A marzo ha iniziato a scontare due anni di sorveglianza speciale. Perché ha combattuto in Siria con i curdi. Ma soprattutto perché è diventata un simbolo

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Sentendola parlare, snocciolare limpidamente i ragionamenti uno dietro l’altro, sembra non nutra nessuna incertezza o timore, ha lo sguardo aperto e ardente, come se ci fosse ancora tanto da fare. La voce scandisce quello in cui crede in modo preciso e sa ancora inalberarsi.

In questo il tribunale di Torino non ha vinto, non ha scalfito di un millimetro Maria Edgarda Marcucci, conosciuta come Eddi. Per lei il lockdown di marzo è iniziato come per tutti, ma in parte non è mai finito. Non rincasare dopo le 21 e non uscire prima delle 7 del mattino, non accedere agli esercizi pubblici tra le 18 e le 21, non partecipare a pubbliche riunioni. Sono alcune delle restrizioni che la sorveglianza speciale, notificata il 17 marzo e da scontare in due anni, le ha imposto. Deve anche portar sempre con sé un libretto rosso, la “carta precettiva”, in cui la polizia annota, previo avviso, ogni spostamento. 
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Eddi l’ha ricevuta dopo aver combattuto nel nord della Siria contro l’Isis, Nove mesi in cui si è unita alle fila delle Ypj, l’unità di protezione delle donne, e alla popolazione per respingere il pericolo jihadista. Le sono limitati gli spostamenti - la sua carta di identità ha un bollino di divieto di espatrio, ha riconsegnato il passaporto -, non può manifestare pubblicamente il suo pensiero o prender parola, principi costituzionali. Il tutto basato su un sospetto, un’ipotesi che possa compiere reati, e in questo è evidente il carattere repressivo della misura, rispetto a quello che deve essere l’ordine stabilito. «Vivere onestamente e rispettare le leggi», anche questo c’è nel libretto rosso. 
«Sono sbarcata sui social, e questo non è un caso», dice.

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Con l’impossibilità di una presenza fisica Eddi ha trovato, suo malgrado, una soluzione, ritagliandosi uno spazio, una piazza di incontro: «Ci sono tanti modi per contribuire e partecipare. Ho persino creato un profilo Instagram», ammette con un certo disagio. Tre soli post finora, una sorta di diario per chi si è perso le puntate precedenti. Certo, aggiunge, è «come se mi avessero detto di trascorrere due anni senza una gamba». Si potrà camminare, ma che fatica. E la mente corre alla situazione in Piemonte, dove si manifesta contro la Regione per le direttive sulla Ru486: «Caricherò la mia foto sui social, ma non è uguale». 

Parte delle sue giornate scorrono come quelle di tutti: «Attualmente sono in smart working, ma mi preparo al momento per tornare a fare quello che facevo». E si riferisce all’attività politica. Questo training prevede il confronto e la lettura, e lo dimostra la ricca libreria, per non perdere mai processi ed esperienze in atto: «Ho una formazione filosofica e prediligo questi testi. Ora mi sto interessando all’intersezione tra violenza ambientale e quella nei confronti delle donne: le idee di terra madre, l’essere creatrice, sono cose che non sento e non vivo, al di là dell’aver scelto di non aver figli».

