L'Espresso ha scelto come protagonisti del 2020 la vita e la morte. Quest'ultima è stata rimossa dalla cultura, ma l’anno della pandemia l’ha riportata al centro. Ma avere paura del morire significa sapere che c’è qualcosa che trascende la nostra esistenza individuale. Un Fine. E gli Eredi
Ed ecco ci siamo scontrati con lei, ad una curva imprevista (ma non imprevedibile), come quei cavalieri delle danze macabre medievali si ritrovavano all’improvviso, durante una lieta caccia, nel mezzo di un cimitero e si coprivano gli occhi, si tappavano naso e bocca. Avrebbero voluto fuggire, ignoravano come affrontarla, ma era troppo tardi.
Mai avevano giocato a scacchi con quella Signora. La loro vita era passata dimenticandola. Avevano posto ogni cura nel cancellarne le tracce, nel cercare disperatamente di restare giovani in ogni modo. De eliminanda senectute, l’arte di eliminare la vecchiaia, si intitolava il loro libro-guida. Ed ora sembra ad essi che lei venga da un altro mondo, che sia un Nemico alieno.
E possono così soltanto patirla. Un’esperienza è tale se eri in qualche modo riuscito a pensarla prima che ti capitasse, altrimenti è come il fulmine che ti incenerisce durante la gita. I più saggi tra coloro che non pensano all’incontro con lei sono quelli che ne affermano l’assoluta banalità. Cotidie morimur, dicono, ogni giorno è la morte del precedente e ci avvicina alla fine; nascendo si comincia a morire. Si muore come si nasce, e questo è tutto. L’ordine naturale è un cerchio di distruzione e riproduzione, gli individui non contano.
Ma i veri saggi, che non partecipavano alla lieta brigata dei molti, insegnavano l’opposto: studia la morte, esercitati a pensarla. Poiché è tuo e soltanto tuo l’incontro con lei. È il singolo a morire. Affrontane l’angoscia.
Perché? Forse perché i veri saggi vogliono liberarsi dalla vita, ne sentono solo i pesi e le pene? Oh no! Per trasformare ciò che è mero patire, crepare, in un verbo, in un’azione, in nostro pensiero: morire. Non si muore, ma io muoio, e voglio fare della morte una mia cosa, voglio che lei abbia il volto e i caratteri della mia vita. È per amore della mia vita che penso al mio morire. E anzitutto, certo, resistendo a tutto ciò che dal suo stesso interno la minaccia, la indebolisce, la rovina. Gli animali non pensano la morte. La mente che la pensa scova di continuo i mezzi per contrastarne il potere. La mente ha somma cura del corpo, ne desidera la potenza e cioè la massima possibile indipendenza da cause esterne. La mente vuole che il corpo sia agente, e proprio a sua immagine! Poiché la nostra azione per eccellenza, l’azione che caratterizza la nostra specie, è appunto il parlare e il pensare. Noi siamo incarnazione del Logos! La mente, che appartiene in tutto alla volontà di vita, esige che anche il morire sia nomen agentis, sia espressione della potenza del nostro esserci, non del mero patire l’irrompere di un Nemico, che finisce col sovrastarci e dominarci. Giochiamo a scacchi con lei con tutti i nostri saperi, le nostre scienze, le medicine del corpo e dell’anima.
Leggete Euripide: Ercole lotta con Thanatos (Morte in greco è maschio) per strappargli Alcesti, e vi riesce. È forse la sua impresa più bella. Ma vi riesce perché Alcesti già si è mostrata più forte di Thanatos, affrontandolo, faccia a faccia, conoscendo il significato che Morte assumeva per sé. Si deve morire, si tratta di bruta necessità? Si era chiesta la meravigliosa donna di Admeto. No, io voglio la mia morte, voglio che la mia morte sia perfetta espressione della mia vita, dei miei amori, di ciò che vivendo ho pensato e agito. Una libera morte vuole Alcesti - e per questo era già libera dalla morte, liberissima dal crepare.
Aver cura del morire significa, allora, “lavorare” la propria esistenza nell’attesa che la morte possa rappresentare per noi un compimento. Vivere come in ogni istante ella potesse sopraggiungere e trovarci pronti: abbiamo fatto ciò che potevamo, abbiamo cercato di conoscere, di educare l’intelligenza che ci è stata donata, di concepire le cose e le persone che abbiamo incontrato secondo la loro inviolabile dignità. No, non sarà mai una morte completamente vittoriosa; nessuna nostra impresa, per quanto riuscita, lo sarà mai. Apparteniamo tutti a una vicenda di tentativi e esperimenti, di cui ignoriamo il termine. Tuttavia, Thanatos, di fronte alla resa dei conti che gli renderemo, dovrà riconoscere in noi, nel nostro averlo pensato, il carattere dell’immortalità, di ciò che alla fine potrebbe anche essere capace di vincerlo!
L’allegra brigata che capita al cimitero, ha solo fuggito la morte. Ma per pensarla, invece, e perciò saperla affrontare, oltre a essere pronti a mostrare di cosa è stata fatta la nostra vita, occorrono due cose, che due cose siano per noi di essenziale valore: un Fine e degli Eredi. Non si incontra la morte da esseri agenti se queste mancano. Si crepa e basta se si lotta con la morte soltanto per sopravvivere. E si sopravvive soltanto, se non pensiamo a chi verrà dopo di noi, a chi sarà destinato a continuare l’avventura della nostra specie. Per quale Fine lottiamo ora contro la morte? Sarà debolissima questa lotta se manca di un Fine, come è debole ogni espressione di mera volontà di vita che non sia sostenuta dalla mente, priva delle medicine che la mente le procura. L’allegra brigata non aveva né fini né eredi. Per le sue cacce e le sue feste, anzi, aveva probabilmente riempito di debiti le proprie case, e figli non ne faceva da tempo. E ora, di fronte alla peste, si continua a fuggire, si cercano rimedi, come la volontà di vita esige, ma non si pensa né a mète né a eredi. Questa peste finirà, molti saranno crepati, e attenderemo la prossima, con farmaci più efficaci, speriamo, farmaci che ci permettano di pensare al morire, di averne cura, ancora meno di prima.
È Leopardi a insegnarlo (ma chi in Italia ascolta il doloroso disincanto, nulla di pessimistico, dei nostri grandi?). Se la vita vale veramente, e cioè è intenta a raggiungere qualcosa che ne trascende sempre l’esistenza finita, allora non si teme la morte, la si vive. E quando viene, in ogni momento venga, avrà la nostra impronta. Se invece la vita non vale, allora si temono vecchiaia e morte, se ne rimuove l’immagine. E rinviamo di giorno in giorni i conti con il senso del nostro agire: perché viviamo? Che cosa costruiamo per eredi e non nati? Più è misera la vita, più è un sopravvivere procedendo verso non sappiamo dove, più è stimata il sommo bene. La nostra vita è un sommo bene soltanto quando è pensare e agire per un fine che comprende in sé e trascende,a un tempo, la nostra individuale esistenza. Allora il suo concludersi appare anche un inizio. Allora forse, riuscendo a vederla in una luce di eternità, sigillandola con le parole “ho fatto tutto ciò che potevo”, riusciremo anche a morire kalos, dicevano i greci, contenti di sé.