Ponteggi arrugginiti, quartieri sprangati, prefabbricati cadenti. E affari poco limpidi. La città distrutta dal terremoto è oggi più di ieri il simbolo di un'Italia mai ricostruita (Foto di Fabio Bucciarelli per L’Espresso)
Aquila oggi è il trionfo del cemento. Ti secca la gola con le sue polveri sottili, ogni volta che il vento soffia sul deserto ancora pericolante dietro la chiesa di San Domenico. Oppure ti sbarra la vista ovunque cammini in periferia: come tra i nuovi palazzi del quartiere Pettino lungo la faglia sismica che lì è sempre attiva, o davanti ai sei piani di calcestruzzo tirati su con vista panoramica sulla Conca di Fossa e su qualche cumulo di macerie mai rimosso. Ma non c’è da stupirsi, in una terra ricca di muratori. Non solo nel senso degli operai dell’edilizia che incontri dappertutto nei cantieri, ma anche nell’altro significato massonico: qualche nome dei committenti e dei tecnici pubblicati sui cartelli delle imprese li ritrovi poi negli elenchi delle logge locali dove urbanistica, progetti e alleanze hanno spesso la stessa voce impastata dai comuni interessi. È forse per questo che nel decimo anniversario del terremoto del 6 aprile 2009, nessuno trova strano che si facciano affari sulla ricostruzione: così gli appartamenti realizzati con soldi pubblici vengono rimessi in vendita da costruttori e padroni privati senza che il Comune, la Regione, lo Stato (e gli italiani che li hanno finanziati con le tasse) abbiano alcun rimborso.
La rinascita comunque si ferma qui, ai bordi della città. Tra la beffa dei cartelli “Vendesi” e “Acquistami” appesi alle finestre disabitate, mentre migliaia di persone continuano a vivere nella precarietà dei prefabbricati. E lì aspettano da dieci anni la fine del loro esilio provvisorio. Dentro le mura antiche, i restauri avviati hanno raggiunto il cinquanta per cento del previsto, con i palazzi nobili e qualche grosso caseggiato. Ma il cuore popolare delle botteghe dove abitava la gente comune e dormivano i ragazzi dell’Università è ancora una rassegna silenziosa di portoni sprangati, tetti sfondati e scale crollate, come se la scossa di magnitudo 6.3 li avesse bombardati da poche settimane. E fuori le mura, si sta perfino peggio. [[ge:rep-locali:espresso:285329714]] Nei paesi della provincia che riempivano le cronache dalle tendopoli in diretta tv, come Paganica, Onna, Fossa, Sant’Eusanio Forconese, Poggio Picenze, Castelnuovo e tanti altri, il tempo è addirittura fermo alle 3.32 di quella notte, l’ora della botta più distruttiva. Soccorsi i feriti, recuperate le vittime, le case appaiono oggi come le avevamo lasciate centoventi mesi fa: sventrate, piegate, le macerie nei cortili, le auto schiacciate, le tende che sventolano dalle finestre aperte, i vetri rotti, le porte socchiuse, le tovaglie sulla tavola, il divano impolverato, la paura per gli improvvisi scricchiolii e le transenne delle zone rosse che ancora adesso vietano agli ex residenti di tornare a vedere ciò che appartiene a loro. L’unica differenza la fa la natura: in mezzo ai vicoli, sui cornicioni, a volte nelle crepe larghe due dita crescono alberelli, rovi e bouquet di fiori di campo.
Al volante lungo le strade nella valle dell’Aterno, i paesi scompaiono uno dopo l’altro dall’orizzonte non appena svaniscono i colori del tramonto. Non ci sono più lampioni accesi lassù, finestre illuminate, negozi aperti. Muoiono così, ogni sera, nel buio. La loro sepoltura quotidiana meriterebbe la delicatezza di Elsa Morante: «Non c’è parola, in nessun linguaggio umano, capace di consolare le cavie che non sanno il perché della loro morte». Quello in corso è infatti un esperimento sociale. Soprattutto a L’Aquila: hanno mandato gli abitanti al confino, perché del centro storico si possa fare qualsiasi cosa. Non sempre, però, gli esperimenti riescono nei tempi sperati.
