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Muretti contro i muri: i mille progetti della scuola dell'accoglienza

Quartiere Pilastro, periferia di Bologna. Da sempre abitato da immigrati: prima dal Mezzogiorno, ora da tutto il mondo. Qui i maestri hanno avuto un’idea per crescere insieme. Anzi, mille

K. ha sei anni, porta il velo e non si è mai arrampicata su un albero. Fino al giorno in cui ha visto tutti i suoi compagni di classe salire sui rami, un po’ per gioco, un po’ per didattica. Perché all’elementare Dino Romagnoli la lezione si fa anche così.

Se parlasse Collodi probabilmente racconterebbe così: «C’era una volta la scuola primaria migliore del mondo. In Finlandia, direte voi piccoli lettori. Invece no: è a Bologna». Magari proprio non la numero uno ma di certo quel che accade dentro e fuori le classi di questo Istituto è una di quelle esperienze che profuma di buono. Il quartiere è San Donato, il rione è il Pilastro dove negli anni Sessanta arrivarono a frotte gli immigrati italiani, dal Sud e dal Veneto. Poi col passare del tempo la zona ha cominciato a popolarsi di stranieri, extracomunitari per lo più. Oggi nella scuola i bambini provenienti da altri Paesi sono oltre il 60 per cento. E tra una lingua e l’altra si cresce insieme. Moldavi, rumeni, sudamericani, dal Bangladesh, dal Pakistan, e poi Tunisia, Marocco, Senegal, Congo. Dalla Cina sono pochi, tanti invece dalla ex Jugoslavia, entrati dopo la guerra del Kosovo. Quasi tutti sono bambini di seconda e terza generazione, ma alcuni arrivano all’improvviso, così come all’improvviso se ne vanno, magari per qualche mese, un anno insieme alla famiglia che con la crisi prova a cercare altre soluzioni in Europa per inseguire un progetto di vita. E se non lo trovano, tornano. Nelle classi della Romagnoli, che sono sempre aperte.

In questa scuola il progetto dell’accoglienza è una sorta di bandiera, imbracciata da un gruppo di maestri capaci di insegnare ma anche di imparare insieme. «Il nostro è un lavoro tra pari», racconta Gerardo, alla Romagnoli da 12 anni per scelta. «Qui ci sono insegnanti che hanno cominciato in questa scuola e non se ne sono mai andati e chi, come il sottoscritto, si è fatto trasferire apposta in questa realtà. Faticosa, impegnativa, senza il dovuto sostegno da parte delle Istituzioni che si dilettano a tagliare in continuazione, ma estremamente appagante. La nostra non è una missione, è una passione. Non siamo impiegati, non timbriamo il cartellino e pazienza se c’è chi pensa che il nostro sia solo il mestiere in cui si fanno tre mesi di vacanze estive. La nostra visione di scuola è mettere al centro i bambini. Che non sono tutti uguali, come non lo siamo noi del resto, ma cerchiamo di far sì che le differenze, seppur spesso molto complesse diventino un fattore di crescita per tutti».
Spesso tra tutte queste lingue diverse l’aiuto maggiore arriva dagli stessi bambini, che fanno da traduttori. Loro sono i mediatori dei fratelli, a volte traducono per gli insegnanti, e per i genitori. «Ai più grandi chiediamo di farsi carico di uno dei bimbi appena arrivati», una sorta di tutoraggio dove ognuno fa quel che può per il bene comune. «Ma quando litigano a casa lo fanno in italiano. La rabbia è un sentimento forte e il fatto che usino questa lingua e non quella parlata a casa è un segnale che in classe abbiamo fatto centro».

Il lavoro sulla lingua, come in ogni scuola elementare dove i bimbi debbono imparare a leggere e a scrivere è ovviamente prioritario. Ma ancor più lo diventa quando gli idiomi sono tanti. «A volte diamo per scontate delle parole, diciamo “carota” e vediamo dei grandi punti interrogativi sulle facce dei bambini », prosegue il maestro Gerardo. «Allora mostriamo il disegno, l’immagine sulla Lim. E immediatamente si apre la porta del loro vissuto. C’è chi ha visto mettere la carota nella torta e chi non l’ha mai mangiata. Ma alla fine la utilizzano tutti anche se la chiamano in maniera diversa». Con dei risvolti che strappano un sorriso: «Provate a immaginare cosa comporti spiegare a una classe di bambini di origine straniera espressioni idiomatiche, come “avere sale in zucca”: il risultato è sempre curioso e bizzarro». Emozioni e parole: per questo la Giornata internazionale della lingua madre alla Romagnoli si confrontano le parole del cuore di ogni bambino, ognuno nella propria lingua. E per ognuno ogni cosa detta si trascina un’intera storia.

Il cibo, le feste, alla Romagnoli tutto viene usato come occasione di confronto, di mediazione culturale, di incontro. Alla festa di fine anno per esempio, si esibisce il coro diretto dal maestro Michele formato da bambini e insegnanti che utilizza canzoni di tradizioni musicali da ogni parte del mondo. Si fa musica, si gioca, le famiglie cucinano il piatto tipico del Paese d’origine e tutti assaggiano tutto. Sempre che non ci sia il Ramadan. «Ma in questo caso spostiamo la data, non sta scritto da nessuna parte che la festa di fine anno sia proprio alla fine dell’anno giusto?». Anche alla mensa le differenze vengono rispettate. C’è il pasto senza carne di maiale ma anche quello vegetariano perché i bambini musulmani mangiano solo carne halal. E come dicono i maestri, non è questione di gusto ma di tradizioni.

