"Fratelli tutti" indica l’unica salvezza possibile: ricomporre lo scisma tra singolo e comunità
Chi scrive non è battezzato. Del resto, chi è battezzato mentre sta scrivendo? Dovremmo ricercare e reperire una scrittura ispirata e profetica, un mistico che verga sacri testi. Ma da tempo, e soprattutto in questo nostro attuale, non sappiamo quale nuovo testo sia sacro, quali parole siano attestate come ispirate e battezzate. Non a caso la ricezione di “Fratelli tutti”, la nuova enciclica papale di Francesco, la sua terza e forse più acuminata e ambigua, ritiene anzitutto politico il discorso che il pontefice sviluppa e che ai laici sembra interessare proprio perché apparentemente laicale, comprensibile in quanto orizzontale. Sembrerebbe un aggiustamento della dottrina sociale della Chiesa. Si parla di nazionalismi, di populismi, di riforma dell’Onu, di multilateralismo, di dialogo interreligioso, di marketing politico, di comunicazione, di reti, di mercato, di democrazia. E di virus: il passaggio forse più drammatico dell’intera enciclica sta nel negare che la pandemia sia un castigo di Dio, quasi che non avesse a che fare col genere umano e le sciagure che commina a ciò di cui dovrebbe prendersi cura. Una materia grassa, che si spalma come sciolina su chi analizza il presente senza sedere su nessun trono, tantomeno quello di San Pietro.
Come una talpa feroce con il muso che cozza e si intrude nella terra nera, chi legge Francesco in questa missiva al mondo, che è formidabile in quanto fa paura, cerca invano nel messaggio del Papa la violenza del gesto che spezza il pane e rivela il cuore radioso e immateriale delle cose. Il lampo mistico che si oppone all’ordinarietà del mondo è un perenne desiderio inconfessato del profano e dell’agnostico, crea l’idea e l’afflato di una magia, di un superomismo di chi misticamente vive, profetizza e medita. L’idea che un’enciclica sociale (ma quale non lo è stata?) sistematizzi il ruolo della politica e del legame sociale e dia forma a un catalogo morale del vivere secondo rettitudine, stando alle innumerevoli reazioni che il testo di Francesco ha suscitato, si inquadra in una sintesi in cui a sparire è Dio e Cristo farebbe fatica ad affiorare. Perfino il capo dei vescovi statunitensi ha riassunto la lettera come «una visione potente e urgente per il rinnovamento morale della politica e dell’economia, dal livello locale a quello globale, chiamandoci a costruire un futuro comune che serva veramente il bene della persona umana». Un orizzonte sociale piatto e troppo umano graverebbe sul capo di chi, ispirato battezzato, ha scritto e inviato al mondo parole di pura disperazione e speranza?
Si può partire proprio dalla disperazione, per smentire ogni interpretazione orizzontale della “Fratelli tutti”. Il Papa inizia affrontando un’impressionante sequenza di lacerazioni, un Getsemani la cui estensione è il mondo intero, un catalogo buio di sofferenze e devastazioni. Le chiama ombre del mondo chiuso. La frantumazione di ogni sogno e il crollo della coscienza storica, la sperequazione economica e la collettivizzazione della rabbia, la connessione pervasiva che crea la disconnessione tra se stessi e il mondo, l’incultura violenta che tende a scartare l’ultimo. Sono i segni tragici di un fato planetario assunto e realizzato con progressiva accelerazione dall’umano. Non una volta viene posta la domanda da dove il male provenga. Una fenomenologia cupa, l’analisi gelida di un mondo altrettanto gelido, che più si sovrappopola e più diviene deserto. Questo urlo di Munch emesso dal mondo e, insieme al mondo, da Francesco, conferma lo stato delle cose: un “Metropolis” ubiquitario preme alle porte della percezione e della vita umana.
