Il ragazzo ha una malattia rara che blocca la crescita cerebrale. Lo Stato non fa abbastanza, quindi i genitori hanno fondato un'associazione. E poi aperto un centro che riunisce giovani con situazioni simili. Seguiti da specialisti nell'esercizio fisico e in varie attività

Gianluca Colonnese, fotografo calabrese, ha seguito per cinque anni la quotidianità di Monica, Gianni e del loro figlio Giorgio. Tra i suoi scatti ce n’è uno che attira l’attenzione in modo particolare. Sullo sfondo della fotografia, a destra, c’è un quadro in cui viene raffigurata una madre, completamente assorta, mentre stringe tra le braccia il proprio bambino. In primo piano, nella stessa fotografia, ci sono Monica e Giorgio che si abbracciano. Entrambi sembrano assorti. In questo caso, è Monica a rifugiarsi nelle braccia del suo bambino. Quel quadro Monica l’ha dipinto prima di sapere che Giorgio fosse affetto da una malattia rara. Sclerosi tuberosa: nel suo cervello si sviluppano numerosi tumori benigni che ne ostruiscono il corretto funzionamento. Ha bisogno di cure e attenzioni. La sua patologia invalidante non lo rende autonomo. «Ha 22 anni, ma è un ragazzo di tre anni. Noi non ci siamo mai tirati indietro. Gli abbiamo insegnato a mangiare e a stare insieme agli altri», racconta Monica.

In tutta Italia sono quasi due milioni le persone affette da una disabilità grave. Vivono in istituti o con le proprie famiglie. Da quando nascono, i genitori non fanno altro che battersi affinché possano avere una vita dignitosa, accedere a quei servizi che in uno stato di diritto vengono considerati fondamentali per la sopravvivenza della democrazia. Troppo spesso invece questi stessi servizi (come l’assistenza domiciliare o la possibilità di usufruire di un centro sociosanitario dove poter essere seguiti da specialisti) gli vengono negati. Sta ai genitori, allora, prendersi l’onere di lottare. Monica è un’educatrice della prima infanzia, Gianni, suo marito, gestisce un’attività privata.
 
«Mi sono accorta che c’era qualcosa che non andava quando Giorgio aveva sei mesi. A volte lo vedevo assente. Ho pensato a un tumore al cervello», ricorda Monica. In realtà, quei momenti di smarrimento che Giorgio manifestava fissando il vuoto erano dovuti a delle crisi epilettiche. «Lui le sente, le avverte e ti guarda». Ne aveva quindici al giorno. Ora grazie a un intervento sperimentale sono diventate cinque ogni 24 ore. Non riesce a parlare, si muove con difficoltà. Comunica con gli occhi e con le mani. È nato e cresciuto a Cassina de’ Pecchi, comune della città metropolitana di Milano.

Quando i dottori hanno detto a Monica che Giorgio era un caso raro di sclerosi tuberosa, per lei e Gianni è stato devastante. «Ci si è chiuso il mondo», dice. Avevano già un altro figlio di undici anni. «Se avessi potuto non avrei aspettato così tanto prima di concepire Giorgio». I dottori poco dopo la nascita del suo primogenito, le hanno diagnosticato il morbo di Crohn. «Mi hanno operato per levarmi una parte dell’intestino e mi hanno consigliato di aspettare prima di affrontare un’altra gravidanza». A 36 anni è arrivato Giorgio.

Sotto indicazione del ginecologo, Monica si è sottoposta all’amniocentesi. Sembrava non ci fossero problemi. Dice di essere contenta che sia andata così: «Se avessi avuto la consapevolezza di dover partorire un bambino affetto da una malattia genetica rara, mi sarei trovata di fronte a una scelta difficile. Tutti mi avrebbero detto di abortire. Io non l’avrei mai fatto». Per Monica, le difficoltà di Giorgio sono un segno. Sono la motivazione che l’ha spinta a impegnarsi per tutti quei bambini a cui viene negata la socialità.

Quando Giorgio aveva cinque anni, Monica e suo marito hanno deciso insieme ad altri genitori di fondare un’associazione con cui promuovere progetti di inclusione per i ragazzi disabili. «L’abbiamo chiamata “Raggio di luce”», racconta. Erano in 13: genitori, uniti dalla convinzione che i loro figli meritassero di più. L’associazione “Raggio di Luce” ha creato una ludoteca dove il sabato pomeriggio si può giocare insieme. Ha istruito i catechisti e aperto le porte dell’oratorio ai ragazzi affetti da disabilità. Ha fondato un centro riabilitativo con psicologi, logopedisti, neuropsichiatri. «Ci siamo ritrovati su un terreno comune che andava oltre la malattia: puntavamo all’inclusione sociale. Dopo la scuola, nel tempo libero, ci deve essere altro. Tutti i bambini hanno altro e anche i nostri ne hanno diritto».

Giorgio, figlio di Gianni Mastro (65 anni) e Monica Lodato (59 anni), ha necessità della presenza dei genitori costante. In questa immagine si nota la forza che da alla madre.

L’associazione non bastava. Monica voleva di più. Aveva bisogno di un luogo dove Giorgio potesse recarsi ogni giorno per stare insieme agli altri, fare sport, giocare. Un luogo che sarebbe dovuto diventare anche una casa dove potersi rifugiare nel caso in cui i suoi genitori non ci fossero più stati. Quando hai un figlio affetto da una patologia invalidante, ti chiedi spesso cosa succeda dopo: dopo il liceo, dopo il centro socioeducativo a cui aveva diritto fino al compimento dei 18 anni, dopo la morte dei suoi cari che l’hanno accudito fino a quel momento. Il dopo conta tanto quanto il durante.

