
Repubblica, l’espansione ?della famiglia a Roma.
C'è un solo spazio dove puoi respirare la forza della Famiglia. Dove puoi vivere quella dimensione in sospeso tra bene e male, tra ambizione e delinquenza. L’unico posto dove capire quale sia la loro capacità di conquistare simpatie e costruire relazioni negli ambienti più disparati. Il problema è che per essere ammessi bisogna superare una diffidenza spessa, dimostrando con i fatti di essere dotati dell’unico elemento a cui tributano rispetto: i pugni. Varcare questa barriera per una donna è doppiamente difficile. Grazie alla mia vocazione giovanile per le arti marziali, riesco a provare la mia competenza: il sacco non mente, si vede subito se sai dare i colpi giusti. Solo così riesco a scendere quei gradini che portano all’ingresso di grotte di cemento dove si ritrovano per praticare lo sport che sentono più loro. Qui, sotto il livello strada, la luce entra con difficoltà. Le panche scheggiate rimangono in penombra tra guantoni lisi e protezioni rattoppate con lo scotch. Attorno vecchi sacchi appesi a catene rugginose, stracci buttati in un angolo, asciugamani che tracimano dalle ceste di fronte agli spogliatoi.

Oscillano, cigolano e non trovano quiete. Quindici minuti e poi via a far montanti, con i sacchi di potenza legati al muro fissi e stretti. Ci sono pugili professionisti e ragazzini in cerca di gloria, Mario che fa il tassista, Giovanni che ha il banco del pesce al mercato e altri a cui non si chiede il nome.
Non si fanno domande. «Qui dentro è come se fosse una zona franca», ammette l’allenatore dopo avermi visto più volte lavorare duro. «Trovi il rapinatore, chi fa gli impicci, anche il Casamonica è tollerato. Quel che conta è che non rompa il cazzo. Pure se vieni da una famiglia di stronzi, se non fai lo stronzo in palestra difficilmente ti si rinfaccia». Perché il pugile è uno che fa della dimensione palese dei pugni un vanto. È diretto, aggressivo, ma non è un infame. Ed essere pugili diventa un abito mentale e una redenzione che ti salva dalla strada. Emanuele in queste periferie tira cazzotti da quando è ragazzino e nel suo ruolo di allenatore viene rispettato.
«Uno di quelli con cui facevo boxe lo chiamavano “lo zingaro”. Si sapeva che faceva a botte per strada, ma in palestra non si può essere spacconi. Era una testa di cazzo con cui non potevi discutere, più forte che bravo a tirare pugni.» Potenza senza stile. Ormai a Roma e in tutte le palestre dell’Italia centrale c’è un modo di dire: «Menano come zingari».
Media distanza, gancioni, botte al viso, orientati all’attacco e poco alla difesa. Cazzotti su cazzotti. Molto rudi, poco tecnici, disposti a tutto. Come fuori dal ring. A volte le palestre se le comprano per evitare problemi e fare a modo loro. E la boxe raccoglie solidarietà trasversali: più che appassionati, sono iniziati. Gente della periferia e del centro, poveracci e imprenditori, scaricatori e avvocati: pronti a immedesimarsi in chi mette tutto in gioco contando solo su muscoli e fiato.
Per questo le palestre diventano buone anche per lanciare un nuovo soggetto politico. Come la Lista civica meritocratica, una creatura di Domenico Spada. Cappello in testa, tuta bianca e nera, sale sul ring della sua Vulcano Gym per dieci minuti ininterrotti di show. Senza guantoni ma con il microfono in mano. Gli Spada, i “cugini” dei Casamonica, ramo cadetto della stessa dinastia rom, esordiscono con l’immancabile dose di autocelebrazione: «Domenico Spada è una brava persona. Spada si nasce non si diventa».
È il 25 novembre 2017, il comizio, come riportano i quotidiani, può iniziare: «Un re senza il popolo non è nessuno. Purtroppo è tutto strumentalizzato dai giornali. Abbiamo bisogno della meritocrazia, basta con i favoritismi e con la strumentalizzazione dei media. Io sto cercando di migliorare me stesso. E poi insegniamo i valori ai bambini».

