Le aree distrutte dai terremoti, già votate al'abbandono, rischiano di rimanere isolate. Non solo l'Abruzzo  ma anche il Centro Italia devastato nel 2016. Lo confermano i dati sull'avanzamento dei cantieri

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Un paese è dove c’è «qualcosa di tuo che anche quando non ci sei resta ad aspettarti», scriveva Pavese in una delle sue più celebri lune. I paesi sono fra le macerie civili più ingombranti dei dopo-terremoti. La storia delle ricostruzioni potrebbe essere divisa in due, in Italia: da una parte gli interventi che sono riusciti a rispettare le comunità. Dall’altra quelli che le hanno svilite. Nel lento, troppo lento, risollevarsi dalle scosse dell’Aquila, così come dalle scosse che hanno attraversato l’Appennino nel 2016, uccidendo trecento persone e distruggendo Visso, Arquata del Tronto, Amatrice, ci si muove oggi sulla soglia di questa sfida per l’identità.

I dati sull’avanzamento dei cantieri e gli obiettivi per i quali vengono spesi i fondi destinati al futuro di queste terre lo confermano. Negli ultimi dieci anni, mostra un dossier pubblicato nel 2018 dal Senato, l’Italia ha stanziato 40 miliardi e mezzo di euro per rispondere ai terremoti: Abruzzo - 17,4 miliardi; Pianura Padana, sisma del 2012 - 8,4 miliardi; Centro Italia - 14,7 miliardi. Dentro ci sono voci che vanno dagli sgravi fiscali (che pesano molto sui conti finali) al primo soccorso, dagli incentivi al supporto delle amministrazioni locali. Fino agli aiuti per rialzare gli edifici. Ed è qui che cade il primo buio sui paesi. Se all’Aquila infatti i lavori sono iniziati tardi, nei comuni più piccoli il silenzio è rimasto proprio intatto.
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4/4/2019

I dati dell’Ufficio per la ricostruzione, aggiornati a marzo di quest’anno, gridano incuria: i cantieri pubblici ultimati sono solo il 18,7 per cento di quelli previsti. A dieci anni dal sisma, la metà degli interventi è ancora nel limbo fra contratti e progetti. Per i privati va un po’ meglio: quasi metà dei fondi è stata trasferita ai proprietari. Ma i lavori sono stati completati solo al 26,5 per cento, stando all’ultima relazione al Parlamento. In alcuni borghi le gru si sono viste per la prima volta solo l’estate scorsa. L’obiettivo, scriveva a settembre il coordinatore degli aiuti, Giampiero Marchesi, è completare i cantieri entro il 2026. Ma è un obiettivo «arduo», spiegava. Solo quando un’intera generazione sarà nata e cresciuta lontana da lì, cioè, gli abitanti potranno risalire le scale di casa.

Così i paesi, montani o di campagna, già votati all’abbandono, rischiano di restare isolati in fondo al cratere. È la prospettiva contro cui si stanno mobilitando i residenti delle aree distrutte dal sisma del 2016. Comitati, attivisti, ricercatori che portano proposte dal basso, come nel caso del gruppo “Emidio di Treviri”, si stanno unendo nel tentativo di tenere vive le strade, le piazze e i faggeti dell’entroterra. Oltre le macerie. E oltre le scelte imposte dall’alto. Anche questa è infatti una costante delle recenti risposte all’emergenza in Italia. Commissari e procedure d’urgenza, fondamentali per rispondere al disastro nell’immediato, vengono eternizzati, diventando il luogo delle decisioni sul futuro del intero territorio. Anche il dossier del Senato, nel fare il punto sul labirinto di norme che stabiliscono i fondi per la ricostruzione, segnala due problemi. Il primo: nel corso del 2018 la «stratificazione normativa» anziché diminuire, ha continuato ad aumentare. Secondo: il vizio dei decreti d’emergenza non passa. Anzi. L’ultima legge di Bilancio ha di nuovo esteso la struttura commissariale fino al 2020. Una terza proroga che non solo prolunga la regia unica. Ma lo fa anche in deroga al nuovo codice della protezione civile.

Su un fronte le amministrazioni pubbliche avevano provato a muoversi in anticipo, programmando l’azione. Ma il risultato non è stato per questo molto più preciso. Si tratta del grande piano per le Sae “Strutture abitative di emergenza”, un accordo quadro aggiudicato nel 2015 con la prospettiva di stabilire consegne certe, produttori adeguati e costi standard per alloggi temporanei da consegnare ai comuni delle zone a rischio terremoto. Il terremoto, nel 2016, è arrivato. E l’estate scorsa, dopo due anni, mancavano ancora all’appello circa 300 casette, oltre alle 3.500 installate a un prezzo di circa mille e 100 euro al metro quadro. Fra le Sae e i negozi, gli abitanti di Accumoli, Norcia, Visso, non demordono. E continuano a riallacciare le reti delle attività locali, della vita quotidiana. Gli ultimi governi hanno stanziato risorse importanti, investendo molto, nello specifico, sulla produzione: dai 400 milioni destinati al settore agricolo nel 2017, al mezzo miliardo di sconti agli imprenditori, alla proroga di tutte le esenzioni voluta per legge nel 2018, l’impegno a difesa delle attività produttive è uno dei codici chiave della risposta a Amatrice.

Ma rispetto ai 40 miliardi complessivamente messi in campo per gli ultimi tre disastri, c’è una cifra che non reggerà mai il confronto: quella per la prevenzione. Raramente citata, ancor più di rado finanziata attraverso schemi concreti, la prevenzione viene ricordata puntualmente dopo le distruzioni. Nel 2009 venne istituito un fondo che è andato nel tempo aggregando 963 milioni di contributi. Sono divisi fra le regioni in base criteri stabiliti dalla protezione civile e usati per rimborsare interventi pubblici e privati. La legge di Bilancio del 2017 ha aggiunto altre detrazioni per le ristrutturazioni anti-sismiche di immobili o stabilimenti. Se le richieste seguiranno le previsioni, l’impatto sulle casse pubbliche sarà in tutto di circa cinque miliardi da qui al 2025.

Franco Giustinelli era assessore delegato alla ricostruzione in Valnerina dopo il sisma del 1979. ?In un’intervista all’Espresso pochi giorni dopo le scosse del 2016 ricordava con amarezza il piano nazionale di prevenzione presentato ?30 anni fa «e poi accantonato per ovvie questioni di soldi, senza capire che oggi paghiamo di più»: per i morti e per le macerie. Il passato potrebbe e dovrebbe insegnare. Sia in negativo: come dalle selvagge speculazioni che hanno divorato l’Irpinia. Dove dopo la catastrofe che aveva ucciso 2.735 persone, nel 1981, decine ?di miliardi per il rilancio diventarono sprechi e foraggio alla camorra. Sia in positivo: come nell’esempio-modello del Friuli, che in poco più ?di quindici anni, rialzandosi dal sisma del 1976, dai suoi 189mila sfollati, dalle 965 vittime, riuscì a completare la ricostruzione delle case, e dei loro borghi attorno. Trattenendo la gente, ?le piante, la terra, che fa di un paese un paese. n