Alessia ha quarant’anni, ed è nata e vive al sud, «anche se la mia città del cuore è Berlino, lì le cose vanno molto diversamente». È transessuale: tre anni fa è stata la prima cittadina della sua regione a ottenere il cambio anagrafico di sesso senza obbligo di operarsi, di «rettificarsi chirurgicamente». Prima dello storico pronunciamento della Corte costituzionale del 2015, e dell’intervento della Cassazione, faceva testo la legge del 1982 sul transessualismo, che codificava l’iter medico e burocratico per la «trasformazione sessuale». Il terzo sesso? Giuridicamente, non esisteva. Lei è una delle 400 mila transgender italiane secondo stime non ufficiose: un mondo misterioso, invisibile, rimosso, su cui si accendono i riflettori solo per scandali e fatti di cronaca nera, oppure di taglio «rosa spinto».
«L’ho capito subito di essere nata in un corpo sbagliato. Da bambina giocavo con le bambole. Alla scuola media niente partite di calcio per me, anzi, rifiutavo in blocco le ore di educazione fisica. Alle superiori (ho fatto Ragioneria) la mia consapevolezza si è cristallizzata definitivamente. Sono diventata omosessuale, o meglio, ho cominciato ad avere un “aspetto da gay”, pur non frequentandone. Quando mi sono iscritta all’Università ho iniziato quello che noi chiamiamo il Percorso, la Transizione. Prima l’assunzione (massiccia) di ormoni, poi le varie operazioni e lifting (plastiche facciali, labbra, seno). Una via crucis comune a tutte noi trans. Infine anni di estenuanti sedute psicologiche, che hanno attestato la mia “disforia di genere”, indispensabile per chiedere il cambio dei documenti. Il rapporto con i miei? Non ho mai avuto la famiglia dalla mia parte, anche se oggi il nostro legame è migliorato. Resta però intriso di eterni silenzi, di divagazioni, omissioni sul tema. Vorrei tanto parlarci, affrontare a viso aperto l’argomento finché si è in tempo». Dura la vita di una transessuale che cerca un lavoro normale nel Belpaese.
«Sono laureata in Scienze sociali. Ho mandato curriculum ovunque, ma non mi hanno dato mai retta. L’unico mestiere che mi hanno permesso di fare è stato quello della barista, da adolescente, quand’ero ancora maschio. Io sarei un’ottima assistente sociale, magari in una comunità di recupero per tossicodipendenti. Mi piace mettermi al servizio degli indifesi. Decine di colloqui di lavoro, ma sempre la solita farsa: non appena mi hanno vista dal vivo è scattata la discriminazione, il rifiuto immediato. Alle trans è negata la possibilità di lavorare».
Alessia lancia una proposta provocatoria. «Lo Stato dovrebbe aiutarci, almeno all’inizio, per legge. Perché non si introduce, nei concorsi pubblici, una piccola quota fissa destinata alle transessuali? Bisogna pur smuovere le acque in qualche modo. Sono pochissime le transessuali assunte in lavori normali nel nostro paese. La maggior parte di noi è così costretta a prostituirsi». O a esibirsi nel demi-monde dello spettacolo, anche in quello a rischio trash. Lei ha iniziato a vendere il suo corpo una decina d’anni fa, in maniera saltuaria. Da un po’ di tempo esercita a tempo pieno. «Credimi, smetterei anche subito, ma per la società italiana possiamo fare soltanto questo nella vita. Non esistono alternative, come se sia, per noi, una legge di natura. Si dà per scontato che dobbiamo prostituirci per vivere. Ti chiedono: “oggi hai lavorato?”, tradotto, “oggi ti sei prostituita?”. Siamo descritte come esseri senza possibilità di gusto o canoni estetici, senza libero arbitrio. Bambole mitologiche, macchine roventi costruite per il sesso. Quando vado a mettere il carburante, capita che il benzinaio mi dica: “Ce l’hai cinque minuti? Ci appartiamo”? E al mio rifiuto restano spiazzati, replicano con candore: “Scusa, ma non fai la trans?”. Come se fosse un mestiere».
Condannate a vivere in un presente perpetuo.
«Noi stesse ci informiamo poco e non pensiamo al futuro, ai nostri diritti civili calpestati. Non facciamo massa critica tra di noi. Siamo concentrate sulla sopravvivenza quotidiana. Ci ripetiamo: tanto la nostra situazione non muterà mai. Una donna che si prostituisce può decidere di farlo anche giusto per un giorno, un mese, un anno. Noi trans, no: è un sortilegio che ci affligge per tutta la vita. E così non vivi serena, e poco cambia se batti per strada o sei una escort di lusso. A lungo andare il corpo e la mente si logorano. Non c’è futuro per quelle come noi».
Transessualità e amore.
«Tanti uomini vorrebbero avere un rapporto sentimentale con noi, ma si tirano indietro. Temono di essere stigmatizzati, o additati come omosessuali latenti. Nessuno, alla fine, si impegna». Un nuovo fantasma si aggira nella penisola: la transfobia. «È un fenomeno molto diffuso dalle nostre parti. La repulsione-attrazione verso il differente da sé. Ma altrove non è così. In Germania, a Berlino, dove vado spesso, le trans svolgono lavori banalissimi. Le incontri alla cassa del supermercato, alle poste, a scuola, e nessuno le fissa come se si fosse appena imbattuto nel circo Barnum. Vivono alla luce del sole, frammiste agli altri. Da noi sarebbe impossibile, siamo indietro anni luce. La solita ipocrisia: in tanti, potenti compresi, “vanno a trans”, ma di nascosto. Pubblicamente invece ci perseguitano, o ci ignorano».
Siamo lontanissimi da Stoccolma, da quella Svezia che già nel 1972 aveva approvato una legge sull’identità di genere. Siamo lontani dalla Spagna, o dal Canada, che hanno fatto progressi da gigante sul terreno dei diritti del “terzo sesso”. Essere transessuale, da Bolzano a Canicattì, comporta inoltre tutta una serie di insormontabili difficoltà burocratiche. «Se volessimo prendere una casa in affitto, sarebbe impossibile, perché per i proprietari siamo giocoforza delle puttane, o comunque tali saremmo considerate dagli altri condomini. Comprarsi una tv o un divano nuovo a rate è altrettanto off-limits, perché senza un lavoro ufficiale e a tempo indeterminato non esiste nemmeno la busta-paga, e allora addio finanziamenti. Per non parlare dell’eventuale accesso a un mutuo per acquistare un appartamento. Ci mancano pezzi enormi di normalità. Ma noi siamo come tutti voi».
Nel 2018, in Italia, sono state uccise cinque transessuali. Un record in negativo in Europa, e che non tiene conto delle sparizioni, delle transgender non dichiarate e delle decine di suicidi. Si respira un clima di chiusura, di inconscia caccia alle streghe. Sarà che manca ancora un legge contro la transfobia e l’omofobia, di cui la prima è diretta discendente. In Svizzera, nell’autunno del 2018, sono diventate un reato: il parlamento elvetico ha votato compatto. Da noi, invece, il disegno di legge che contemplava l’allargamento della legge Mancino-Reale al movente d’odio basato sulla discriminazione per l’identità di genere e l’orientamento sessuale, è fermo al palo da quasi sei anni. Venne approvato alla Camera il 19 settembre del 2013, e trasmesso al Senato. Ma da allora è sparito.