Eccolo assestare il secondo colpo, illustra il suo personalissimo impegno per risolvere la questione del bullismo: basta rivolgersi a lui. «Io avevo tre bambini vittime di bullismo a scuola. E chi ha eliminato il problema? I carabinieri? No. Il preside? Nemmeno. Sono stato io, Domenico Spada», chiarisce orgoglioso. I primi a calcare il ring dopo il suo comizio sono proprio quattro baby pugili, della famiglia Spada naturalmente. Domenico, classe 1980, sfidante mondiale per il titolo dei medi, è stato campione del mondo Silver WBC. Ribattezzato Vulcano per il suo carattere esuberante, è il cugino di Carmine, ritenuto dagli investigatori il boss di Ostia, e di Roberto Spada che con una testata nel novembre 2017 fracassò il naso al cronista Daniele Piervincenzi e con una spranga infierì contro il filmmaker di RaiDue Edoardo Anselmi. Domenico e Roberto sono entrambi uniti dal richiamo per la boxe e per la politica. Ma se Roberto si è limitato a dare la sua benedizione via Facebook a Casapound, Domenico pensa più in grande. Difende con carisma da fighter la famiglia: dice che è tutta una messa in scena, lui sta pagando per il cognome che porta. Peggio, è una questione di razzismo. È lui a rappresentare l’Italia nel mondo. Omette di aver incassato una condanna in primo grado a sette anni e otto mesi per usura (…) «Vola come una farfalla, pungi come un’ape» diceva Muhammad Alì. Quello dei Casamonica è uno stile diverso, solo botte e resistenza. Colpire e incassare, senza poesia, badando al risultato. Una maniera di battersi che ha fatto scuola. «Menare da zingari», appunto, sottolineando anche la contaminazione tra sport e malavita. (...) Le braccia sono un patrimonio. Percosse, legnate, pestaggi sono un’arte di Famiglia, ne hanno fatto un metodo e un vanto. La loro leggenda manesca non ha più bisogno di essere esplicitata, diventa la garanzia per mandare avanti l’attività illecita più lucrosa: l’usura. Tutti sanno che sono capaci di una violenza illimitata. Un ragazzo l’hanno picchiato con così tanta rabbia che non si è svegliato. «È rimasto in coma per diversi giorni. Una volta hanno massacrato un automobilista solo perché gli aveva tagliato la strada» ricorda Debora Cerreoni. Confondono un caporale dell’esercito che gira in motorino per un loro avversario. E giù sprangate, tanto da provocargli quaranta giorni di prognosi. Minacce e cazzotti non si interrompono mai, sono il sistema.
«Me sto annà a pijà anche tu’ madre e tu’ fratello, ce rimette tutta la razza tua» avrebbe urlato a un debitore il giovane Antonio Casamonica dopo averlo bloccato nel parcheggio del centro commerciale e preso in ostaggio a garanzia di un prestito. Quando si parla di usura c’è sempre la tendenza a guardare le cose da lontano, con un atteggiamento distaccato. Come se la questione riguardasse sempre gli altri mondi, persone che hanno scelto di scendere in questo girone infernale accettandone i rischi. Eppure in quest’epoca di crisi basta poco per cadere nelle mani dei cravattari. Non è solo il destino di imprenditori e negozianti poco accorti, a cui le banche tagliano il credito. Non è solo l’inevitabile corollario di vizi come il gioco d’azzardo, le slot machine o la cocaina. Le cronache sono colme di padri separati ridotti sul lastrico, di pensionati che non arrivano a fine mese, di impiegati che non ce la fanno a saldare il mutuo.