Dice anche di scrivere, ma non qualcosa di suo, come alcuni suoi compagni hanno fatto una volta tornati dalla Siria: «La presa di parola individuale in quanto Maria Edgarda Marcucci non è mai stata una scelta attraente, preferisco i ragionamenti collettivi». Passa le giornate dividendo un appartamento con la sorella di 23 anni, in città per uno stage di sei mesi. Romana di nascita, ha una sorella e due fratelli. Torinese da dieci anni, vive in Vanchiglia, una zona centrale, che la sera pullula - o meglio, pullulava prima del nuovo lockdown - di giovani: ma lei dice scherzosamente di condividere le giornate con i vecchietti del quartiere.  «Non so come definirmi, è quello che facciamo che ci definisce, pensare è inscindibile dall’agire».
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Lo ripete spesso Eddi: l’unione del pensiero della parola e dell’azione, lo ha imparato dal movimento di liberazione siriano. E sembra che in questo suo essere la magistratura torinese abbia trovato l’ispirazione giusta per colpire: punirti per chi sei, non per cosa fai. La scelta della sorveglianza speciale, un’eccezione normativa che affonda le sue radici nel ventennio fascista, non è casuale: non ha un impianto processuale chiaro, né delle accuse precise, si muove nella discrezionalità: «Non so di che società parli la pm Emanuela Pedrotta, quando dice che sono socialmente pericolosa, o il presidente della Corte, Giorgio Gianetti, che ha accettato la richiesta: io non offendo la società in cui vivo, ma sono altri a farlo, ad esempio chi sta nel Palazzo di Giustizia. E continuano a farlo con questo provvedimento che infanga la lotta curda».

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Lei di situazioni restrittive ne ha vissute, in seguito agli scontri di Chiomonte del 2015, è finita agli arresti domiciliari per sei mesi: «La casa è la tua prigione, ora la mia prigione è a cielo aperto. A essere in detenzione è tutta la mia vita», racconta. «Con la sorveglianza speciale cercano di farti interiorizzare le limitazioni a cui ti sottopongono. E forse anche per questo molte delle persone che mi conoscono non percepiscono questa mia condizione, lo scopo è far diventare parte di te questo paradigma». C’è qualcosa di sbagliato, che deve cambiare, è il messaggio neanche troppo nascosto. 

La sua immagine pubblica è nota, dalle parole dai microfoni, sui palchi e dalle piazze, alle azioni: l’impegno politico è quotidiano sin dagli anni del liceo a Roma e continua con l’approdo a diciannove anni in Val Susa, alla ricerca di una prova, quella che poi l’avrebbe portata in Siria: «Dico sempre che metaforicamente quell’aereo verso il Kurdistan è partito dalla Val Susa. Lì ho sperimentato quanto può cambiare una comunità quando prende in mano le proprie sorti. Öcalan lo dice con chiarezza: l’autodifesa della società è la società». Anche se costa: «Quello è un territorio trasfigurato dalla lotta, ma in meglio. Costa fatica, ma è la più bella della tua vita. Diversa da quella delle otto ore di lavoro al giorno sottopagato e precario». E lì si sarebbe rifugiata, tra le montagne, se le avessero certificato il cambio dimora - una delle possibilità della sorveglianza speciale, un vero e proprio confino.

Come tutti Eddi ha affrontato il lockdown, «una cosa necessaria». Come molti all’inizio si è buttata su quello che non aveva avuto il tempo di fare prima o «cucinare qualsiasi cosa, per non farsi sempre la pasta», è passata da un buono spirito iniziale a faticare per mantenere la concentrazione nel leggere, dalle videochiamate con gli amici al silenzio e al vuoto. Ha distribuito pacchi con generi alimentari grazie ai comitati di quartiere nati dal basso.

Non ha partecipato ad aperitivi su Zoom, perché non beve: «Ma ho avuto tanti confronti in quei giorni, per elaborare quanto stava accadendo». Molti di questi oggi le sono negati: «Non associarsi abitualmente alle persone che hanno subito condanne e sono sottoposte a misure di prevenzione e sicurezza», un altro dettame della sorveglianza. E non sono state poche negli anni le azioni legali contro i NoTav.  Se non si conosce Eddi, ascoltandola si può pensare che non esca mai dal personaggio della rivoluzionaria, come lei stessa si definisce ridendo e con qualche imbarazzo: mentre elenca le mancanze dello Stato durante la pandemia e l’arricchimento di pochi sulle spalle di altri, il bisogno di un reddito universale e una legge sui patrimoni. Il fallimento della democrazia capitalista liberale. 

