Nell’inferno di Ebola

di Daniele Bellocchio, foto di Marco Gualazzini   4 dicembre 2019

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Nel Congo dilaniato dalla guerra civile il virus uccide più che mai. Ma molti credono al complotto. E rifiutano le cure (Foto di Marco Gualazzini)

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I blindati dell’esercito congolese sono dispiegati lungo la strada, le canne delle mitragliatrici tengono sotto tiro tutto ciò che si muove e i soldati delle Fardc perlustrano con i kalashnikov spianati le foreste che circondano il piccolo villaggio di Erengeti, nella regione del Nord Kivu.

È l’alba e la luce che filtra attraverso le nuvole basse e livide che anticipano la stagione delle piogge svela l’ennesimo massacro perpetrato nella Repubblica Democratica del Congo: durante la notte, infatti, un gruppo di irregolari ha assaltato il centro abitato. I miliziani hanno sparato, ucciso e barattato anche il più sottile racimolo di rimorso in cambio di un bottino di miserie: i segni della strage sono ora evidenti nel sangue ancora rappreso sulla terra e nei corpi delle vittime esposti nel piccolo obitorio.

George aveva 18 anni, era uno studente, stava ascoltando la radio quando due colpi gli hanno trapassato il ventre. E anche Kahambu, di 60 anni, adagiata accanto a lui nel buio della camera mortuaria, ha condiviso la stessa sorte: una raffica di mitra, una morte senza perché. «Negli ultimi sei giorni sono state assassinate 22 persone, non c’è sicurezza, nessuno ci protegge, i ribelli ammazzano, rubano e noi siamo soli. Soli!», grida Moise Bitchuma, portavoce della comunità: «Siamo terrorizzati perché adesso c’è anche l’Ebola. Ici c’est l’enfer! e noi siamo condannati!». Gli occhi gonfi di lacrime e le parole esasperate rivelano il dramma di vivere in una terra dove oltre cinquanta milizie uccidono e violentano per accaparrarsi il controllo di una miniera o di una collina e dove si sta consumando anche la prima epidemia di Ebola della storia in un contesto di guerra, la più spietata per numero di bambini contagiati.
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L’epidemia in corso nella Repubblica Democratica del Congo, Paese sconvolto da decenni di guerre e crisi umanitarie, 176esimo su 187 nazioni nell’Indice di Sviluppo Umano e con oltre 4 milioni di rifugiati interni, è scoppiata nell’agosto de 2018. In un anno i contagi sono stati oltre 3000, i decessi più di 2000 e il tasso di mortalità, intorno al 67 per cento, è tra i più alti mai registrati. L’ organizzazione internazionale Unicef ha fatto sapere che, su 850 bambini colpiti, 600 sono deceduti e il virus, sebbene siano stati introdotti nuovi trattamenti terapeutici e un vaccino sperimentale risultato efficace, non si arresta, tanto che dalle province del Nord Kivu e dell’Ituri ha raggiunto anche il Sud Kivu e l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha proclamato l’emergenza internazionale. La malattia, che si trasmette attraverso il contatto con qualsiasi fluido biologico di una persona infetta, inizialmente si manifesta con febbre, mal di testa e nausea, progredendo causa vomito, diarrea ed emorragie, infine il collasso di organi e apparati e quindi la morte.
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Ma ora in Congo, conseguente all’Ebola, si è sviluppata un’altra patologia: quella del complottismo e della dietrologia. Credenze popolari, superstizioni, strumentalizzazioni politiche ed esasperazione sociale hanno spinto sempre più persone a convincersi che il morbo non esista e che sia solo una strategia di potenze occulte per sterminare la popolazione locale. Dalle parole ai fatti il passo è stato rapidissimo e così sono stati uccisi alcuni medici, sono stati assaltati diversi centri di salute e le comunità locali hanno iniziato a dimostrare ostilità nei confronti delle attività contro l’Ebola, rifiutandosi di adottare misure precauzionali e impedendo in questo modo l’interruzione della catena di contagio.

