Siamo in una situazione drammatica. Eppure manca la capacità di elaborare il dolore, come nel mito antico. Di tentare di dargli un senso. Non c’è espiazione, non c’è una morale superiore cui appellarsi
L'invisibile ovunque. Una tragedia bianca. L’aria radioattiva che non lo è. Lo sgomento del vuoto tra i semafori che pulsano a tempo, che funzionano. Il deserto abitato. L’assenza di stimmate. La pace in forma di guerra. È questa la norma contraddittoria, la cifra dei giorni in cui la città versa. Una città di pianura, infossata nella depressione geografica, una Tebe antica in epoca contemporanea, con il suo skyline immaturo e la cattedrale reclusa per una settimana. Spopolata, si direbbe, ma non si può dirlo, perché il popolo c’è tutto, non si è mosso dalla metropoli. Piuttosto si è nascosto. Catacombale in superficie, cioè un paradosso estremo, la città è in questi giorni il teatro della tragedia classica rifatta ad altezza 2020? [[ge:rep-locali:espresso:285447825]] Perché qualcosa sia sensato e umano, deve non coincidere con se stesso: deve significare altro. Tutto è metafora di qualcos’altro. Così visse la nostra specie, mutagena e virale sul pianeta, contagiandolo con le sue morali e i suoi deliri. Una madre che uccide i figli è tutte le madri, una malaria è il furore divino che si abbatte sui corpi per raffinare le anime, una suicida sotto un treno significa l’amore, il processo a un impiegato di banca diventa il giorno del giudizio. Erano le tragedie non a spiegare, ma a illustrare la vita umana sul pianeta. E ora? Cosa significa questa città né celeste né terrestre, sospesa, limbica, assoluta? Di quale tragedia parla, mentre resiste, reagisce, si fa resiliente?
Girando per le sue volute periferiche, gli snodi autostradali, i crocevia sulle circonvallazioni, gli spazi pubblici svuotati di sagome umane e di veicoli e spente le stelle delle insegne commerciali, si avverte un’insufficienza interiore, una sospensione delle forze in attesa, un’inedia dell’atmosfera. Parliamo della città operosa, la città che muove e si muove, che dà a tutti accogliendo tutti, che non chiude mai e a nessuno. Ma queste rotatorie silenti, i voli diradati, l’idea dall’esterno di una città-stato... Questo non è più un fatto clinico, sociale, economico - questo è un fatto letterario. La città, serrata essendo aperta, è una consecuzione pressoché infinita di paradossi e di ossimori: il segno del tragico e dell’incombere dei fati.
“Edipo re”, la tragedia che è uno dei nuclei generatori dell’intera civiltà occidentale, ha la sua scena iniziale in una città chiusa per peste, Tebe «carica di fumi, impasto di preghiere, di singhiozzi», al cui popolo il re si avvicina e dice: «Io sono retto: non da messaggeri ascolterò le disgrazie che affliggono il popolo: vengo io direttamente a sentirle - eccomi». La cittadinanza chiede a chi governa protezione dalla sventura e risoluzione dell’epidemia. Lo ha sempre fatto, quando è stata colpita dalla morbilità. Ha elaborato l’idea che la patologia fosse una punizione, la risposta a tremende responsabilità collettive, la fessura da cui il divino pronuncia la condanna verso i mortali per farli ravvedere, per rimettere in sesto la storia. Ma dove sono ora le processioni dei penitenti, incappucciati, in fila con i grossi ceri accesi? Quale sacerdote ammonisce la comunità attonita con le parole eterne del castigo? Tacciono tutte le scritture sacre? Chi è l’eroe che si fa carico di tutti noi?
All’inizio della sua e loro e nostra tragedia, Edipo si reca da chi supplica e prega perché la città sia liberata dal male e pronuncia il ground zero di ogni verità: «Voi siete infetti dal morbo, ma nessuno è infetto quanto me». Il re è più infetto dei sudditi. Perché? «Perché il vostro dolore tocca i singoli, ma io piango tutta la città». C’è da chiedersi ancora, forse, quale Edipo verrà a pronunciare queste parole, nottetempo casa per casa. Forse perché, più che epidemia, si tratta dell’attesa sospesa di un’epidemia possibile, la tragedia sembra in questi giorni mutare i suoi crismi e la sua natura, il suo eterno qui e ora. Il tempo della nostra contemporaneità non è più il tempo come lo avevamo conosciuto, si contrae, prima dà i brividi e poi li toglie perché non c’è più spazio per sentirli. Distorce e altera l’idea stessa di progresso. Annulla il rito collettivo, prepara l’avvento a un uomo privo di rito. Modifica la sostanza tragica, implicando una rivoluzione delle modalità con cui la si vive.
Il primo di gennaio 1982, all’ora di pranzo, un annunciatore del Tg1 parlò e noi mutammo la nostra sessualità. Informò la nazione tutta che una nuova epidemia dagli Usa era già arrivata tra noi. Era l’Aids, eravamo increduli. Avevano definitivamente eradicato il vaiolo soltanto pochi anni prima. Trascorremmo giorni a fantasticare oscenamente su chi fosse l’untore, pronti a punirlo con la morte - uno steward canadese, i negri del Camerun che si erano accoppiati con le scimmie, i froci che spopolavano: l’intero battage del più bieco fascismo era all’opera per pubblicizzare le sue orripilanti spire, mancavano all’appello solo gli ebrei. Se lo conosci, lo eviti: nessuno conosceva niente, chiunque evitava i soliti noti. Una macchina inquisitrice coincideva con la nazione, delirante sull’unzione e assediata dal terrore e dal complotto. I “burocrati del male”, come Leonardo Sciascia aveva bollato i giudici infami dell’infame Colonna manzoniana, lavoravano alacremente a estendere il regno della loro giurisprudenza dell’orrore: eravamo tutti noi, un’intera popolazione che aveva introiettato la burocrazia del male e accusava le vittime più che la patologia.
