Analisi

La Chiesa di papa Francesco e la Lega non possono che essere nemici

di Renzo Guolo   8 febbraio 2019

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Matteo Salvini

Di fronte alla sfida di Matteo Salvini, l’egemonia sui fedeli, il papa rischia di finire in minoranza. Così i cattolici si mobilitano in opposizione

Matteo Salvini
La questione migranti è, anche, la cartina di tornasole dei rapporti tra Lega e Chiesa. Tanto più intricati in quanto la Lega, abbandonato il folcloristico neopaganesimo degli albori, si vuole “partito cristiano”. Come ricorda il comizio di Salvini con tanto di rosario e Vangelo in piazza Duomo a Milano.

Una rivendicazione, quella del “partito cristiano”, che viene da lontano. Nata in territori di subcultura politica bianca, prima feudi della Dc, la Lega, per sfondare, doveva raccogliere quello che, un tempo, veniva chiamato il “voto del cielo”. Obiettivo non impossibile dopo la fine dell’unità politica dei cattolici. Anche perché gli uomini del Carroccio provenivano, in larga parte, da quel mondo. Legati più a un cattolicesimo del campanile, al peso della tradizione e al ruolo del clero come attore di legittimazione dell’ordine sociale, che a un cattolicesimo ispirato da venature evangeliche.

La partecipazione di militanti ed elettori in veste di fedeli, al rito religioso della messa e a quello sociale del sagrato, la loro presenza nei consigli pastorali, ha consentito alla Lega di non essere percepita come estranea al mondo cattolico, rendendo naturale il passaggio dall’ampolla al crocifisso. Tanto da non risentire né della decisa opposizione ecclesiale alla rottura dell’unità d’Italia, invocata dal secessionismo padano nei primi anni Novanta, né del mai rinnegato rapporto con gli allora scomunicati lefebvriani.

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Divenuta stabile forza di governo, la Lega ha poi cominciato a guardare ai tradizionalisti dentro la Chiesa. Un “entrismo” manifestatosi nel sostegno ai vescovi contrari al dialogo religioso o fautori dell’accoglienza su base religiosa degli immigrati, come Maggiolini e Biffi, e nell’ostilità verso gli aperturisti Martini e Tettamanzi.

L’interventismo leghista nelle vicende ecclesiali, un’anomalia nella storia italiana, almeno quella repubblicana, che semmai l’ha visto soventemente praticare a parti inverse, origina una sorta di cesaropapismo in salsa verde, con la pronuncia a favore o contro la nomina di talune guide episcopali in base ai loro orientamenti pastorali. Un’irruzione della politica nella religione, che non si arresta nemmeno di fronte a temi come il significato del Vaticano II, con i leghisti schierati su posizioni anticonciliari e, comunque, vicini a quanti sostengono la lettera più che lo spirito del Concilio, l’ermeneutica della continuità della Chiesa post-tridentina più che quella della discontinuità.

In ogni caso, quella leghista è una visione del cristianesimo come religione etnica su base locale, come elemento identitario di un popolo che vive storicamente in un determinato territorio. Una concezione del mondo in cui la religione funziona da sbarramento verso chiunque non appartenga, preferibilmente per nascita, a quella comunità. Assunto che nega alla radice il carattere universale del cristianesimo. Una religione in cui la Croce viene impugnata a rovescio, divenendo spada da brandire verso lo straniero, tanto più se religiosamente altro.

Di fronte a questa torsione identitaria l’episcopato italiano ha adottato nei confronti della Lega, durante la lunga era ruiniana, un pragmatico realismo che teneva conto sia del suo ruolo nel sistema politico, sia del consenso che mieteva nel mondo cattolico. Nonostante i timori espressi da gruppi e esponenti cattolici, i vertici ecclesiali del tempo non hanno mai percepito la Lega come un serio problema. Tanto meno dopo la sua “costituzionalizzazione”: politicamente minoritaria, era obbligata a governare in una coalizione in cui il garante verso la Chiesa era Forza Italia. E ciò bastava.