Ma è solo una conferma di quello che è: difficilmente la sentirete dire “io”, i suoi discorsi sono al plurale, riguardano tutte e tutti. Dopo gli scontri in valle e l’inasprimento eccessivo delle pene, il regista Paolo Virzì scrisse una lettera per difenderla: «Non vorremmo che un intervento così pesante (della Procura, ndr), finisca col trasformare te, Maria Edgarda detta Eddi, e quelli come te, ragazzi idealisti e appassionati rompicoglioni, in cinici disillusi, mosci e sfiduciati verso le virtù civili di una democrazia come la nostra». Così non è stato.
 
Eddi si schermisce quando le si chiede di commentare il libro scritto dalla madre, in cui racconta l’attesa della figlia e la paura che lo Stato islamico l’avesse uccisa: «Quello è il suo lavoro e poi è la sua visione della storia, bisognerebbe chiedere a lei». O quando ricorda le parole di commiato pronunciate nel video che tutti i combattenti registrano prima di arruolarsi: «Ho pensato e ora cosa dico? Potrebbero essere le mie ultime parole pensai, ma non era vero, tutto fa parte di un percorso. E allora mi sono rivolta alle mie compagne e ai miei compagni: continuate la lotta fino alla fine». 

Ma lei ormai è un simbolo, che rischia di diventare un pericoloso precedente giudiziario se il 12 novembre, all’udienza definitiva, le venisse confermata la sorveglianza speciale. Il 25 aprile molti l’hanno ricordata come una partigiana dei giorni nostri. Mentre Eddi portava fiori alle targhe commemorative delle donne uccise per i propri ideali di libertà.  Colpire una donna per educarne cento, sembra tornato tristemente di moda. Con Eddi c’è la compagna Dana, attivista NoTav, punita ingiustamente con due anni di carcere.

Eddi non le può neanche scrivere una lettera, non le è concesso. Una battaglia che continua anche sul corpo delle donne: «Ricordo un particolare del processo: sono stata descritta come pericolosa per il mio passo marziale. Nessuno dei miei compagni ha avuto menzione alcuna sul suo corpo. Quando una donna è sotto giudizio c’è tutto di lei. Solo con la sua esistenza diventa una minaccia per lo status quo». Donne influenzabili e quindi da disciplinare: «Da trattare con il guanto di velluto finché il potere può redimerle, ma se così non avviene, il guanto è presto sfilato via e la mano si abbatte con molta più violenza».

E c’è una donna in particolare che Eddi non abbandona mai e che mai abbandona Eddi. È Anna Campell, Hêlîn Qereçox, sua compagna caduta nella battaglia di Afrin: «Quando una persona coincide così profondamente con i propri ideali, questi continuano a camminare sulla terra. Lei è guida per me e per milioni di donne nel mondo», dice misurando le parole. La commozione è nell’aria, non è dolorosa, ma consapevole: «Ogni momento della loro vita traccia una direzione da seguire. Io per dire sono un po’ meglio di come sarei, perché agisco come agirebbe lei. Mi parla all’orecchio», e mentre lo dice pare di vederla Anna in piedi accanto a lei. 

[[ge:espresso:attualita:1.332765:article:https://espresso.repubblica.it/attualita/2019/03/18/news/lorenzo-orsetti-isis-siria-curdi-1.332765]]Questo ricordare non è una celebrazione della morte, ma c’è tutto della cultura dei martiri curdi, che non muoiono mai. Anche per questo ci si rivolge a loro con il nome di battaglia. Eddi in Siria è stata, e sempre sarà, Silan Tolhildan, rosa canina. Di solito il nome lo si eredita da qualcuno caduto prima, per una qualche somiglianza. Eddi non ha mai capito perché un suo compagno delle Ypg l’avesse scelto: un fiore tanto comune, che si può trovare in mezzo mondo. Ricorda l’essere quella goccia da cui può cominciare la tempesta, come ha scritto Lorenzo Orsetti nel suo testamento, prima di essere ucciso nella conquista dell’ultimo bastione di Daesh. Chissà se per la Procura Eddi rimarrà sorvegliata speciale per tutta la vita, ma di una cosa è certa: «Se non darò fastidio più a nessuno, vorrà dire che sto sbagliando qualcosa».