Siamo lontani anni luce da una qualsiasi inversione di rotta. I dati confermano che essere lontani non equivale ad essere distanti ​

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La pandemia da Covid-19 sembra aver riacceso l'interesse degli expat per l'Italia. Qualcuno torna, anche per usufruire del Servizio Sanitario Nazionale che, a differenza di altri paesi, è universale e gratuito per tutti, altri ancora ci stanno pensando. Ma questa nostalgia di casa non basta per saturare l'emorragia di giovani che continuano a lasciare il Paese, incapace di dare loro un lavoro e una prospettiva di vita dignitosa. 
L'Espresso, a un anno di distanza dalla prima inchiesta sul boom di giovani emigrati all'estero, torna sull'argomento tirando le fila di un anno, il 2020, in cui decine di organizzazioni e associazioni, grandi e piccole, nuove e consolidate, si sono mobilitate per raccogliere informazioni sul modo in cui gli italiani all'estero hanno vissuto questa pandemia universale. La speranza era probabilmente quella di scoprire un’inversione di tendenza, contando su un effetto nostalgia: un aumento dei rientri (per lo meno temporanei) e un maggior interesse per il proprio Paese d'origine. Quello che si scopre invece è che siamo lontani anni luce da una qualsiasi inversione di rotta. 
 
I primi trend che emergono da tre sondaggi sul desiderio di tornare in Italia indicano un amore ambivalente per la patria. La prima ricerca, lanciata dall’associazione Manifesto di Londra - uno spazio di attivismo culturale e politico per la comunità degli italiani in Gran Bretagna - stima che il dieci per cento degli expat (circa 30mila persone) ha deciso di tornare in Italia per affrontare questo periodo, dati confermati dal Consolato di Londra. «Sono tornati soprattutto studenti, lavoratori precari o in nero, dai settori maggiormente toccati dalla crisi. Sono giovanissimi, fra i 18 e i 24 anni, spesso non tutelati dal welfare inglese», spiega Mirco Brondolin, fra i fondatori dell'associazione. La ricerca dice anche che chi è partito intende tornare nel Regno Unito quando l'emergenza Covid sarà rientrata: «Solo il 4,2 per cento prevede di rimanere in Italia a lungo e si tratta dei più giovani, emigrati da meno di un anno».
 
Analisi confermata a livello macro da “Il mondo si allontana? Le nuove migrazione italiane ed il Coronavirus”, ricerca del Centro Altreitalie sulle Migrazioni Italiane, fondato nel 2005 dalla fondazione Giovanni Agnelli. «Abbiamo riscontrato una forte volontà sia di rimanere all’estero sia di non perdere la mobilita’ pre-Covid di poter tornare in Italia, per trovare le famiglie e gli amici per vacanza o altro», dice la direttrice Maddalena Tirabassi. Il 68 per cento non ha ripensamenti, ne ha invece il 21 per cento del campione e il 14 per cento è indeciso sul da farsi: percentuali però che equivalgono alla proporzione media che rientra ogni anno, covid o non-covid. Il trend di un rientro limitato è confermato da Luigi Maria Vignali - Direttore Generale per gli Italiani all’Estero al Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale. “In risposta all’emergenza sanitaria causata dal Covid, la Farnesina ha organizzato 1185 operazioni di rientro, e riportato a casa oltre 110.000 connazionali da 121 Paesi in fase di urgenza. I dati che abbiamo per il 2020 ci dicono che ci sono dei rimpatri, soprattutto di chi era all’estero in modo temporaneo. Stimiamo un aumento del 21% nel 2020 rispetto al 2019 per i rimpatri di giovani tra i 18-34 anni, e una diminuzione di nuove iscrizioni all’Aire del 23%. Questi rientri sono però compensati da un forte fenomeno di “riemersione” di cittadini all’estero ma non iscritti all’AIRE prima della crisi. Sono emersi per restare dove sono, all’estero, e beneficiare del welfare - ad esempio in Germania abbiamo avuto un aumento di iscrizioni all’Aire del 13% e a Londra abbiamo già 400.000 italiani che hanno avanzato le procedure per il “settled status” post-Brexit. Insomma, nonostante i rientri di alcune fasce, la tendenza non indica un esodo verso l’Italia: i 6 milioni di italiani all’estero potrebbero invece ulteriormente aumentare.”
 
