2009-2019

Rivoluzione Eluana Englaro: il giorno in cui una morte ha cambiato l’Italia

di Susanna Turco   1 febbraio 2019

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È spirata dieci anni fa. E il suo caso ha fatto nascere una nuova sensibilità nel Paese. Ma la politica ha ancora paura di una legge sulla fine dignitosa

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È stata la scintilla di una «rivoluzione copernicana», l’inizio di un cambio totale di prospettiva: non solo di regole, leggi e divieti, ma di consapevolezza e cultura. Eluana Englaro è spirata il 9 febbraio di dieci anni fa, dopo 17 anni in stato vegetativo e altrettanti battaglie legali di suo padre Beppino, mentre in Parlamento strepitava Gaetano Quagliariello e nell’aria vorticavano ancora come elefanti le parole di Silvio Berlusconi: «È una persona che potrebbe anche in ipotesi generare un figlio», aveva detto l’allora premier annunciando un decreto ad hoc che non fu approvato mai.

Adesso, dieci anni dopo, neanche il leader della Lega Matteo Salvini, che pure dice di tutto, si arrischierebbe su una strada del genere. Mentre, proprio da quel momento di allora, è partito un processo politico irreversibile. Non soltanto perché, dopo moltissime fatiche e soltanto l’anno scorso, è arrivata la legge che risponde alla questione che il caso Englaro sollevò, con il via libera alle norme sul consenso informato e le disposizioni anticipate di trattamento (un provvedimento che ancora vistosamente zoppica, come raccontiamo nelle pagine successive). Non soltanto perché giudici e tribunali, mattoncino su mattoncino, continuano ad avere una parte fondamentale in questa lunga partita: dalla Cassazione nel caso Englaro, alla Consulta che a ottobre 2018 ha di fatto invitato il Parlamento a occuparsi di suicidio assistito ed eutanasia entro il 24 settembre prossimo. Non soltanto perché, giusto qualche giorno fa, la commissione Affari sociali della Camera ha iniziato l’esame della proposta di legge di iniziativa popolare che giaceva in Parlamento dal lontano 2013.
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Ma soprattutto perché non si è esaurita la spinta, l’effetto che quella vicenda ha sortito sull’opinione pubblica. La questione della fine della vita, di come affrontarla con dignità e libertà di scelta. Al di là del dettaglio tecnico - di cui molto si parlò nei mesi e anni del caso Englaro - lo slittamento e allargamento del tema è un fatto evidente. Nonostante si tratti di un tema più controverso, persino i sondaggi sono unanimi: dall’Swg a Demos, giusto per citarne un paio. Tre italiani su quattro, da qualche anno, sono favorevoli all’eutanasia e a norme che ne regolino l’accesso: le percentuali sono tra il 70 e il 75 per cento – più alte nel nord-est. La cosa più interessante è osservare come quel dato si sia modificato nel tempo. Secondo lo storico di Swg proprio tra il 2008 e il 2009, gli anni in cui si è discusso di Eluana, una quota di 30/40 per cento che era per il no, si è spostata sul sì condizionato.
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Significa che quella maggioranza, nel Paese ancor più che in Parlamento, è arrivata anche attraverso il caso Englaro. Lo ha ben presente Marco Cappato, il radicale che con Mina Welby e l’associazione Luca Coscioni porta avanti la battaglia perché quella spinta non si esaurisca: «In questi anni si è consolidata sempre più la richiesta di avere regole sull’eutanasia, oltreché sul testamento biologico: e siccome il Parlamento non decide su Marte, ma all’interno di un sistema politico e sociale, la differenza tra oggi e allora è che, se questo tema va all’ordine del giorno, noi la battaglia la possiamo vincere», dice. Non senza forti dosi ottimismo. Perché magari, sarà proprio per questo che la questione all’ordine del giorno non ci arriverà mai.
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Di certo, siamo passati dalla politica che procede per urti e decreti, al quasi silenzio. Dalle battaglie pro o contro i diritti civili – lo si fece ai tempi dei teocon ma pure nel verso opposto sotto il governo Renzi - a una tecnica, semmai, di svuotamento nei fatti. Dalla bandiera sventolata, ad esempio sulle unioni civili, a una politica che da quel capitolo sta nei fatti il più lontano possibile, e lo tratta con le molle. Dice Cappato: «Sarebbe molto difficile che il governo giallo-verde facesse oggi ciò che fece Berlusconi. Perché oggi si andrebbe a scontrare con una maggioranza dell’opinione pubblica. Non è un caso che Salvini stia zitto su questo punto. Parla degli immigrati, non dell’eutanasia. Sì, una volta ha fatto la battuta, “noi ci occupiamo dei vivi, non dei morti”, ma l’ha detto una volta sola: ha lasciato la battuta agli atti perché i suoi gruppi ultracattolici, di destra non avessero dubbi sulla sua posizione, ma non la ripete mai. Mentre “ è finita la pacchia” lo ripete tutti i giorni».

