disporre dei risarcimenti, dare alla vicenda la pubblicità che finora per molti aspetti è mancata ma non restituirà la salute a chi l’ha persa, né sarà in grado di risanare l’ambiente intaccato dall’inquinamento. Forse l’aspetto più incisivo di un processo come questo si trova nell’assunzione di responsabilità di una comunità che decide di guardare in faccia i danni causati da un sistema produttivo che ha beneficiato tanti e che ora presenta il conto da pagare.

Su questo punto c’è un piccolo fatto laterale che va preso in considerazione. Il 13 novembre, due giorni dopo la prima udienza del caso Pfas, sempre davanti al Tribunale di Vicenza è iniziato un altro processo. Gli imputati sono cinque tra i più noti attivisti del movimento No Pfas. L’accusa è quella di aver organizzato una manifestazione di protesta pacifica davanti alla sede della Miteni senza averlo comunicato alla questura. Non è mai facile, nonostante tutto, voler bene a chi dice delle scomode verità.