Il cuneo salino penetra sempre di più modificando tutto l’ecosistema del delta. Perché mentre il Mediterraneo si alza, il corso d’acqua dolce ha sempre meno forza a causa dell'attività umana

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Gli “scanni” sono isole mobili, terre precarie di confine fra il suolo e il mare. Formate dai detriti, possono crescere fino a ospitare strade, per poi scomparire erose dal vento. Nel Delta del Po queste Parche della laguna sono paesaggio comune, con le loro dune mutevoli di conchiglie, tronchi e sabbia, a cui la corrente aggiunge da tempo altri tipi di scheletri: boe, scarpe, eliche, sedie, carcasse di animali compongono il nuovo humus di queste isole. Ma la vita provvisoria della palude riesce a crescervi sopra, comunque. A minacciarla è piuttosto un’altra invasione. Il nemico sottile si chiama cuneo salino, ovvero la progressiva e implacabile risalita dell’acqua salata lungo i rami d’acqua dolce del Po, dell’Adige e del Brenta. Fra il 1950 e il 1960 poteva accadere di intercettare la presenza di sale a cinque chilometri dalla costa; fra il ‘70 e l’80 il mare riusciva già a spingersi a 15 chilometri verso l’interno. L’aumento causò allarme, portando alla costruzione di barriere mobili su due rami della foce del Po. Ma i parametri in base ai quali erano state calcolate le paratie sono stati presto superati in peggio. Così dal Duemila a oggi i tecnici hanno rilevato eccessi di salinità fino a 30 chilometri dal mare. Il sale si sta infiltrando in tutta la regione del Delta, arrivando a superare la Romea, la statale che corre lungo gli argini e serve da collegamento e confine per fabbriche e paesi.

L’equilibrio fra acqua dolce e salata sul limite del Po è sempre stato garantito dalla spinta del fiume, capace di respingere l’Adriatico grazie alla propria portate. Nelle estati dal duemila in poi però la forza del fiume è diminuita drasticamente. Più volte il Po è sceso sotto i 450 metri cubi al secondo: una magra considerata improbabile o catastrofica negli anni ‘80. È stata misurata già 302 giorni dal Duemila ad oggi. La realtà ha superato la scienza. Il momento peggiore è stato nel luglio del 2006, quando a Pontelagoscuro, in provincia di Ferrara, il Po scivolò lento sotto i 189 metri cubi al secondo. «Per sette giorni il cuneo salino risalì così oltre Cà Vendramin, dove si trova il depuratore dell’acqua potabile che viene distribuita nelle case», racconta Giancarlo mantovani, direttore del Consorzio di Bonifica del Delta del Po: «I cittadini si trovarono a bere acqua salata dal rubinetto». Le principali cause dell’infiltrazione sono note. La prima è il livello del Mediterraneo, che si sta alzando, come avviene per gli oceani. I climatologi prevedono un innalzamento che potrebbe andare da 19 a 58 centimetri entro il 2100. Buona parte dei paesi affacciati sul golfo di Venezia rischiano di scivolare sott’acqua, seguendo la lunga parte già sommersa del Delta, che si estende per dieci chilometri oltre il bordo visibile del suolo. Il mare rivuole queste terre basse. E se il fiume è debole, riesce a farlo più agevolmente.

Come per ogni aspetto del climate change, anche in questo caso le ragioni che stancano il Po sono legate all’attività umana più che al fatalismo della natura. L’indebolimento del fiume dolce più lungo d’Italia è dovuto infatti all’aumento generale delle temperature, certo, e alla siccità, ma anche e soprattutto allo sfruttamento eccessivo delle sue acque. Lungo tutto il bacino, dal Monviso a Rovigo, il Po viene fermato e prelevato per irrigare, produrre energia, far funzionare macchinari e imprese. Ma non solo agricoltura e industria hanno bisogno di lui ormai. Anche il turismo incide, segnalano i documenti del Consorzio di Bonifica. Il turismo, sì, «perché d’estate i laghi hanno bisogno di essere pieni per consentire le gite in barca e gli approdi a buona altezza vicino alle spiagge», spiega Mantovani: «Per cui gli invasi rilasciano meno acqua a valle». Dopo l’emergenza del 2006, il Consorzio ha chiamato a raccolta amministratori e istituti, per trovare un equilibrio fra i diversi interessi. Qualche risultato c’è stato. Chiudendo alcuni rami della foce nei periodi più caldi, gli ingegneri del Delta stanno riuscendo a aumentare la pressione negli altri, ricacciando così il sale. Da tempo è invece ferma una nuova barriera, progettata per essere più dinamica e meno costosa da mantenere delle presenti. Andrebbe installata, spiega Mantovani, alla foce del Po di Pila. Realizzarla costa 25 milioni. Per ora non sono che disegni. L’urgenza intanto resta: l’avanzata del cuneo salino equivale all’abbandono dei campi. «Avevamo tremila ettari coltivati a risaia, un’economia rilevante e di enorme valore per la zona», spiega il direttore: «Ora sono meno di 700». Pochi vogliono rischiare di investire in un territorio dove il sale può entrare e intaccare foglie e radici, bruciando le piante.