La ricostruzione-show firmata B&B, dai cognomi di Silvio Berlusconi allora premier e Guido Bertolaso allora capo della Protezione civile, ha consumato miliardi senza aver finora restituito la vita, come L’Espresso aveva già raccontato e anticipato nelle inchieste di allora. Nemmeno i governi nazionali e regionali che sono seguiti hanno comunque raddrizzato i conti. Troppi soldi, distribuiti alle star dell’emergenza da contratti capestro, hanno azzoppato sia la ricostruzione in Abruzzo, sia gli interventi per i terremoti successivi: Pianura Padana nel 2012, Amatrice, Norcia e Montereale tra il 2016 e il 2017.
BUSINESS MILIARDARIO Le cifre danno l’entità dell’affare. L’Ufficio valutazione impatto del Senato calcola per il capoluogo e la sua provincia una somma già spesa dal 2009 al 2018 di diciassette miliardi e 458 milioni. L’Usra, l’Ufficio speciale per la ricostruzione dell’Aquila, al 26 marzo 2019 certifica un importo già concesso di 5 miliardi e 592 milioni per la ricostruzione privata. E di due miliardi e 163 milioni per la ricostruzione di strutture pubbliche. Mentre l’Usrc, l’Ufficio speciale per la ricostruzione dei comuni del cratere, praticamente la provincia esclusa L’Aquila, conta un miliardo e 333 milioni per gli interventi privati e appena 77 milioni per quelli pubblici. Sottraendo questi costi alla spesa totale, si ottiene quanto è stato bruciato al di fuori della ricostruzione, cioè nella fase dell’emergenza gestita in gran parte da funzionari della Protezione civile e della Presidenza del Consiglio: otto miliardi e duecentonovantatré milioni investiti in opere provvisorie, che continueranno a costare sia per la loro manutenzione, sia per l’eventuale demolizione. Sono quasi un terzo del valore complessivo della ricostruzione, stimata in un primo momento in trenta miliardi. Ma anche il 47,5 per cento di quanto è stato speso finora: il prezzo dello show di Berlusconi che continuiamo a pagare. [[ge:rep-locali:espresso:285329714]] Dopo il terremoto in Friuli nel 1976, 965 morti e 189 mila sfollati, si ripararono subito le fabbriche, poi le case e per ultimo le chiese e i monumenti. Funzionò bene, tanto da diventare un modello. Dopo le scosse di dieci anni fa a L’Aquila e lungo la valle dell’Aterno, 309 morti e ottantamila sfollati, la Curia ottenne la precedenza, ma a spese dello Stato: si sono riparate le chiese, molte attività economiche e commerciali nel frattempo hanno chiuso e migliaia di sfollati abitano ancora oggi nei Map, i Moduli abitativi provvisori dei paesi, e nelle Case, i Complessi antisismici sostenibili ecocompatibili, come li ha definiti la neolingua del momento, costruiti per i senzatetto aquilani fuori della loro città.
Il monumento simbolo della ricostruzione è infatti una chiesa: Santa Maria del Suffragio in piazza del Duomo a L’Aquila, riaperta il 6 dicembre 2018 grazie al pagamento da parte dei governi italiano e francese dei sei milioni e mezzo per il restauro della cupola crollata. È anche uno dei pochi edifici storici già accessibili. All’ora dei vespri durante la settimana partecipano alla messa quindici persone, compreso il sacerdote che la celebra. I fedeli puntualmente sostituiscono le candele consumate agli altari laterali. Ma al piccolo sacrario al centro della navata, con i nomi e le foto delle trecentonove vittime del 6 aprile 2009, adulti, bambini, intere famiglie sepolte dai crolli, nessuno si preoccupa più di tenere accesi i lumini. I due candelabri sono inesorabilmente vuoti. E anche a voler rimediare, l’accendifiamma sul ripiano non funziona. È così tutti i giorni della nostra visita. Se i simboli hanno un significato, passata la retorica del decennale, l’oblio sarà di nuovo servito.