Nonostante la Lega propugnasse, ciclicamente, una religione senza Chiesa, idealmente trasmessa da una comunità di popolo in versione identitaria e patriottica, e, sempre, un cristianesimo senza Cristo, estraneo a misericordia, dignità della persona e diritti umani per tutti, la Cei ruiniana si asteneva dall’aprire una discussione sul cosa significasse, per un partito che si proclamava tale, definirsi cristiano. Del resto non erano solo alcuni parroci ma anche importanti prelati a ritenere che fosse preferibile prendere atto del consenso popolare di quel partito e della sua “condivisione dei valori della Chiesa”. Per una Cei concentrata sulla “questione antropologica” e sui “valori non negoziabili”, l’appoggio del Carroccio a provvedimenti in materia di bioetica e famiglia era, infatti, più rilevante della battaglia su temi come la solidarietà e l’accoglienza, considerati divisivi nel mondo cattolico.

Una linea oggi non più replicabile. Non solo per la svolta imposta da Bergoglio , rispetto ai papati di Wojty?a e Ratzinger, e delle posizioni della Cei di Battisti rispetto a quelle di Ruini e Bagnasco, ma perché molto è mutato anche sul piano politico. Innanzitutto, la Lega non è più un partito locale di minoranza ma un partito nazionale egemone a destra. Se il voto del 4 marzo ha fatto emergere tra i fedeli un consenso non da sottovalutare nei confronti di Salvini, non di meno la Chiesa non può restare passiva: pena la fine della possibilità di orientare il suo gregge su valori che questo papato ritiene fondamentali. Il rischio è l’esplosione di un rancore generalizzato contro ogni forma di umanità i cui simboli sono i muri, il filo spinato, i porti chiusi.

Da qui la crescente mobilitazione di quanti ritengono sia venuto il tempo di opporsi al leghismo. Un mondo che, contrariamente al passato, avverte alle spalle il sostegno alla linea del Buon Samaritano della Chiesa, delle sue organizzazioni, dei suoi media. A partire dal tentativo di convincere chi si proclama credente che la paura non va esorcizzata ma nemmeno usata strumentalmente a fini politici e che il concetto di sicurezza che si va affermando non è coerente con i valori del Vangelo. Un sentire culminato nel clamoroso “Vade retro Salvini” di Famiglia cristiana e nei meno gridati ma fermi articoli di Avvenire. Una battaglia, ingaggiata da molti vescovi, che investe anche l’uso strumentale dei simboli cristiani. E che fa dire al direttore della Civiltà Cattolica, Spadaro, che «La croce è segno di protesta contro peccato, violenza, ingiustizia e morte. Non è mai un segno identitario. Grida l’amore al nemico e l’accoglienza incondizionata».

Chiesa e Lega sono, dunque, a un bivio. Anche perché la sfida ha assunto carattere insieme politico e religioso. Sul versante ostile alla Chiesa di Bergoglio si sta, infatti, formando un fronte che salda insieme leghisti come l’ipertradizionalista ministro Fontana e quanti, nelle gerarchie ecclesiali, non si riconoscono nella linea di papa Francesco: come il cardinale Burke. Il porporato tradizionalista, firmatario dei dubia sull’esortazione apostolica “Amoris Laetitia”, è vicino a Steve Bannon, punto di riferimento della destra estrema a stelle e strisce e mente di “ The Movement”, organizzazione alla quale aderisce anche Salvini.

Un fronte che punta all’alleanza di populisti e sovranisti in Europa. E che sogna un continente dall’identità cristiana marcatamente conservatrice. Magari con tanto di preambolo valoriale formalizzato, in una logica di esclusione, in una costruzione giuridica destinata a diventare quella costituzione europea che miopi egoismi nazionali hanno bocciato in passato.

L’intesa tra movimenti politici ispirati al cattolicesimo identitario italiano, a quello neovandeano lepenista francese, a quello slavo e magiaro di Orbán e Kaczinsky, prefigura, un mondo cattolico europeo schierato su posizioni assai diverse da quelle della Chiesa di Bergoglio. Un’Europa nella quale i valori dei padri fondatori, in particolare il rispetto della dignità umana, potrebbero essere solo un pallido ricordo. Un’Europa preoccupata soprattutto di chiudere i confini, e di rinchiudere chi li oltrepassa, più che delle sorti dei “cristi” di oggi evocati da papa Francesco.