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Anche se non c’è proprietà privata che possa fondarsi in eterno, in laguna, i campi prossimi al Delta sono abitati e coltivati da secoli. Il risanamento della palude - pescosa, protetta, malsana – inizia nel 600 d.C. all’abbazia di Pomposa, in provincia di Ferrara. Grazie al lavoro dei monaci degli appezzamenti si fanno fertili. È gli affreschi di Pomposa tra l’altro che intorno all’anno mille cresce Fra Guido D’Arezzo, l’inventore delle sei note come ancora le conosciamo. Nel 1575 un nuovo priore inizia una stagione di bonifiche più estesa. Poco dopo però la periferia pontificia interrompe le opere. I campi tornano salmastri, gli abitanti smettono di coltivare e diventano pescatori o cacciatori di selvaggina. È solo con l’Unità d’Italia, come racconta l’Atlante lagunare del Delta del Po, che le opere di bonifica diventano stabili, portando all’emersione di oltre 56 mila ettari coltivabili. «Le bonifiche richiedevano l’impiego di molta manodopera, attirando migliaia di persone», scrivono Emiliano Verza e Luisa Cattozzo: «Nacquero così numerosi villaggi tra i canneti o sulle sabbie degli scanni, affiancati da numerose abitazioni singole ed isolate, solitamente in canna. Questo fenomeno fu di tale portata che è possibile parlare di un popolo dei canneti e degli scanni, celato all’interno delle immense paludi del Delta».

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Lo Stato colonizza la laguna. Caccia il mare, porta tecnologia, progresso. Tanto progresso, troppo: le estrazioni di metano avviate fra gli anni ‘50 e il 1961 causano una prima, pericolosa, anticipazione della minaccia che sta vivendo la foce adesso. Lo sfruttamento dei giacimenti di metano porta infatti a un abbassamento molto rapido dei territori bonificati. le onde iniziano a erodere gli scanni. Dopo anni di avanzata dell’uomo sul mare, la prospettiva si ribalta. Dal 1951 al 1966 alluvioni devastanti annegano il Polesine, costringono all’esodo i suoi abitanti. L’acqua salata spacca gli argini, invade le stanze. Quando Sergio Zavoli visita per la Rai il villaggio di Goro nel 1963 commenta: «Anche il progresso li troverà rassegnati». Il progresso arriva a Goro il 1983, con l’introduzione delle vongole filippine. Mentre le specie adriatiche non reggevano la carenza d’ossigeno durante le secche d’estate, i molluschi asiatici reagiscono benissimo all’allevamento in laguna. Oggi l’Italia ne è il primo produttore in Europa. Il 98 per cento dei vivai è concentrato nei bassi fondali nell’alto Adriatico. Solo nel Delta veneto se ne raccolgono 10.500 tonnellate all’anno. La ricchezza e la fatica delle vongole sono il principale motivo d’abbandono scolastico. L’isolamento resta diffidenza: Goro fu caso nazionale tre anni fa per le barricate lungo la strada contro l’arrivo di alcuni richiedenti asilo.

Maria Chiara Tosi insegna urbanistica all’università Iuav di Venezia. Per quattro anni ha portato ricercatori e studenti nel Delta per studiare la fragilità dell’ambiente, analizzandone cause e conseguenze, con l’obiettivo di proporre scenari possibili da qui al 2100. I risultati sono raccolti in una serie di pubblicazioni intitolate “Delta landscapes”. «Abbiamo tracciato due direttrici estreme, provando a immaginare il futuro staccandoci dalle convenzioni del qui e ora», racconta Tosi. La prima direzione è l’adattamento. La seconda la resistenza. «Adattamento significa accettare che il mare entri per cinque chilometri dalla costa, preparandosi a una diversa transizione fra acqua e terra. Bisogna lasciare che la linea di costa arretri. E che buona parte dei terreni oggi coltivati torni palude», spiega la professoressa: «Gli alti consumi energetici di alcune idrovore non servirebbero di più. L’acqua prelevata dalle altre andrebbe salvata. Sarebbero piantate foreste per fermare l’erosione. Alcuni insediamenti, paesi, andrebbero abbandonati, accentrando popolazione e servizi». Significherebbe abbandonare la colonizzazione della laguna, il progresso di Stato che ha asciugato il pantano portando l’economia e il paesaggio che conosciamo, «ma che è una forma artificiale», ribadisce Tosi, resa possibile dalle bonifiche. Vorrebbe dire anche convincere centinaia di persone a lasciar sommergere le proprie case. Le proprie radici, per quanto transitorie. «La modernità ha cambiato il nostro rapporto con la natura. Rendendoci meno disponibili ad adattarci. La restituzione al mare di parte del territorio è troppo difficile da accettare culturalmente», riflette Tosi: «Per cui anche se ritengo il primo scenario migliore, da un punto di vista ambientale e sociale, il più probabile è il secondo. Ovvero il contrasto: rafforzare e estendere gli argini, alzare barriere contro l’erosione e il cuneo salino. La nostra proposta è che almeno avvenga contando il più possibile su strumenti naturali come le barene, le dune, gli ambienti intermedi, che sono più resilienti agli eventi estremi». Gli scanni saranno presto un nuovo confine fra i regni.