Anche Paganica era un luogo da non dimenticare. Gli abitanti in piazza dopo le prime scosse nella notte del 6 aprile. E un volontario della Protezione civile che li invita a rientrare in casa a dormire. Molti gli obbediscono. L’alba successiva illumina la disperazione dei sopravvissuti, alla ricerca dei morti e dei feriti nel paese da ricostruire. Dieci anni dopo da via delle Prigioni si entra in un mondo senza respiro. Un albero di nocciole alto due piani è cresciuto davanti al numero 34 del primo vicolo a destra. Un sacco con coperte e giocattoli sta macerandosi per terra di fronte al 20B della via accanto. Le facciate sembrano appena un po’ scrostate. Ma le persiane socchiuse lasciano spesso intravvedere gli effetti di un bombardamento a tappeto. Altri Stati come il Cile, alle prese con i terremoti, demolirebbero tutto quanto per restituire ai cittadini case più sicure, leggere, progettate fin dall’inizio con tecnologie e materiali antisismici. Non come si sta facendo ora, adattando alla normativa le vecchie costruzioni lesionate, con costose iniezioni di cemento e l’installazione di tiranti e reti alle pareti esterne e interne.
Ai piedi di Paganica, si arriva a Onna che come Pettino è attraversata dalla faglia attiva. Il paese raso al suolo, quaranta morti, l’amicizia e gli aiuti del governo tedesco di Angela Merkel. Oggi si cammina in un rispettoso silenzio, tra i ruderi di case tagliate a metà come a Pompei. Una scala porta dritta al cielo. Di un villino rimane soltanto la ringhiera del balcone. L’antico casale con la lapide che ricorda l’eccidio nazista dell’11 giugno 1944 è tenuto insieme dai ponteggi. Non tutte le macerie sono state rimosse. Della vita in un cortile restano l’impronta di un pavimento e tre ceri spenti ai piedi di un mazzo di fiori di plastica. Anche qui la ricostruzione è cominciata dalla chiesa: dal 2016 la facciata di San Pietro risplende di fronte alla schiera di rovine che erano le case di piazza Umberto I. Il 6 aprile sarà consegnato un nuovo condominio di tre piani in via dei Martiri. A pochi passi però, in via delle Massale che in realtà è un vicolo stretto, i portoni del nuovo caseggiato a sinistra si aprono sulla minacciosa facciata dell’edificio di fronte, inclinato come la torre di Pisa e tenuto su dai puntelli di acciaio.
Nello Cozzolino, 61 anni, chef e proprietario del ristorante “La Cabina” a Castelnuovo, un tempo frazione turistica di San Pio alle Camere lungo la Statale 17, l’avevamo incontrato un anno dopo il disastro. Viveva con la famiglia in un Map. Nell’estate 2016 è rientrato nella sua casa appena ricostruita, giusto in tempo per essere svegliato dal terremoto di Amatrice. Ora è alle prese con la ricostruzione del ristorante che avrebbe dovuto inaugurare a fine luglio: «I lavori sono fermi da tre mesi», racconta, «se non arrivano i soldi, le imprese non riescono a proseguire. Ma così i costi aumentano». L’attività del ristorante specializzato in piatti allo zafferano e concerti blues continua nel prefabbricato lungo la statale. Lì accanto il cognato, Eugenio Maurizi, 61 anni, gestisce il bar. La sera si siede con due ragazzi a giocare a carte: «Qui ci manca perfino il quarto per una partita a tressette». Il centro storico di Castelnuovo è da dieci anni zona rossa. Quasi tutti gli abitanti vivono nei Map.