I progetti in questa scuola sono tanti e hanno tutti un effetto di rimbalzo, circolare, escono dalle mura dell’edificio per entrare nel quartiere che è diventato una vera e propria comunità. Come per la Festa della Lettura, dove gli abitanti del Pilastro leggono per i bambini, una sorta di evento itinerante, libri alla mano negli spazi circostanti la scuola: genitori, volontari della biblioteca Spina, persone comuni che regalano un verso, un brano, una pagina ai piccoli lettori di domani.

Al cinema invece si dedica un vero e proprio Festival. Per due settimane il progetto d’istituto coinvolge tutte le scuole del plesso, primarie, infanzia e medie, per visionare le pellicole. Si vota il film preferito e per il gran finale tutti alla Cineteca di Bologna che quest’anno ha deciso di proiettare in piazza Maggiore proprio il film premiato dal voto dei bambini.

C’è la Scuola all’aperto, che porta l’apprendimento anche nei parchi del Pilastro, Parco Pasolini e Parco dell’Arboreto. Si gioca e si studia con i fiocchi di neve, col fango dopo la pioggia, con la natura da difendere. Non potevano mancare i bambini della Romagnoli per il Friday for future, lo sciopero in difesa dell’ambiente: tutti in piazza, dopo un lungo lavoro in classe con suoni e canti. Se il mondo è nostro trattiamolo con cura. Così in classe si ricicla tutto il possibile, si costruiscono libri di cartone da riempire di parole e inevitabilmente se combatti lo spreco educhi alla condivisione. «Utilizziamo il materiale comune», racconta il maestro Gerardo. «La cancelleria costa e un astuccio più di moda può creare un dislivello in classe. Così noi facciamo spendere una cifra modesta a ogni famiglia e creiamo dei carrelli che ordinano gli stessi bambini per contenere i pastelli, le gomme, le matite. Nessuna penna è mia o tua, non ci sono le etichette con i nomi: qui il mio diventa nostro». E quando è nostro è vivo. Anche la geografia per esempio. Ci sono bambini che non hanno mai visto il mare, una montagna, un fiume perché magari hanno una percezione dei luoghi legata esclusivamente alle immagini ma mai fruita. Allora le gite servono a questo. Tutti fuori, si parte per il viaggio della conoscenza, così quel testo poi su cui lavorare acquista un senso di realtà.

E la storia? «Siamo convinti che la storia del Novecento non possa essere affrontata di colpo alle medie», dice Gerardo. «Per questo noi cominciamo da subito, dalla prima elementare, con un linguaggio adeguato che cresce a seconda delle classi, a lavorare sul secolo scorso, affrontando le due guerre e la Liberazione senza retorica né sensazionalismo. Abbiamo la fortuna di poter ascoltare la sorella di Dino Romagnoli, il partigiano ucciso a soli 17 anni a cui è intitolato l’Istituto, che porta in classe la sua testimonianza diretta. Non facciamo politica, facciamo scuola. Molti dei nostri bambini hanno vissuto situazioni di esclusione come gruppo etnico e nel loro Paese d’origine, molti di loro sanno cosa sia una guerra. E il Novecento è cruciale nel percorso di apprendimento, perché diventa l’occasione per fermarsi sui concetti fondanti di libertà e perdita della libertà».

Infine il progetto di educazione civica. In questi tempi di barriere e porti chiusi, alla scuola elementare Romagnoli ai muri si contrappongono i muretti. I muretti esterni della scuola sono stati dipinti da genitori dei bambini, madri e padri italiani e stranieri che quest’estate si sono rimboccati le maniche, nel senso letterale del termine per farli diventare una sorta di lavagna. Nel corso dell’anno poi verranno immaginate parole sullo stare insieme e sui diritti, parole chiave della Costituzione, sull’accoglienza, sulla convivenza. Quelle parole rimarranno scritte, come un manifesto che tutti potranno leggere e fare proprio.

«Noi facciamo parte di un istituto comprensivo», ci dice la maestra Laura. «E il lavoro che portiamo avanti da anni lega tutti. L’accoglienza comincia dalla materna, dove sono le maestre spesso a insegnare ai bambini le prime parole in italiano. Poi prosegue con noi alle elementari e va avanti sino alle medie, sempre con lo stesso metodo. I problemi arrivano dopo quando i ragazzi si iscrivono alle superiori e si ritrovano dentro a un sistema strutturato in maniera tradizionale. A quel punto la dispersione scolastica diventa molto alta. Però quando vediamo che alcuni si iscrivono all’università allora è un successo, non solo per loro ma per l’intero quartiere. Quello che succede qui al Pilastro è un progetto comune e condiviso che va, come direbbe De André, in direzione ostinata e contraria: perché la scuola degli ultimi 20 anni è una scuola che promuove e sostiene principi che spesso sono l’opposto del mondo in cui vive e lavora. E che a volte fallisce. Siamo bravi, ma non siamo magici».

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