Ci eravamo abituati alla politica, ma ora anche medici e scienziati sono finiti nel tritatutto dell'infotainment. E anche la pandemia è diventata un serial

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In fondo tutto era stato scritto. Il racconto pubblico di un anno alle prese con il coronavirus è una nuova puntata della serie: “L’informazione al tempo dei media elettronici”. Una informazione che miscela notizia e intrattenimento. Dunque, fa assumere alla notizia una forma tutta particolare, inserendola all’interno di un racconto che deve interessare chi ne fruisce, la diluisce nell’opinione – dalla quale diviene spesso indistinguibile – le fa assumere un ritmo e una serialità che soddisfa più i canoni della fiction che non la necessità di sapere e di comprendere.

Scriveva Giovanni Sartori in “Homo Videns”, con riferimento alla televisione, che «l’homo ludens, l’uomo come animale giocoso, che ama giocare, non è mai stato tanto accontentato e gratificato in tutta la sua storia. Ma questo dato positivo riguarda la “televisione spettacolo”. E se la televisione trasforma tutto in spettacolo, allora la valutazione cambia». Appunto, la valutazione cambia.

Ma procediamo con ordine. E concentriamoci sul “racconto” del coronavirus nell’infotainment nostrano, così particolare rispetto ad altri Paesi, per la sua onnipresenza e la sua attitudine ad accentuare il secondo termine della crasi, l’entertainment, rispetto al primo, l’information. Dando per scontato che le differenze esistono, ma esiste anche una tendenza che con più o meno intensità risparmia davvero pochi spazi. E avendo in mente che esso produce un modello che influenza altri format comunicativi – addirittura le conferenze stampa di autorità pubbliche – e spesso si pone al centro di flussi di comunicazione che coinvolgono stampa, televisione e web.

Il fenomeno che oggi più balza agli occhi è la caduta delle barriere tra le competenze dei “competenti” a trattare della pandemia. Il che è paradossale, in un momento in cui è diffuso il richiamo al ruolo degli scienziati, dipendendo le nostre vite così tanto da loro, e più in generale in cui, per lo stesso motivo, si rimette in discussione la sbornia populista e grillista dell’uno vale uno. Eppure, quelle barriere, nel tritatutto dell’infotainment, hanno ben presto vacillato. Virologi, immunologi, epidemiologi hanno invaso talk show e programmi di approfondimento. Le loro specifiche competenze si sono annebbiate agli occhi del pubblico dietro la generale etichetta di scienziati. Ma, soprattutto, questi nuovi protagonisti hanno portato sul palcoscenico mediatico quella diversità di opinioni e prospettive che normale, anzi, necessaria, nel dibattito scientifico, di fronte al grande pubblico, accentuata dal racconto “en continu”, ampliata dall’incalzare dei conduttori, banalizzata dai tempi e dal semplicismo che dominano la chiacchiera televisiva, si è trasformata in materia per la messa in scena della polemica e del conflitto.

Una materia che viene poi utilizzata nel circuito integrato di stampa, social network e tv. La discussione specialistica, che porta a risultati la cui credibilità poggia innanzitutto sull’autorevolezza dei suoi protagonisti, più che semplificata con intenti pedagogici (che certo possiamo anche attribuire ad alcuni degli scienziati coinvolti), è stata piuttosto trasfigurata in una discussione pubblica per “generalisti”.

Ma non è tutto qui. Divenuti volti familiari, popolari, gli scienziati sono stati risucchiati nel flusso senza soluzione di continuità del dibattito su tutto. Così, progressivamente, sono stati invitati ad esprimersi al di fuori della loro specifica competenza: divenuti “personaggi” televisivi, sono stati trattati come i personaggi televisivi, i quali sono solitamente incentivati a discettare sull’universo mondo. Il che è avvenuto in modo spesso impercettibile, trascinandoli su terreni limitrofi, ma già sui quali la loro opinione perde di rilevanza per la non specifica competenza, come quello della conciliazione di valori potenzialmente confliggenti come la salute pubblica e il benessere economico. O addirittura quello relativo agli strumenti giuridici più adeguati per rendere cogenti decisioni che limitano diritti e libertà dei cittadini.