Sono soprattutto gli invisibili a porsi il problema del rientro, come ci spiega Tirabassi: «Mi riferisco a chi lavora in nero, a chi non e’ iscritto all’Aire, l'Anagrafe degli Italiani Residenti all'Estero, o non figura nei registri del Paese di accoglienza. Loro sono stati più colpiti dal Covid, ma sono anche le persone che non riusciamo a intercettare nei nostre sondaggi». Ed infatti gli oltre quattromila rispondenti alle tre ricerche analizzate in questa inchiesta hanno un profilo simile: sono nella fascia tra i 25 e i 40 anni, con livelli di educazione alti, una stabilità lavorativa e iscritti all’Aire. Mentre le intenzioni e il destino di chi emigra e resta nell'ombra restano sconosciute. Il terzo sondaggio “Perché viviamo all’estero?”, lanciato dai sottoscritti e CHEuropa, associazione di Italiani in Svizzera, conferma questo trend: chi ha trascorso il tempo della pandemia vicino ai propri cari viene da un background privilegiato, è rientrato il 23 per cento di coloro i cui genitori sono laureati e solo il 4,5 per cento di chi proviene da situazioni economiche critiche. Dunque, il rientro ha interessato per lo più una minoranza ben istruita e privilegiata. E non è detto che questa scelta sia definitiva, perché il Covid-19 e i suoi effetti sul mondo del lavoro - più agile e a distanza - non possono considerarsi il grimaldello per invertire la migrazione unidirezionale degli italiani verso l'estero. 
A monte, permangono infatti problemi strutturali, di cui da tempo si discute, e che non sembrano avere soluzioni all'orizzonte. Ad esempio, in Italia un giovane su due non studia e non lavora, contro il 10 per cento dei tedeschi. Non è un caso: partendo dai dati Ocse, si stima che il disinvestimento italiano su scuola, università e ricerca pesi su un ventiquattrenne per un valore complessivo di 150mila euro. Detto altrimenti, la media dei paesi europei punta sui giovani 470 mila euro nei primi 24 anni della sua vita, mentre l'Italia si ferma a 320 mila euro. A conti fatti, ai giovani italiani mancano 85 miliardi di investimenti l’anno per il loro futuro, sintomo di decenni di una bilancia intergenerazionale fuori equilibrio. Su questo numero, certo, pesa il sistema pensionistico più generoso al mondo ma anche politiche di spesa incentrate su altre fasce della popolazione: i 26 miliardi del reddito di cittadinanza e i 20 miliardi per quota 100.
 
Eppure è proprio adesso che nuove politiche dovrebbero essere pensate per riportare l'Italia in linea con gli altri paesi europei. Prima di tutto perché lo shock del Covid, che da un lato ha messo in luce la precarietà dei giovani, delle frontiere, della mobilità, rischia di essere il colpo di grazia per una generazione già trascurata, lasciata senza opportunità e sulle cui spalle ricadranno il gigantesco debito pubblico e i danni ambientali, nonché il crollo demografico che verrà. Andrebbe sfruttato il ritrovato senso patriottico degli italiani all'estero, anche se gli investimenti per uscire dalla crisi, i famosi 209 miliardi del Next Generation Eu, non saranno sufficienti a compiere il miracolo che i giovani italiani si aspettano o si meritano. Per capirci, 30 miliardi l’anno del Recovery Fund sono meno della metà degli 85 miliardi necessari per dare a un italiano le stesse risorse che ha un francese durante i suoi primi 24 anni di vita. Il gap è gigantesco e servono nuovi approcci e decisioni drastiche per compensare questa ingiustizia intergenerazionale e rendere l’Italia un paese attrattivo per i giovani, non solo italiani.  
«Migrare è un diritto, come lo è restare o scegliere di tornare. In Italia, questi diritti sono raramente assicurati ai migranti, soprattutto se sono giovani e che quindi, per avere una vita dignitosa e felice, spesso sono obbligati a emigrare. E, anche quando vogliono tornare, non viene data loro l’opportunità di farlo a parità di condizioni», commenta Delfina Licata, curatrice del Rapporto Italiani Nel Mondo della Fondazione Migrantes, punto di riferimento per le questioni migratorie. Infatti, in base ai dati di Controesodo, gruppo di giovani talenti che rappresenta la community di chi torna in Italia, oltre il 50 per cento di chi è rientrato negli ultimi anni, usufruendo dei benefici fiscali messi a disposizione dal Governo, è già ripartito e molti altri sono in procinto di farlo. Succede per due motivi: da una parte l’ineguaglianza con cui vengono applicati gli incentivi fiscali e dall’altra una cultura lavorativa gerontocratica. E, come sottolinea il rapporto del Centro Altreitalie: «Si può ipotizzare che ancora più giovani partiranno a causa della crisi economica post-Covid e della mancata valorizzazione delle loro capacità in Italia. Almeno che le cose non cambino drasticamente, le conseguenze del Covid faranno accelerare le partenze, anziché i rientri», prevede Tirabassi. 
 
Eppure, come spiega Delfina Licata, la mobilità è un fenomeno strutturale, in sé non negativo: «Anzi, potrebbe generare percorsi virtuosi come avviene per molti altri Paesi Europei. Il problema è la non attrattività del nostro paese, che lo rende unidirezionale: i giovani italiani partono e non tornano, gli stranieri qualificati non arrivano e, addirittura, i migranti arrivati in Italia pienamente inseriti tanto da aver preso anche la cittadinanza italiana decidono di ripartire come emerge dal nostro Rapporto Italiani nel Mondo pubblicato ad ottobre 2020. L’unidirezionalità è il vero nodo da sciogliere». 
 