Di una simile inquisizione abbiamo tracce? Minime. La città non sente l’untore, non vede il monatto. La paranoia non è un’elaborazione culturale, rimane confinata alla stretta di mano, alla prossimità tra persone. In un’epoca di sdoganamento dell’idea di complotto, il complottismo è sorprendentemente ridotto ai minimi termini. Il complotto è forse l’ultima favola per concedere diritto di asilo a una spiegazione narrativa della realtà. È un regresso del romanzo con cui si intende leggere la storia, ma è comunque un racconto. Sembra invece cadere sotto una sospensione della narrativa l’interruzione delle produzioni, gli elementi di “psicosi” e “surreale” (le parole più virali in questi giorni), la confusione delle ordinanze e degli appelli, il primato apparentemente indiscutibile della comunicazione come forma di allerta.
È la tragedia che non c’è, ma non perché non sia un momento tragico, lo è a tutti gli effetti. È la tragedia che non c’è, perché non c’è il coro tragico che canta il suo dolore, perché non c’è il luogo in cui farlo, dove avanzare le pretese dei propri pianti e delle proprie disgrazie. Non c’è un rito collettivo deputato a elaborare il lutto del presente, il lutto che il presente attivamente produce di momento in momento e non il cordoglio per ciò che è accaduto. Non c’è l’ossessione dell’avversario esterno, del nemico alle porte, poiché il nemico è già dentro le mura, ma non è nemmeno un avversario interno, è invisibile e porta una minaccia più plausibile che efficace. Non c’è espiazione, non c’è responsabilizzazione dell’accaduto, per quanto fantastica e irrealistica, non c’è tutela da parte di una morale superiore. Non c’è la parola del soprannaturale. Non c’è il sacro, ma nemmeno la laicità con i suoi protocolli e le sue etichette. Non c’è pretesa che l’istituzione sia materna o paterna, che faccia più di quanto è possibile, che trascini oltre l’emergenza - l’istituzione dirama, il popolo apprende e mette in atto le decisioni. Non c’è la logica della speranza e della disperazione. Non c’è nessuna colpa, non essendoci lo scarico né l’assunzione della colpa. Non c’è il blocco effettivo del lavoro e non c’è lo sblocco del lavoro. Non c’è il continente, non ci sono le città continentali, non c’è la nazione al di là dell’esserci in un terrore previo e privo di colore. Non c’è niente di prima, non c’è niente di nuovo. L’antico dei giorni sono giorni nuovi, diversamente diversi.
Non c’è dunque il tempo e non c’è la voce che dicano come dalla potenza pubblica all’esterno e della felicità individuale all’interno, da questa combinazione possa risultare la prosperità sociale, la quale significa l’uomo felice, il cittadino libero e la nazione grande e il continente più grande ancora e il pianeta grande più che mai. Chi è felice e libero? Chi è grande? Qual è il parametro? È, questa manciata di giorni, nella decima settimana dell’anno, il momento in cui, arrestate le fibrillazioni e sospese le iperproduzioni, ci sentiamo finalmente tutti precari e meditiamo dove stavamo andando e dove dovremo andare?
L’altro giorno ho visto questo in una piazza vuota in periferia: un uomo solitario con le braccia spalancate, non c’era nessuno in quella piazza, e aveva la carta stagnola sulla bocca come una mascherina, si agitava in silenzio nel nulla. È un’immagine all’altezza? Alla bassezza?
Quale forma avrebbe la letteratura all’altezza o alla bassezza di questo tempo che divora come non mai - non è una questione esclusiva dello scrittore, ma è un’esigenza sottile e mai abbastanza guardata, che la comunità riserva sempre per se medesima, quando è travolta dal troppo di realtà, quando il mondo le sembra una vasta terra desolata in cui non pulsa vita. L’inerzia del tempo e della materia chiamano l’invenzione, per fuggire verso una landa superiore, se non suprema.
Di quanta poesia, di quanta provocazione ha bisogno un mondo per sopravvivere? E per vivere? Deve arrivare una bambina di otto anni, a rappresentanza delle decine di migliaia di bambini, a rimproverarci con un linguaggio adulto per quanto abbiamo fatto e ad ammonirci su quanto intendiamo fare? Un anziano morente deve esprimere come ultimo desiderio di morire all’aperto sul sagrato della cattedrale, essere lì trasportato con il letto e le flebo nel vuoto della piazza centrale, e morire davanti a tutti, quei tutti che non abitano più la piazza? Un Joker esilarato deve sorvolare la città sul suo drone, sanificandola dall’alto con nubi di disinfettante definitivo e quindi salvandola? Qualcuno si chiederà se un focolaio è una casa accogliente o una zona virale? Morire non è nulla, non vivere è spaventoso.