Il crollo dei ceti medi ha arricchito i baroni dei prestiti, moltiplicando la platea dei questuanti. Una massa impoverita che si ritrova disposta a tutto. Finire nella rete della Famiglia a Roma è facile. Non accade più solo nei territori dove vantano un dominio consolidato: anche dal centro storico, anche dai quartieri bene le vittime si mettono in fila per un prestito. Sperano di riuscire a limitare i danni, senza rendersi conto di avere davanti un baratro. Tra tanti racconti simili, colpisce quello di Simone. Ha poco più di vent’anni quando chiede solo ottocento euro. Li ottiene senza bisogno di garanzie. Perché la garanzia sei tu, è la tua stessa vita. Oggi Simone ha più di trent’anni, ha restituito tra i cinquanta e i sessantamila euro, ma non è ancora finita. «Che devo fare io? Mi sono venduto una casa, gli ho dato tutto quello che potevo... Di soldi gliene ho dati proprio tanti, tanti, senza motivo» ragiona. Ma il motivo Simone lo sa: perché ha un padre, una madre e teme che gli facciano del male, perché è stato massacrato di botte, perché «loro volevano mettere le mani sulle case, le mani su tutto, sai quante volte: dammi quello, dammi quell’altro, dammi la macchina».
E allora Simone accetta tutto, «perché uno ha paura». Pur di sfuggire alla morsa, promette che gli avrebbe versato centinaia di euro al mese per tutta la vita. Si dichiara schiavo per sempre e loro lo prendono in parola. «Ci sono stati momenti che gli dovevi portare quattro o cinquemila euro e gli dici: guarda non ce li ho. Ti darò due o trecento euro fin che ti va a te... Cioè, per cercare di non farti menare. E allora loro smuovono subito la palla al balzo...

“L’hai detto te per tutta la vita!”. Ma se devo comprarmi la tranquillità e gli devo dare una piotta o due piotte, gliele do» confida. Cento, duecento euro per comprarsi il diritto di sopravvivere. Gli aguzzini sono abili. Usano frasi scelte con attenzione, soprattutto al telefono: «fratello», «amico», «tesoro», «bellissima» e poi «fammi una gentilezza», «ti voglio bene», «sto male», «solo un regalino». Ma quelle parole non trasmettono serenità. Sono un segnale chiaro: o paghi subito o sono botte. Senza speranza di fuga. Perché i Casamonica «sono la famiglia più pericolosa in Italia, me sparano in testa, veramente perché sò tanti, sò dappertutto» confessa una vittima.
E quel che resta è solo un coro di paura e omertà: lo specchio di una città rassegnata alla loro arroganza. «Sono degli animali che squartano le persone... neanche sotto tortura li denuncerò» dichiara un altro giovane a cui stringono il cappio da anni. L’usura è una miniera d’oro che non si esaurisce mai. Hanno imparato da Enrico Nicoletti, dall’uomo diventato famoso come il Cassiere della Banda della Magliana, a renderla un sistema industriale. E la usano per trasformarsi a loro volta in imprenditori, diventando soci occulti di negozi, bar, ristoranti. Una macchina a ciclo continuo. Vittime eccellenti e sconosciuti fanno la fila per essere ricevuti.
È la radiografia di una parte di Roma che sprofonda nella loro ragnatela, senza distinzioni di ceto o notorietà. Un enorme serbatoio di disperati che si immerge nella periferia estrema e diventa loro proprietà. Il tasso minimo è del venti per cento al mese. Se non lo rispetti, lievita. Hai una sola via d’uscita: restituire tutto nel tempo fissato. Altrimenti puoi arrivare a pagare dieci volte il capitale, se hai la fortuna di riuscire a raccogliere i soldi. Altrimenti ti ritrovi per sempre schiavo, costretto a piegarti davanti a ogni richiesta. Gli affari sono affari. Non si guarda in faccia nessuno. Neppure gli amici, quelli con cui vanno allo stadio a vedere le partite della Roma, o il pasticciere che ha imparato pure qualche parola di romanì.