Un esempio che perfettamente illustra la trasformazione dell’esperto settoriale in esperto e basta è quello del “tecnico” Domenico Arcuri, nominato dal governo “Commissario straordinario per l’attuazione e il coordinamento delle misure occorrenti per il contenimento e contrasto dell’emergenza epidemiologica Covid-19”. Le conferenze stampa in diretta televisiva nella prima fase della pandemia, poi riprese recentemente, lo hanno trasformato in un personaggio popolare. Evidentemente galvanizzato dalla “legittimità televisiva”, ha esondato dal suo ruolo tecnico cominciando a rivolgersi ai cittadini con toni paternalistici, ai critici con sarcasmo e tono di sfida, esibendosi in raccomandazioni e in difese dell’operato del governo né richieste né consone al suo ruolo. Sino ad informare sugli andamenti dell’epidemia, come fosse il presidente del Comitato tecnico scientifico. Come in una recente intervista in una nota trasmissione televisiva, spronato a farlo dallo stesso conduttore. In una sorta di continuità tra conferenze stampa, anch’esse ormai dei format, e contenitore di intrattenimento.

L’indifferenza per la competenza si coglie anche nella continua riproposizione del trito gioco: «Di chi è la colpa?». Spesso è proposto in relazione al tema dei ruoli, dei poteri e dei compiti delle istituzioni centrali, regionali e locali Al gioco chiunque è chiamato a partecipare. Non importa se non ha mai letto in vita sua la Costituzione e le leggi pertinenti alla questione. Dove peraltro si potrebbe trovare qualche suggerimento per comprendere responsabilità e mancanze che hanno prodotto e producono la cacofonia istituzionale che regge la gestione della crisi. E d’altro canto nessuna competenza è richiesta per giocare, perché il gioco non prevede soluzione, solo uno schema da riproporre di continuo nella serie tv “La pandemia”. Quindi, chi ha qualche fondata idea sul tema non è benvenuto, interromperebbe il plot, un plot aperto come in una soap opera, dove tutto è opinione e un’opinione vale l’altra, oppure vale di più se è gridata più forte o sorretta da frasi ad effetto, che magari non significano nulla, ma colpiscono l’immaginario.

Ma sgretolare i confini tra competenze, significa sgretolare la stessa idea di competenza, dunque la stessa idea dell’autorevolezza del sapere e dell’autorità che dovrebbe essere riconosciuta a chi in un certo campo sa. Banalizzare i temi per forzarli nella trama dello scontro e del retroscena, ridurre tutto a mera opinione perché lo scopo è il minuetto dei pareri, proporre come verità l’opinione di un botanico sulla fissione nucleare, frullare gli argomenti e distribuirli un po’ a caso tra competenti e incompetenti: ecco prodotto un cocktail venefico bevuto il quale chi segue non potrà che convincersi che tanto vale pensare un po’ come si vuole. Oppure pensare allo stesso modo di quello che ti sembra più simpatico: ciò che da tanto tempo vale per la politica perché non dovrebbe valere per la scienza? Tanto più che, ad aumentare la confusione, scienza e politica si mescolano, con alcuni scienziati nominati dal governo che ne prendono le difese e politici che scelgono gli scienziati di riferimento, con il risultato di un generalizzato crollo di credibilità.

In questi ultimi decenni, al progressivo crollo della credibilità della politica ci siamo ormai abituati. Tanto che di fronte a un capo del governo che pubblica sui social la strana letterina di un bambino preoccupato che Babbo Natale non possa portare i doni a causa della pandemia e al suo portavoce che per dimostrarne l’autenticità twitta la clip, tratta da una trasmissione di intrattenimento che fa del sentimentalismo a buon mercato la propria cifra, dove il bambino e i genitori sono intervistati da una commossa e giuliva conduttrice (ma come li avrà scovati?), facciamo dell’ironia invece che gridare il nostro orrore.

Il miscuglio di gridolini, politica e versione trash del libro Cuore non ci meraviglia più. Ma già dalla metà degli anni Ottanta, lo studioso di comunicazione Joshua Meyrowitz aveva spiegato come il crollo di barriere tra le competenze, dell’autorevolezza e dell’autorità come conseguenza dell’impatto dei media elettronici sui cittadini e la società, fosse un fenomeno ampio. Che ingloba la politica, ma va oltre. La pandemia ha costituito l’occasione per osservare quell’impatto in tante delle sue declinazioni.

Questo non significa che attraverso i media elettronici non transiti una informazione degna di questo nome, anche della crisi che stiamo attraversando. In circoscritti spazi televisivi, radiofonici, nel web, dove l’ingegno e i saperi di molti si organizzano per riflessioni approfondite e colte sui diversi temi che investono l’attuale momento. Ma il pubblico è limitato e molto “volenteroso”. Al grande pubblico continua ad essere servito il minestrone.