«Ebola è una malattia letale e per riuscire a salvarsi è fondamentale presentarsi nei centri di cura a partire dai primi sintomi: è una corsa contro il tempo. Oggi però gran parte della popolazione rifiuta di credere all’esistenza del virus e ci troviamo quindi in una situazione drammatica. Da un lato il contagio, che non si riesce ad arrestare, e dall’altro l’insicurezza dettata dalla guerra». A spiegare la situazione è il dottore Joel Efoloko, che lavora nel Centro di Trattamento di Beni, dove vengono trasportati gli ammalati. Medici e infermieri, in scafandri ermetici, entrano ed escono da tende trasparenti in cui sono ricoverati i contagiati, controllano i parametri, continuano a somministrare le cure e monitorano i respiri, flebili aliti di vita. In una tenda c’è Eliel: ha 10 anni, è in coma, ha la maglietta e i pantaloni sporchi di sangue e una maschera dell’ ossigeno gli nasconde il viso. Il padre lo osserva dall’altro lato della tenda. È solo e statuario e piange in un sacrale silenzio con gli occhi colmi delle lacrime dolci e malinconiche proprie degli anziani. Quando gli viene chiesto cosa abbiano riferito i medici, senza spostare mai lo sguardo dal figlio risponde: «Mi hanno detto che se credo in Dio devo chiedere aiuto a Lui». «E lei, Monsieur, crede in Dio?». «È l’ultima e unica cosa che mi è rimasta!».
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A Beni, l’epicentro dell’epidemia, un’aria umida e derelitta strema come brividi di febbre uomini e donne prigionieri del panico e della disperazione. Sotto un cielo nero e greve, in mezzo a una natura matrigna e ostile, continuano a rincorrersi i carri funebri che trasportano bare di ogni dimensione. E avanzano da ogni via cittadina, anticipati da canti salmodiati e da croci su cui sono scritti i nomi dei defunti: Irene Kavira, 1 anno, Confiance Masika, 4 anni, Kymbesa Ndonia, 13 anni... Le continue cerimonie sono interrotte solo dal passaggio degli addetti al recupero dei morti, che entrano nelle case, bruciano materassi e lenzuola, aspergono di cloro le abitazioni e prelevano i corpi che vengono trasportati d’urgenza all’obitorio. Nessuno può avvicinarsi ai defunti per il rischio di contagio e ai parenti è concesso soltanto un ultimo saluto a un anonimo sacco bianco. Le urla di disperazione di Julien Faida, seduta difronte alla bara della figlia Liliane di 3 anni, con stretta tra le mani la foto della piccola, terrorizzano, perché sono grida colme di domande senza risposte: un ossessivo e sordo «perché?», sospeso e verticale come le preghiere, come le suppliche.

C’è un ecumenismo della sofferenza nelle terre colpite da Ebola. Nessuno è immune e non ci sono abbuoni di pena o sconti all’innocenza.

Nel cortile del Centro di Trattamento, due militari scortano un prigioniero di 23 anni. Si chiama Asaba Mutabasi, apparteneva al gruppo islamista degli Adf e ora cammina scalzo, nudo, avvolto in un lenzuolo impregnato di sangue, con la febbre che sfiora i 40 gradi. Marcia come un condannato, si ferma difronte al barile contenente la soluzione di acqua e cloro e vi immerge il volto, come per un’estrema, consapevole e ultima abluzione. Nel frattempo arriva un fuoristrada, uno di quelli che è stato adattato per il trasporto degli ammalati. I vetri oscurati con il nastro adesivo impediscono di scorgere chi c’è all’interno ma, appena la jeep si arresta, immediato si materializza un dolore che, assoluto e innocente, è pura tragedia, oltreché vergogna per chi osserva: perché l’assoluzione alla propria presenza, che si cerca nell’obbligatorietà di testimonianza, svanisce nell’inevitabile distanza da mantenere e nell’accettazione della rassegnazione.
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Esta è all’interno della vettura e stringe a sé la figlia Bertinette di 7 mesi. La piccola ha cuciti sul corpo i segni della malattia. Gli occhi spenti, il respiro esausto, la pelle madida di sudore e la testa appoggiata sulla spalla della madre con dolce abbandono rivelano la perdita di ogni difesa e un’imminente resa al male. La bambina ha un vestito bianco, due orecchini dorati e centinaia di piccoli riccioli neri. È aggraziata e pettinata Bertinette, così che la dignità e la bellezza di una figlia non siano sciupate neppure da quell’incubo senza risveglio.

I medici e gli infermieri chiedono con insistenza alla madre di dare loro la piccola, affinché possano provare a curarla, e le loro braccia si protendono all’interno del fuoristrada. Esta però stringe a sé Bertinette ancora più forte. Non vuole consegnarla, sa che probabilmente non potrà più né rivederla né riabbracciarla e sa che non ci saranno più ninne nanne e non ci saranno più filastrocche e non la vedrà mai improvvisare i primi incerti passi e non la ascolterà mai elaborare le prime incomprensibili parole, che sono stupore e commozione per la vita. Non ci sarà più nulla, se non la separazione, che è un abisso d’ombra in cui trascorrere il futuro e scontare in solitudine la propria condanna di sopravvissuti. I medici insistono e parlano di urgenza, di intervento immediato, di terapia e Esta li osserva da dietro una cortina di lacrime e, prima di affidare loro la bambina, la stringe ancora e ancora una volta e la bacia; poi sembra supplicare, guardando negli occhi tutti i presenti, un rimasuglio di pietà, affinché le venga concesso almeno il tempo di un ultimo addio.