«A lui lo costrinsero a vendere la casa, ma non erano contenti e iniziarono a minacciarlo di nuovo. Un giorno sparì e lo ritrovarono sotto un ponte del Tevere, sporchissimo, ferito» racconta Debora. Sono un rullo compressore. All’inizio toni accomodanti, minacce sussurrate alternate a blandizie, dilazioni concesse a fronte di aumenti «solo per questa volta... ». Poi i solleciti si fanno pressanti, con le convocazioni di persona. Una lenta asfissia, quella del cappio che si stringe. Il loro metodo è esasperante. Massimiliano Fazzari lo chiama “il piagnisteo”. Lui, figlio di ’ndrangheta dalla piana di Reggio Calabria, arriva a Roma da piccolo «perché in quel periodo i miei zii erano latitanti in Lazio». È cresciuto tra gli esponenti di una cosca legata ai Mancuso, ai Pesce e ai Bellocco, il gotha della mafia calabrese. Ma quando ha bisogno di soldi perché un affare va male, sono i Casamonica a offrire sostegno. Non è un caso.
C’è una sapienza nella scelta dei clienti, che vengono attentamente studiati. Una radiografia dei patrimoni, delle parentele e delle relazioni. Per capire come il prestito può fruttare non solo dal punto di vista economico, individuando qualunque altra potenzialità. A Roma le conoscenze valgono più dei quattrini. Quel Fazzari, ad esempio, può fornire entrature nei giri della Calabria. Ed eccoli aprire le braccia. Lo prendono a vivere nel loro vicolo, ma in affitto. I soldi sono sempre soldi. E così Fazzari entra nell’ingranaggio. Giustificano le loro pretese fingendosi disperati: «Magari per terra hanno dieci milioni di euro e ti dicono che stanno morendo di fame».
Il “piagnisteo”, appunto. Poi chiedono sempre di più, aumentando la ruvidità dei modi. Con i professionisti si fanno assillanti. Li tempestano di telefonate, si presentano sotto casa, persino negli uffici. Un commercialista si illude di mettersi al riparo scappando in Toscana. Lo rintracciano e per punirlo tentano di sequestrare la moglie e la figlia. Gli va male solo perché incrociano una pattuglia dei carabinieri. Un altro pur di salvarsi si è trasferito dall’altra parte dell’Oceano. «Ho iniziato a pagare le rate mensili, per cinque, sette mesi ma quando non ce l’ho fatta più sono andato in America» spiega. Sua madre è ancora terrorizzata e dichiara ai magistrati: «Ho paura per quello che potrebbe succedere a me o ai miei figli se le persone con cui aveva il debito venissero a sapere.
Chiedo di non essere mai chiamata a testimoniare davanti a loro, che quanto detto rimanga segreto, ho paura a pronunciare anche il nome perché so che sono una vera e propria banda e sono molto pericolosi». Gli usurati sono un bene comune della Famiglia. Se uno finisce in carcere o per altri motivi non può recuperare gli interessi, lo rimpiazzano fratelli, cugini, mogli e persino parenti alla lontana. Sfruttano questo gioco di squadra per concretizzare la loro onnipotenza: «Formulano richieste per conto di altri, in modo da mettere l’interlocutore nell’impossibilità di replicare» rivela un commerciante.
«Questi non hanno una vita loro! Questi si devono appropriare delle vite degli altri» ragionano due dei tartassati al telefono. Il rapporto di sottomissione che costruiscono è totale. Quando irrompono sulla scena gli investigatori, le vittime non pensano di essere davanti a una liberazione. Tutt’altro. Preferiscono i Casamonica allo Stato, confermando il loro asservimento. Arrivano al punto di informare i loro aguzzini delle attività delle polizie. E non lo fanno solo i disperati di periferia, quelli che non hanno santi a cui rivolgersi. «Simò sanno tutto...» Luciano, il figlio adottivo di Franco Zeffirelli, è ignaro delle intercettazioni. Vive in una grande villa sull’Appia Antica con il padre: uno dei registi più famosi al mondo, senatore per due legislature, Grand’Ufficiale della Repubblica e Cavaliere dell’Impero Britannico. Eppure quando viene interrogato dagli inquirenti, Luciano Zeffirelli sente il bisogno di avvertire Consiglio Casamonica detto Simone. Prima, davanti agli agenti, aveva ricostruito i suoi rapporti con la Famiglia, parlandone come se si trattasse di una normale finanziaria. Un prestito di diecimila euro, consegnati fuori da una sala scommesse senza chiedere nulla in cambio. E poi altri ventimila, questa volta con un po’ di interessi: «Il primo anno gli ho restituito circa duemilacinquecento euro al mese, poi dai mille ai millecinquecento mensili per il secondo semestre. Alla fine però, trovandomi in difficoltà economica, non sono stato più regolare nei pagamenti e ho restituito quanto potevo, anche poche centinaia di euro al mese».

