«Un detenuto infetto può causare una strage»: le carceri sovraffollate in rivolta e il coronavirus
Prigioni strapiene nel caos con l'emergenza sanitaria. E da qui le sommosse che hanno provocato oltre dieci morti in tutto il Paese. Mentre anche la polizia penitenziaria si sente abbandonata
«Dobbiamo evitare che un detenuto malato di coronavirus si trasformi in una strage. Basta una sola persona positiva e non sapremmo come gestire la quarantena». A tracciare il quadro è il Garante dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasia, all'indomani della rivolta al carcere di Rieti dove hanno perso la vita tre detenuti morti di overdose e sette ricoverati per intossicazione da farmaci.
«Hanno bruciato tutto, rotto i macchinari radiologici e i quaderni della terapia, quindi nei prossimi giorni sarà anche complicato somministrare le cure ai detenuti. Stanotte abbiamo mandato diverse persone al pronto soccorso, chi è entrato in infermeria ha fatto uso di un cocktail di farmaci». Questo è il racconto di una delle persone impiegate nell'infermeria dell'istituto reatino che in queste ore insieme ad altre 30 carceri italiane è stato investito dalla rivolta.
Perché da nord a sud, in poche ore i detenuti italiani hanno inscenato una protesta che non si vedeva da anni e che ha visto protagonisti anche i familiari delle persone in detenzione.
Una rivolta che covava da tempo e che è scoppiata con l'emergenza che sta paralizzando il paese. «Se sabato notte abbiamo visto persone prendere d'assalto i treni per scappare al sud, perchè nel contesto carcerario, già allo stremo in condizioni normali, e con persone con grosse fragilità, non ci possono essere reazioni altrettanto esasperate?» è la provocazione di fra' Beppe Giunti, francescano, volontario al carcere San Michele di Alessandria e autore di due libri scritti insieme ai collaboratori di giustizia (“Padre Nostro che sei in galera. I carcerati commentano la preghiera di Gesù” e “Donne che guardano in faccia, il coraggio delle mogli dei detenuti”). È proprio questo sacerdote che ricorda che togliere i colloqui ai ristretti, equivale a privarli anche di quei piccoli doni che i parenti portano agli incontri: le sigarette, la biancheria intima nuova, talvolta un libro. Togliere un colloquio vuol dire non solo limitare ancora di più una vita familiare, ma anche negare una sigaretta a fine pasto a un fumatore.
«Hanno sostituito gli incontri con le chiamate illimitate e i colloqui via Skype. Ma non ci sono apparecchi sufficienti, a Regina Coeli c'è un solo telefono adatto a fare le videochiamate per più di mille detenuti. Dovrebbero aumentare i dispositivi per rendere veramente operative le norme» osserva sempre fra' Giunti che critica quella narrazione delle cose che poi si discosta enormemente dalla realtà.
Ancora una volta, invece di affrontare i problemi, si è preferito prendere una strada più breve, calando dall'alto la decisione di sospendere i colloqui con i detenuti prima fino alla fine di maggio, e poi fino alla fine di marzo.
Dove c'è stata la possibilità di spiegare le nuove disposizioni, le proteste non ci sono state. «Stiamo parlando di 30 istituti in sommossa su 197, è una minoranza che sta protestando. Tuttavia 11 morti non si vedono da molto tempo e ci riportano molto indietro» commenta, con un filo di rammarico nella voce, il presidente di Antigone, Patrizio Gonnella, che però conferma trattarsi «di un problema di salute pubblica, ora che tutta l'Italia è diventata una prigione».
Nelle carceri oggi sono presenti 61.230 detenuti su 50mila posti letto. Questo vuol dire che in caso di contagio anche di un solo detenuto, non ci sarebbe spazio sufficiente per assicurare la quarantena ai compagni di sezione, che secondo le disposizioni dovrebbero stare in una stanza singola dotata di bagno. «Per questo in carcere il virus diventa una bomba sociale» spiega il garante del Lazio.
Dai racconti, sembra che in questa emergenza chi governa si sia dimenticato del mondo carcerario, delle sue difficoltà storiche, ma anche di gestire l'emergenza in questo momento particolare per tutti. Ci si è dimenticati dei cittadini che stanno scontando una pena e solo le proteste di questi giorni hanno riacceso l'attenzione.
Non va meglio al personale della polizia penitenziaria impiegato nelle carceri. A raccontarlo è il Responsabile nazionale Fp-Cgil del sistema penitenziario, Massimiliano Prestini che descrive una situazione in cui presidi minimi adottati nell'emergenza Covid 19 all'interno del carcere faticano ad arrivare.
«Non ci sono mascherine per il personale, mancano pulizie approfondite e la sanificazione degli spazi comuni. Qualunque sia il tipo di crisi, stentiamo a sentire una soluzione possibile. Come polizia penitenziaria dovremmo occuparci anche del reinserimento sociale dei detenuti e invece non siamo neppure in un numero sufficiente a contenerli».
La legge Madia ha ridotto la pianta organica del corpo a 40 mila unità, di cui 4.500 circa sono i poliziotti penitenziari che risultano quotidianamente impiegati nei servizi di traduzione e piantonamento, 2.800 circa quelli che prestano servizio in amministrazioni ed enti statali e parastatali o vengono impiegati in servizi amministrativi dentro e fuori dal carcere. Circa 1.000 operano nella Giustizia Minorile.
Così gli agenti effettivamente impiegati all'interno degli istituti spesso si «trovano ad affrontare turni di 16 ore perchè manca il cambio. Una situazione che vede questo corpo di polizia avere il più alto tasso di suicidi tra quelli registrati nelle forze dell'Ordine - racconta Prestini - L'anno scorso abbiamo perso dieci colleghi».
Il sostegno degli psicologi è fondamentale sia per chi vive in carcere che per chi ci lavora. Ma se per i detenuti ci sono pochi psicologi, «per noi delle forze dell'ordine non c'è alcun sostegno, nonostante sia una richiesta che abbiamo più volte avanzato all'amministrazione dello Stato» lamenta il sindacalista della Fp-Cgil.
Questa situazione di emergenza secondo tutti gli intervistati si può risolvere solo con un piano deflattivo del sovraffollamento. Favorire quanto più possibile la detenzione domiciliare per i detenuti molto anziani e quelli immunodepressi; favorire le misure alternative alla detenzione e l'affidamento in prova ai servizi sociali per tutti coloro che non sono condannati per reati gravi e che abbiano dimostrato una buona condotta. Questo consentirebbe di liberare in poco tempo circa 4 mila posti e alleggerire un po' le condizioni all'interno di alcuni istituti di pena.
«Le carceri, come la scuola e gli ospedali, sono la cartina tornasole del livello di civiltà di una nazione e oggi, in questa emergenza, sono quelle di cui si parla di più». Ricorda ancora frà Giunti e a guardare bene oggi sono tre istituzioni che stanno mostrando la propria fragilità, ma anche una fortissima resilienza.