Tutti i giorni, invece, a Cappato arrivano richieste d’aiuto. Quasi 700 non anonime da quando nel 2015 ha iniziato la disobbedienza civile, dà informazioni, mette in contatto e in alcuni casi accompagna chi ne ha bisogno in Svizzera. Qualcosa che, oltre a un paio di processi in corso, gli ha portato inedita popolarità tra la gente normale, persino tra i tassisti – e che è all’origine di un meme che gira sui social (ultimo esempio della serie: «Febbre e tachipirina, avete consigli?», ha domandato davvero Salvini qualche giorno fa. «Arrivo subito» è la falsa risposta che è stata attribuita al radicale).

Del resto, mentre l’opposizione tendenzialmente latita, è tramite il processo che pende su di lui per il caso di Dj Fabo, che la Consulta e il Parlamento sono stati chiamati ad occuparsi di suicidio assistito ed eutanasia. Cosa hanno in comune, Fabo ed Eluana? «In gioco in entrambi i casi, c’è l’esercizio della volontà, la concreta libertà di scelta». È questa l’eredità che si stende fin sotto i nostri piedi, e ci supera. «La Corte ha potuto valutare in un certo modo il caso di Fabo, perché prima c’era stata Eluana e tanti altri casi. Quelli che da Welby a Piludu hanno fatto ruotare completamente il sistema».

Prima il medico era qualcuno da processare se rispettava le volontà del malato, adesso è qualcuno che finisce sotto processo se non rispetta le volontà del malato. «È solo così che i giudici, nel caso di Fabo hanno potuto chiedersi: se questa persona poteva - perché poteva farlo - morire in Italia solo dopo almeno una settimana di sedazione, perché non deve essere possibile farlo in modo meno problematico e con meno sofferenze?». Se si può morire in otto giorni, perché non in otto minuti? Per questa via, si arriva a discutere del diritto - affermato per esempio dal Tribunale di Milano - di scegliere come morire, in caso di malattia irreversibile, che non risponde alle cure, e provoca insopportabili sofferenze. Eccolo, il prossimo traguardo: «Che senso ha, come è oggi, che un malato possa scegliere, e un altro no, solo sulla base del fatto che sia o meno attaccato a un macchinario?», si domanda il radicale: «È ovvio, ci devono essere delle condizioni precise, per poter accedere. Ma poi bisognerebbe di volta in volta valutare il come: interrompendo una terapia sotto sedazione, oppure con iniezione letale, oppure bevendo da un bicchiere, come accade in Svizzera».

Sembra francamente fantascienza, eppure Cappato ritiene che si arriverà a qualcosa del genere anche in Italia: «È sicuro che ci si arriverà. Bisogna vedere quando. Ma è già quello che accade, più o meno di fatto. Perché, intanto, la gente va in Svizzera e lo Stato italiano lo sa. E allora domando: perché non interviene? È raggiunto, diciamo una due volte al mese, dalla notizia che un italiano è morto in quel piccolo comune vicino a Zurigo o Basilea... Se le autorità di polizia volessero indagare sugli aiuti alla morte volontaria in Svizzera, potrebbero aprire decine di provvedimenti domani mattina. Perché non lo fanno? Evidentemente, tempi sono giudicati maturi, dalle stesse autorità dello Stato, per porre nuove regole». Eppure, il Parlamento tace: ha ancora otto mesi per fare qualcosa, prima che intervenga la Corte costituzionale a modificare il reato di aiuto al suicidio - risalente al codice Rocco.