Nel 2016 Palazzo Chigi per ovviare a questo problema ha approvato una legge, la 112, chiamata iconicamente “Dopo di noi”. Attraverso trust, fondi vincolati, assicurazioni e inserimento in strutture di co-housing la norma intendeva garantire protezione, cura e assistenza ai disabili gravi, anche dopo la scomparsa dei genitori. Sono passati quattro anni dalla sua pubblicazione. I risultati raggiunti sono pochi. Le associazioni di categoria lamentano un sistema farraginoso.

A giugno il governo ha approvato un aumento di 20 milioni per il fondo destinato ai progetti di co-housing. In questo modo, nel 2020 saranno stanziati in tutto circa 80 milioni, un anno fa erano 50. Le criticità, però, non riguardano i finanziamenti, ma il modo in cui questi soldi vengono spesi. Come ha denunciato diverse volte l’associazione Anffas (Associazione nazionale famiglie di persone con disabilità intellettiva e/o relazionale), la maggior parte delle risorse sono bloccate: le Regioni non riescono a spendere i fondi ricevuti dal ministero delle Politiche sociali. Non riescono a individuare progetti adeguati. La burocrazia troppe volte frena le famiglie. Fino al 2018 i beneficiari sono stati meno di 6mila. Le strutture abitative create 380.

«In Italia abbiamo legislatori illuminati, scrivono leggi bellissime che però non vengono mai applicate». Proprio per questo motivo, Monica ha deciso di fare da sola. Ha trasformato la sua associazione in cooperativa e ha trovato dei locali da affittare. «C’era una struttura inutilizzata da sette anni al centro di Cassina de’ Pecchi. Ho contattato il proprietario e ho fatto un accordo per non pagare il primo anno d’affitto». Lì Monica e Gianni hanno potuto dare un luogo fisico alle tante attività sponsorizzate dall’associazione. È nato un centro socioeducativo, dove poter favorire lo sviluppo delle competenze e delle autonomie dei ragazzi; un laboratorio dove svolgere attività educative; un centro specialistico per il supporto psicologico; una comunità sportiva per gli allenamenti di nuoto e atletica. È nata “Casa Filippide”.

Giorgio inizia le sue attività alle 9,30 e finisce alle 16, cinque giorni su sette. I suoi più grandi amici sono Cristian e Federico, che da poco ha deciso di fidanzarsi con Alessandra (ma, dice, «di non volerla sposare»). Al centro socioeducativo sono iscritte 18 persone, alla ludoteca una quarantina. Monica, insieme ai genitori che hanno deciso di accompagnarla in questo percorso, ha creato autonomamente quello che il Comune e la Regione avrebbero dovuto offrirgli per supportare la crescita di suo figlio.

Con la legge 328 del 2000, lo Stato si è occupato di riformare e integrare tutti i sistemi assistenziali presenti sul territorio italiano. Alle categorie più svantaggiate della società vengono garantite risorse monetarie (come gli assegni di invalidità) e servizi fisici: centri socioeducativi, sociosanitari, residenze. I finanziamenti per queste strutture sono regionali e comunali. Nel 2016 secondo l’Istat ne esistevano in tutta la penisola 70mila, sei su dieci gestite da organizzazioni no profit. Le rette sono calcolate in base all’Isee dei genitori. Il Comune deve coprire le spese di chi non ha un’autonomia economica sufficiente. L’offerta, a parte alcuni casi virtuosi, sconta fondi esigui e soprattutto ritardi nei pagamenti. Ne risente la qualità dei servizi.

L’associazione “Raggio di luce” voleva per i propri ragazzi una realtà in cui le attività ludiche e educative fossero varie, in cui la figura degli specialisti fosse predominante. «Nei servizi presenti sul territorio ci si occupa moltissimo dell’aspetto sanitario e poco di quello educativo e sociale. Questi ragazzi devono imparare a convivere con la loro patologia e noi dobbiamo aiutarli», chiarisce Monica. Lo certifica lo stesso Istat nell’ultimo rapporto sulla disabilità: in Italia i servizi sociali ricoprono «un ruolo residuale», rispetto alla componente sanitaria. Componente fondamentale, che però deve essere necessariamente integrata.

Se Giorgio ora è sereno e riesce a comunicare pur non potendo emettere suoni, deve ringraziare anche gli educatori che l’hanno seguito passo dopo passo. Nessuno l’ha abbandonato, nonostante le sue condizioni fossero critiche. I suoi genitori l’hanno spinto a camminare, a nuotare, a farsi degli amici. Non importa quanto durerà e cosa verrà in futuro. «Giorgio c’è, è arrivato a 22 anni. Questo conta». Monica spera davvero che suo figlio possa vivere più di lei. E per questo ha un sogno: comprare “Casa Filippide” e alcuni locali limitrofi. «Potremo continuare a fare le nostre attività e costruire quei co-housing che la legge “Dopo di noi” prevede», aggiunge.

Durante il primo lockdown, la donna ha deciso di seguire i suoi ragazzi svolgendo le attività da remoto. Balli di gruppo, laboratori di arte, lezione di musica. Ora, come per la maggior parte dei centri diurni, “Casa Filippide” ha riaperto. «Mettiamo la mascherina e periodicamente eseguiamo i test sierologici a tutti. Cerchiamo di tutelarci». I ragazzi sono felicissimi. È bello poter tornare a Casa.