Il concorso Mibac da 200mila persone, la triste Woodstock di noi millennial
La selezione per uno dei mille posti nei musei tra padiglioni infiniti della fiera, viaggi in pullman da tutta Italia e generazioni diverse con lo stesso sogno. Che si chiama contratto statale a tempo indeterminato
di Ania Barca
30 gennaio 2020
«E se l’ossigeno non fosse sufficiente per tutti?». Quando ti ritrovi alle 8.30 di una mattina di gennaio, seduta in un padiglione senza fine a fissare il vuoto per due ore e quindici minuti, senza cellulare, la mente vaga e cerchi di ingannare il tempo prima che inizi la prova preselettiva. Ti poni domande ansiogene, conti tutte le lampade alogene sul soffitto, ti chiedi che termoregolazione corporea hanno le persone in maniche di camicia quando tu sei intabarrata dentro piumino, sciarpa e guanti, e fissi i volti di alcuni dei 200mila che come te si sono iscritti al maxi concorso del Mibac per “assistenti alla fruizione, accoglienza e vigilanza”. I posti a disposizione alla fine sono poco più di mille, ma per arrivarci c'è la preselettiva, seguita dagli scritti e dagli orali. Un percorso a ostacoli.
Le prove si tengono alla Fiera di Roma e sono una sfida alla logistica. I soli iscritti sono quasi quanto gli abitanti di Padova. Impossibile metterli tutti insieme e contemporaneamente in un posto. Così i candidati sono stati divisi in nove giornate da due sessioni e in quattro padiglioni, capaci di contenere tra le 2.800 e le 3.200 persone. Siamo tanti, davvero tanti e veniamo da tutta Italia.
C'è Luigi che arriva da Catanzaro, si è fatto dieci ore di Flixbus di notte, è arrivato a Tiburtina alle 5.30 e alle 7.30 è in fila accanto a Giorgio, che di ore di bus se ne è fatte 13 e viene dalla provincia di Enna. «Insomma sono qua ma non è che ci credo tanto, è giusto per provare», ma Luigi dice quello che in pochi hanno il coraggio di ammettere: «Beh un po’ ci speriamo altrimenti non ci saremmo sobbarcati tutto questo».
E ha ragione. Sì, perché nonostante le probabilità siano basse, circa una su duecento, tutti un po’ ci credono. Siamo finiti così, a considerare irraggiungibile un lavoro da “assistente alla fruizione e alla vigilanza nei musei”. «Trent'anni fa un posto così te lo tiravano dietro» è tranchant Valerio, romano di 52 anni: «Anche mio nipote si è iscritto, lui è nella sessione di questo pomeriggio».
Generazioni diverse tutte in fila pronte per sostenere la prova. L’età media è di 34 anni (i candidati sono per più della metà donne e provengono principalmente dalla Campania, dal Lazio e dalla Sicilia), ma ad attendere in questi padiglioni ci sono ragazzi che ancora stanno studiando all’Università e persone che dovrebbero essere più vicine alla pensione che a un contratto col Ministero dei beni culturali.
Per tutti, di tutte le età e da tutte le regioni, le due parole magiche che fanno sognare sono le stesse. “Indeterminato” e “statale”.
Mentre attendiamo di iniziare si discute di Caravaggio e della falsa prospettiva del Borromini nella Galleria Spada. Il livello è alto, pensi già che sia “troppo” alto. Ma poi ti ricordi chi sul forum online in cui i candidati si scambiano consigli e informazioni, qualcuno era nel panico perché nella suddivisione per cognome delle giornate in cui sostenere la prova non trovava il proprio. Senza pensare che non potevano essere scritti 200mila cognomi, ma serviva cercare l’intervallo alfabetico in cui cadeva il proprio. Forse questa ovvietà aveva già fatto selezione.
Siamo pronti per iniziare. Prima però passano degli incaricati con un jammer per bloccare le frequenze dei cellulari, vietati ma meglio non fidarsi, e tu tra le luci alogene intermittenti, il padiglione gigante e queste valigette con monitor che bloccano le frequenze pensi di stare nel covo dei Men in Black.
Il test è già finito. Come? Sessanta domande in sessanta minuti volano come sanno bene tutti quelli che le affrontano. C’era la logica, il codice Urbani, la sicurezza sul lavoro, qualche quesito su patrimonio dei beni culturali. Alcuni visi sono rilassati, altre bocche esplodono: «Io non voglio lavorare in un museo, io voglio fare teatro!» si sente all'uscita urlare un ragazzo che sembra aver trovato quella consapevolezza che finora al test non aveva: meglio tardi che mai. Si aprono le porte, l’ossigeno è bastato per tutti.
Non sarà così per i posti di lavoro disponibili. E neppure per le navette per tornare in stazione.