Non sa quantificare il tasso di interessi: ha perso il conto, sa solo che deve restituire ancora quindici-sedicimila euro. Ma, giura, «non ho mai ricevuto minacce. Io Simone lo considero un mio amico». (...) Anche Marco Baldini, conduttore radiofonico ed ex spalla di Fiorello, preferisce conservare buoni rapporti con la Famiglia, da cui sostiene di avere ricevuto soltanto «delle cortesie, molti anni fa». Baldini non ha mai fatto mistero della sua ludopatia, la dipendenza da ogni genere di puntata, elemento centrale del libro autobiografico Il giocatore (ogni scommessa è debito) (Dalai Editore 2005): gli ha tormentato la vita privata e professionale, portandolo anche a sfiorare il suicidio. Ai Casamonica è arrivato grazie alla mediazione del suo amico Enrico Migliarini, che ha un’azienda di revisioni auto nel loro feudo e gli fa da garante. Secondo la ricostruzione degli investigatori ottiene diecimila euro che nel tempo sono lievitati a seicentomila. Le pressioni sono continue. Il dj viene intercettato mentre cerca di prendere tempo: «Simone, io sono alla frutta, di più! Cioè io non so cosa fare... io non posso più campare, sono assediato da venti persone, a tutti ho detto di aspettare un po’, nessuno aspetta...». E prosegue: «Quello mi ha detto: “Non me ne frega un cazzo, trovali”. Cioè io così proprio non ce la faccio ma non sto parlando di te. Non mi fila più nessuno e mi vengono tutti addosso. Tutti, una violenza impossibile e inimmaginabile». Simone si mostra comprensivo: «Lo so, io è una settimana che mi sto a segnà, quello che potevo l’ho rifatto, mica posso darli io». Baldini allora offre un palliativo: «Ma se si tratta di poca roba, io la prossima settima ce l’ho. Tipo tremila, quattromila, cinquemila li posso anche avere... ma di più non riesco».
Poi il conduttore comincia a farsi negare, rimanda gli appuntamenti, dice che sua madre sta male, si trasferisce a Milano. Senza di lui, tocca al garante fronteggiare il saldo: «Dio, ma come faccio?» si sfoga Migliarini, disperato per il «tartassamento totale» a cui viene sottoposto. Un giorno Baldini è ospite di Barbara D’Urso a Domenica Live: l’occasione per riconquistare visibilità professionale. Anche Simone però lo vede e telefona subito al “garante”, intimandogli di far presentare Baldini. Vuole che vada nella loro roccaforte. I titoli di coda di una sceneggiatura che si ripete e il cui finale prevede calci, pugni, ferite sui corpi di chi non riesce a saldare il debito. Eppure il conduttore sostiene di avere ricevuto denaro senza interessi e di avere «più paura dei magistrati» e della denuncia per falsa testimonianza. L’usura non è solo la fucina del cash, l’infinita sorgente di pacchi di banconote. Serve anche per trasformare la Famiglia in una ramificata holding commerciale: ristoranti, bar, locali notturni, centri estetici perché, come spiega Debora Cerreoni, «quando non riuscivano più a pagare le rate si appropriavano dei beni». Le persone diventano servi, utili per sbrigare ogni pratica. E la periferia va sempre più stretta alla Famiglia.