Fossa è un altro paese fantasma. Su al belvedere il calendario è fermo a domenica 5 aprile 2009: «Campionato seconda categoria», dice l’avviso, da allora appeso nella bacheca comunale lungo il fianco destro della chiesa sprangata e puntellata di Santa Maria Assunta: «Ore 16: Polisportiva Fossa contro Cesaproba». L’ultimo pomeriggio di vita, undici ore e mezzo prima della fuga. Soltanto a Sant’Eusanio si vede qualche cantiere in più, tra i ruderi ancora pericolanti. «La lentezza non è solo colpa della burocrazia e dei soldi che non arrivano», spiega Giovanni, 59 anni, operaio specializzato in una ristrutturazione a Fossa. Anche lui abita ancora in un Map, a Poggio Picenze: «Il ritardo è dovuto agli anni e ai miliardi spesi all’inizio dell’emergenza per opere inutili. Come i puntellamenti che non servivano a nulla. A L’Aquila la mia ditta ha puntellato con i tubi Marcegaglia un palazzo che poi è stato demolito: centocinquantamila giunti con relativi raccordi al costo di 5 euro l’uno».
Lo Stato è arrivato a pagare alle ditte fino a 27 euro e 50 a giunto per la messa in sicurezza di facciate e sottopassi: «Noi ne abbiamo montati cinque milioni, faccia lei i conti. Nemmeno in centro a Londra ti fanno prezzi così buoni», dice il capo di un cantiere a Sant’Eusanio. A L’Aquila i puntellamenti hanno bruciato duecento milioni. E ora che i primi ponteggi sono stati in parte smontati, il Comune non sa come smaltirli. Nel 2016 ha provato a mettere all’asta 1.310 travi in acciaio, 737 pali e assi di legno e ben 170.722 giunti e raccordi. Prezzo base 390mila euro, con l’inevitabile perdita per le casse pubbliche. Troppo ottimismo: la vendita è andata deserta. Dall’autunno 2018 lo stesso materiale viene offerto in regalo. Succederà anche con le migliaia di tubi che, come una scandalosa opera d’arte, ancora avvolgono in un fitto reticolo la ex scuola elementare “Edmondo De Amicis”. Il terremoto non l’ha rasa al suolo. E ora, con la testimonianza diretta della giunta regionale e del provveditore del ministero per le Infrastrutture che hanno la sede proprio lì di fronte, spenderanno i primi nove milioni per provare ad adattare il vecchio edificio fuori norma. I futuri terremoti daranno la risposta.
L’era B&B e i loro successivi seguaci non hanno badato a spese. Perfino la requisizione dei terreni agricoli poi espropriati, ma anche quella delle aree inutilizzate e solo dopo anni restituite, è arrivata a costare 700 mila euro al mese di indennizzi, per la gioia dei pochi proprietari. Eppure tra tanta ricchezza, gli anziani inquilini delle palazzine prefabbricate del progetto Case di Bazzano, il loro luogo di confino a metà strada tra la città e il primo paese più vicino, continuano a incontrarsi sotto la vecchia e gelida tenda che ogni pomeriggio li accoglie con la scritta “Ministero dell’Interno – Soccorso pubblico”: «Ringrazio Berlusconi perché ci ha messo un tetto sulla testa. Ma ho perso dieci anni della mia vita, non avrei mai immaginato di rimanere qui così tanto», ammette Luciana Tomei, oggi 70 anni. Lei, Elisa Aquilio, 88 anni, Bruna Baglione, 79, Lia Romano, 92, e le poche amiche non hanno un altro luogo dove incontrarsi. Nessuno ha pensato di portare qui negozi, bar, servizi pubblici. Non c’è nulla per grandi e bambini, solo la tenda: mentre nelle stesse ore a L’Aquila i commercianti ritornati in centro protestano perché, a parte i pub dove si ritrovano gli universitari, loro non hanno più clienti.
Nicola, 74 anni, sempre seguito dal suo cagnolino Lucky, quasi scoppia a piangere. L’alloggio popolare dove abitava da solo è inagibile da dieci anni: «No, ormai di tornare a casa mia non ci spero più», dice e si asciuga gli occhi. A loro comunque è andata bene. I prefabbricati dove vivono hanno retto il tempo e sono asciutti. Al numero 4 di via Mia Martini, hanno invece sgomberato la palazzina per le infiltrazioni di umidità. Le lavatrici, i frigoriferi, il buon arredamento pagati dallo Stato però sono ancora negli appartamenti. Tanto prima o poi, in questa ricostruzione dell’assurdo, qualcuno li andrà a rubare.