Secondo l'Eurostat, tra il 2006 e il 2018, in Italia sono arrivati 222mila laureati stranieri, contro 1,5 milioni nel Regno Unito, 840mila in Germania e 400mila in Francia. L'incapacità di attrarre talenti stranieri è un problema quasi più importante della partenza dei nostri giovani: se riuscissimo a bilanciare le partenze, come fanno altri paesi europei, beneficeremmo anche noi della promessa europea di migrazione circolare. Ma gli stranieri, come i giovani italiani, richiedono un ambiente di lavoro al passo con il mondo, innovativo, dinamico e internazionale, che l’Italia non offre. Secondo l’English Proficiency Index, siamo ultimi in Europa per livello di inglese parlato dalla popolazione, e in effetti l’integrazione lavorativa per uno straniero risulta complessa. A questo si aggiungono complessità fiscali e burocratiche sia nell'ottenimento dei visti, sia per i permessi di soggiorno. Si aggiunga una scarsa cultura dell'innovazione, tant'è che l’Italia è fanalino di coda nella classifica dei paesi innovativi secondo il Bloomberg Innovation Index 2020, questo perché il paese spende l’1,3 per cento del pil in Ricerca e Sviluppo, contro una media europea del 2,2 e il 3 per cento dei tedeschi. Una differenza di 16 miliardi l’anno, con cui si potrebbero costruire le migliori università d’Europa, se solo ci fosse la volontà di farlo.
 
Le politiche giovanili non dovrebbero però fermarsi ai nostri confini. Come dimostra l’interesse per l'Italia, resuscitato fra gli expat a seguito del Covid, ci sono tanti giovani che vogliono partecipare alla vita culturale, civile e politica del nostro paese, senza rientrare. I dati confermano che essere lontani non equivale ad essere distanti. La ricerca del Centro Altreitalie indica infatti un’altissima attitudine agli spostamenti tra gli italiani all’estero (solo l’8 per cento dice di non tornare mai, il 37 per cento torna almeno una volta l’anno e il resto ancora di più), che si traduce in una volontà di mantenere legami con la famiglia, gli amici e i territori di provenienza. “Ne sono prova le associazioni di italiani all’estero”, ci spiega Vignali, “ce ne sono circa 1700, molte delle quali si sono mobilitate durante questa crisi per aiutarsi tra connazionali”. 
 
Infatti, anche se i trend iniziali mostrano che la scelta migratoria si conferma nonostante il Covid, c'è comunque una rivalutazione del nostro Paese. Il sondaggio lanciato dai sottoscritti con Cheuropa indica che il 47,5 per cento degli intervistati ha rivalutato la sua percezione dell’Italia, in linea con il grado di nostalgia per il Paese: chi si dice molto nostalgico - il 32% - l’ha rivalutata in meglio, chi poco - il 15.5% - in peggio.
 
Ma, anche in questo ambito, le deficienze istituzionali sono acute. In primis, c'è la disfunzionalità dell’AIRE, incapace di intercettare due terzi di coloro che emigrano, i quali diventano invisibili per le istituzioni. Ed infatti, come evidenziato dal Centro Altreitalie, questa distanza istituzionale rimane profonda anche in tempi di Covid: solo una minoranza di italiani espatriati ha avuto un contatto con l’ambasciata (14 per cento), il Consolato (16 per cento) o i Comites (5 per cento) durante la crisi. E, parlando di Comites, in molti ancora non conoscono questi organismi rappresentativi della collettività italiana, eletti direttamente dai connazionali residenti all’estero. “Serve una nuova prospettiva per l’associazionismo degli italiani all’estero”, spiega Vignali, “una prospettiva che possa coinvolgere i giovani che vogliono contribuire al sistema Italia da fuori, inclusi tutti i connazionali che non sono inseriti nei canali ufficiali come l’AIRE ma che hanno voglia di relazionarsi e a volte anche bisogno di aiuto”.
 
Questa ritrovata solidarietà e appartenenza è un’occasione unica per le istituzioni italiane: se si riuscisse ad integrare ed utilizzare il capitale umano che il nostro Paese ha in giro per il mondo, l’Italia potrebbe accelerare la sua crescita, ingrandire la sua sfera d’influenza e, tornando al punto chiave, la sua attrattività. Tuttavia i tentativi avviati in questi mesi non stanno dando i risultati sperati. I giovani, all’estero come in Italia, hanno capito che questo è un momento di svolta - nel bene o nel male - e si stanno mobilitando per influenzarne la direzione. Oltre alle organizzazioni sopra citate, un esempio incoraggiante è il Piano Giovani 2021, che ha attratto giovani sia dall'Italia che dall’estero per proporre politiche alle istituzioni e al Governo ma, come già menzionato da L’Espresso, rimaste senza risposta. 
 
Questa mobilitazione è invece la scintilla per invertire la rotta. E questa analisi è un punto di partenza per lanciare nei prossimi mesi - sempre dalle pagine dell’Espresso e in collaborazione con realtà associative ed istituzionali che lavorano su questo tema - soluzioni e proposte volte a riequilibrare la bilancia intergenerazionale. Tramite idee innovative e condivise tra i leader di oggi e di domani, l'obiettivo è rendere il Paese attrattivo e la mobilità circolare, facendone una forza e non più una debolezza - sfruttando le porte aperta dalla crisi del Covid-19.