Adesso, la questione si autoregola di fatto: sulla base della ricchezza individuale. Statisticamente, infatti può andare in Svizzera uno su mille: servono soldi, tempo, persone intorno disponibili. Anche Fabo, fa l’esempio Cappato: «Se avesse abitato non dico a Canicattì, ma anche a Caserta, forse non ce l’avremmo fatta. Da Milano, per un viaggio da tre ore e mezza ce ne abbiamo messe quasi sei. Quasi impossibile sarebbe stato dover fare mille chilometri: due o tre giorni di viaggio, un rischio enorme di morire prima di arrivare a destinazione».

Per le statistiche Istat, le ultime disponibili risalgono a tre anni fa, circa mille suicidi l’anno sono messi in atto da malati terminali. Non pochi. Resta tuttavia difficile credere che questo governo e questa maggioranza possano affrontare una questione del genere. Una maggioranza Pd e Cinque stelle - per scarsa incisività dell’uno e scarsa chiarezza dell’altro - appare molto difficile che si metta insieme. Anche se, fa notare Cappato «potenzialmente c’è», come c’è stata per approvare la legge sul testamento biologico approvata alla fine della scorsa legislatura. Di certo, quella potenziale maggioranza finora non si è mossa.

Eppure una iniziativa politica servirebbe. Una regolazione del fenomeno, anche: perché non è che diversamente le persone smettano di morire. «Molti di quelli che si rivolgono a me», racconta Cappato «non avrebbero il diritto ad accedere alla morte volontaria non dico in Italia, ma neanche in Svizzera, Olanda, Belgio. Sono depressioni, situazioni in cui c’è stanchezza di vivere. Persone che magari hanno bisogno di uno psichiatra, o di un medico che affronta la cosa con metodi diversi. Quella è la cosa grave: che si rivolgono a me. E io, a parte ascoltarli, non posso far niente per loro». Ecco dove la questione diventa pragmatica: «Dal punto di vista ideale uno può anche dire: non sono d’accordo, non mi piace che lo Stato dia la morte. Questa posizione la rispetto e la capisco. Ma allora andiamo a vedere: all’atto pratico riesci a salvare più vite creando una procedura legale dove, nel momento di valutare il diritto ad accedere all’eutanasia, si possa inquadrare anche chi va solo indirizzato verso cure più appropriate».

Ma, per fare questo, servirebbe un libero dibattito. Ci vorrebbe, soprattutto, un grado di autonomia dall’agenda dei vicepremier, e del governo, che il Parlamento sin qui ha dimostrato di non avere. «Eppure, sono loro che hanno messo nel contratto di governo il valorizzare le leggi di iniziativa parlamentare. E sono loro a dire che è questo il momento della centralità delle Camere. Un tema così può essere non è come la manovra finanziaria, non c’è il pretesto dei diktat dell’unione europea, ci può essere libertà», fa notare Cappato: «Allora, ovviamente questa è la sfida anzitutto per M5S, e per il presidente della Camera. È chiaro che se nemmeno su un tema come questo riesci a recuperare centralità, significa che ti stai muovendo in una direzione antiparlamentare». Roberto Fico, presunto movimentista grillino, può essere una personalità che incide in una battaglia di questo tipo? «Se non fa questo, non saprei che altro. Il suo ruolo è decisivo in questa fase».

Il problema è avere un governo che tenta di fare l’opposto. Al posto di Quagliariello, in effetti, c’è il ministro della Famiglia Fontana, o il senatore Simone Pillon. Qualcosa da non sopravvalutare, dice Cappato: «Per ora ho visto grandi proclami, e qualche stupidaggine. Ma non iniziative parlamentari serie contro il testamento biologico, il divorzio, l’aborto. Cioè: a parole sì. Non nei fatti. Al tempo di Eluana, Quagliariello riuscì a ottenere un decreto urgente, oggi Pillon può dire tutte le sciocchezze che vuole, ma la conseguenza pratica è meno di zero. Almeno a oggi. E bisogna sempre vigilare, ma non fare come se oggi quelle dichiarazioni avessero forza politica: non dobbiamo fare la guerra per trafiggere i fantasmi. E non ha senso fare di Pillon il grande leader della restaurazione contro i diritti civili, visto che oggi non lo è». Il rischio, però è che stando fermi, l’arretramento sia dietro la porta: «Siamo ancora in una condizione in cui è più facile vincerle che perderle, certe battaglie. Ma bisogna farle, perché altrimenti si finirà per arretrare, ed essere sconfitti, di fatto, nello svuotamento giorno per giorno dei diritti già conquistati».