È uno degli atti più disperati che si siano visti compiere a un pontefice, detto che la storia dei Papi è una reiterazione rinnovata di disperazioni dal carattere storico e cosmogonico: il cadavere di Pio XII che esplode per i gas in San Pietro nel corso dell’ostensione, il cereo sembiante di Paolo VI che supplica i brigatisti, la morte precoce di Luciani, l’urlo strozzato e parkinsoniano di Giovanni Paolo II che si affaccia sulla piazza, così pure il vento apocalittico che volta le pagine del Vangelo sulla sua bara, la scena dirompente dell’abdicazione di Benedetto XVI e quello che è forse il momento più drammatico e metafisico di questa genealogia: la predicazione solitaria di Francesco nella piazza buia e vuota all’apice del lockdown. Il “vicario di Cristo”, che peraltro proprio quest’anno ha cancellato nell’annuario pontificio questa impegnativa espressione, attraversa quello che chiama «scisma fra il singolo e la comunità umana». In questa discesa agli inferi, che sono poi il mondo che abitiamo nel nostro tempo travagliato e duro, «è la realtà stessa che geme e si ribella». Non la natura, non l’umanità: la realtà stessa. Francesco ricorre alla poesia, in questo passaggio del testo che meriterebbe una trattazione ampia e profonda, richiamando il verso virgiliano per cui «sono le lacrime delle cose e le cose mortali toccano la mente». Le cose piangono, la mente umana ne è toccata. Da questo inabissamento nella tenebra della morte in vita, nel palpitare della specie tra rischio di estinzione e delirio di potere, affiora la risposta di Francesco, ovvero la distensione di un quadro definito di valori e azioni, al cui centro e ovunque è la carità. È oggi la più decisiva tra le virtù, poiché la speranza è una difficile ed equivoca, si fonda sulla fede, della cui luce il pontefice aveva fatto l’oggetto della sua prima enciclica, “Lumen fidei”. Il tempo balugina nell’ombra.
Non è questa la sede per un commento esaustivo o rigoroso. C’è però un preciso momento, che lascia sbalorditi e che va sottolineato, nella trattazione della fraternità, la quale è oggetto dell’enciclica, ma anche prerequisito e risposta alla Caienna del mondo e della storia. A proposito dell’ispiratore del testo, cioè il santo da cui prende il nome, Francesco osserva come sia stato «un padre fecondo che ha suscitato il sogno di una società fraterna», perché come dice un passo del francescano Eloi Leclerc, «solo l’uomo che accetta di avvicinarsi alle altre persone nel loro stesso movimento, non per trattenerle nel proprio, ma per aiutarle a essere maggiormente sé stesse, si fa realmente padre». La fraternità è la risposta teologica e politica all’umano agire nel pianeta, il quale si fa mondo. E nel momento in cui Francesco la offre come piano totalizzante del discorso, già essa risulta superata: il fratello deve farsi padre. È dunque, questa enciclica apparentemente lineare e invece profondamente mistica (diciamo una mistica diffusa, che pervade ogni parola e ogni silenzio), una trattazione della paternità, un invito a essere come il padre, a incarnare il padre. Il passaggio tra fratello e padre è possibile soltanto in nome della fecondità: fecondando, l’umano fraterno diventa padre. E il padre non è qualcosa di altro dal fratello: il padre infatti è sin dall’inizio un fratello. Una fraternità di padri, una sorellanza di madri è l’orizzonte in cui si colloca la “carne umana” mossa dai venti della storia, capace di muovere la storia di tutte le dignità e di ogni indegnità.
Il 26 gennaio 2014 era una domenica, mite nel clima tiepido come una guancia a Roma, e il pontefice si affacciò dal Palazzo Apostolico sulla piazza gremita, insieme con due bambini, che istruì su come lanciare una coppia di candide colombe dalla finestra. Le lanciarono e sorrisero. Sorrisero anche i fedeli stipati tra il celebre colonnato. A quel punto prese vita una scena perturbante, che tutti osservarono traendone auspici infausti e un soprassalto dei cuori: una cornacchia e un gabbiano reale si avventarono sulle colombe albine, facendone strame. L’inoppugnabilità della natura intrattiene qui legami sospetti con il significato della storia. Per comprendere quel momento, per penetrare il mistero e la guarigione, è stata scritta e divulgata l’enciclica meno mite e tiepida del pontefice che attraversa il passaggio da un’era all’altra, al culmine della prima paura totalmente planetaria.