Un filo rosso lega i sistemi che Israele usa a Gaza e in Cisgiordania per il controllo massivo dei palestinesi agli apparati di difesa e alle intelligence di Stati di mezzo mondo. Compresi buona parte di quelli occidentali e arabi. In un mercato della sicurezza che vede a livello internazionale lo Stato ebraico fare la parte del leone, con tecnologie direttamente sperimentate sul campo. E che presto potrebbero arrivare anche da noi. Anzi sono già qui.
«Il caso israeliano è davvero straordinario: i territori occupati, oltre che un campo di battaglia, sono diventati un gigantesco laboratorio in cui la sorveglianza è estesa, grazie all’intelligenza artificiale, all’intera popolazione palestinese, a prescindere dal fatto di essere criminali o terroristi». A dirlo è Meron Rapoport, direttore del sito in lingua ebraica Local Call ed editorialista della rivista +972, collaboratore di testate internazionali come The Guardian e The Nation, e in passato per L’Espresso. Queste tecnologie possono essere usate anche qui, da noi? «Forse non su larga scala – aggiunge – ma come dovrebbe insegnarvi il caso dello spyware Paragon, i sistemi di spionaggio e sorveglianza sperimentati qui potrebbero essere usati contro determinati gruppi, come giornalisti e attivisti per i diritti umani».
La fabbrica degli omicidi di massa
Subito dopo il 7 ottobre, +972 ha pubblicato un’inchiesta sul modo in cui l’esercito e l’aviazione israeliana hanno usato l’intelligenza artificiale per scegliere gli obiettivi da colpire nella Striscia. Quell’articolo aveva un titolo emblematico: La fabbrica degli omicidi di massa. «L’Ia – spiega Rapoport – è stata usata fin dall’inizio dell’attacco per ampliare i target da colpire: pensavamo fossero 37mila, poi ci siamo resi conto che la lista arrivava a 70mila obiettivi. Non più solo comandanti, ma anche soldati, civili che avevano in qualche modo a che fare con Hamas, semplici sospetti. La scoperta sconvolgente è che le persone scelte venivano individuate e attaccate senza troppo riguardo per i civili: erano tollerabili anche cento morti per un comandante di alto livello, venti per un soldato. Per fare un paragone, l’intelligence americana si era posta il limite – per colpire Osama Bin Laden – di venti vittime collaterali».
Tra gli strumenti usati spicca il “Lavender”, un algoritmo di apprendimento automatico che incrocia dati biometrici, sociali e digitali: i margini di errore sono noti, ma l’esercito israeliano ha continuato a usarlo, con un costo umano altissimo. Come ha rivelato il New York Times, l’uso di questi strumenti ha condotto a numerosi casi di identificazioni errate, arresti immotivati e, soprattutto, alla morte di civili.
«Il concetto di danno collaterale nella Striscia è stato completamente superato – spiega Rapoport – I militari possono colpire in modo mirato qualsiasi obiettivo. Israele ha una capacità pervasiva di sorveglianza dei 2,2 milioni di abitanti di Gaza e degli oltre 3 milioni della Cisgiordania. L’esercito sa tutto di loro. Ciò vale anche sul campo di battaglia: l’intelligenza artificiale viene usata con un’accuratezza impressionante». Perché allora tante vittime civili? «L’obiettivo non dichiarato fin dall’inizio era terrorizzare la popolazione per fare pressione su Hamas. La distruzione sistematica di ogni infrastruttura e l’attacco indiscriminato sui civili ha ora l’intento di imporre alla popolazione di abbandonare i centri urbani. Rafah aveva 275mila abitanti prima della guerra: oggi non esiste più. Gli abitanti saranno costretti a rifugiarsi in aree sempre più ristrette, da cui si potrà uscire solo per abbandonare la Striscia». Zone che in un articolo recente Rapoport non ha esitato a definire “campi di concentramento”, tappa intermedia per l’espulsione di massa.
Un altro elemento chiave dell’apparato è l’utilizzo del riconoscimento facciale, soprattutto nei checkpoint temporanei. Telecamere ad alta risoluzione inviano le immagini dei volti dei palestinesi a un sistema che, pur supportato dall’intelligenza artificiale, in talune situazioni ha mostrato errori, senza che ciò fermasse interrogatori e detenzioni arbitrarie.
La diplomazia delle armi
Mentre la tecnologia diventa sul campo uno strumento per la carneficina, gli affari vanno avanti. Nel 2023, Israele ha esportato 13 miliardi di dollari in armi. Per il giornalista investigativo ebreo-australiano, Antony Loewenstein l’industria bellica israeliana è nata negli anni Cinquanta da un lato per il controllo sociale dei palestinesi, dall’altra per l’esportazione all’estero per ragioni economiche e per stringere rapporti diplomatici. Da allora Israele ha venduto armi ad alcuni dei peggiori regimi dispotici: la Romania di Ceausescu, l’Haiti di Papa Doc, l’Indonesia di Suharto, il Sudafrica dell’apartheid, la Persia dello Scià e al Cile di Pinochet. La fornitura ad alleati regionali degli Stati Uniti ha finito per cementare il rapporto con gli americani.
Quando le armi informatiche hanno iniziato a eclissare i jet da combattimento nei piani militari, in Israele è emerso un diverso tipo di industria. Come per i fornitori di armamenti convenzionali, i produttori di armi informatiche ottengono licenze di esportazione dal Ministero della difesa israeliano, fornendo al governo una leva cruciale per influenzare le aziende e, in alcuni casi, i Paesi che acquistano da loro.
Già nel 2018, un’indagine di Haaretz, rivelava – sulla base di centinaia di testimonianze raccolte in 15 Paesi, molti dei quali poco democratici, tra cui Bahrein, Azerbaijan, Bangladesh, Uzbekistan, Etiopia – come i sistemi di sorveglianza nati a Herzliya Pituah, un quartiere di Tel Aviv, da società come la Nso e la Verint, siano stati impiegati oltre che per la lotta al crimine e al terrorismo, anche per arrestare attivisti per i diritti umani e per i diritti delle persone Lgbt, e creare casi giudiziari attorno a figure pubbliche poco compiacenti verso i loro governi. Va detto che una volta venduti questi sistemi, non c’è modo di prevenirne l’abuso.
Per Loewenstein, questa diplomazia delle armi spiegherebbe anche perché nessun Paese arabo ha interrotto i rapporti con Israele. In Egitto, Giordania, Arabia Saudita, Emirati e Bahrein i regimi lasciano protestare i loro popoli ma li temono e il modo preferito di gestirli è proprio attraverso le tecnologie di repressione e sorveglianza forniti dagli Israele. Rapoport conferma: quello che tiene insieme Israele e le monarchie del Golfo è l’interesse reciproco a mantenere lo status quo in un equilibrio diplomatico che si gioca in gran parte dietro le quinte.
Business e ideologia
Un gioco di cui fanno parte le aziende e i governi occidentali. Una serie di inchieste di +972 e Local Call hanno svelato i progetti di Tsahal con i colossi della Silicon Valley. Microsoft ha “una presenza in tutte le principali infrastrutture militari” in Israele e le vendite dei servizi cloud e di intelligenza artificiale dell’azienda all’esercito israeliano sono aumentate vertiginosamente dall’inizio dell’attacco a Gaza.
In un’altra inchiesta è stato svelato un nuovo strumento di intelligenza artificiale simile a ChatGpt che l’esercito sta addestrando su milioni di conversazioni in arabo ottenute tramite la sorveglianza dei palestinesi nei territori occupati. Lo scopo ufficiale è quello di prevenire possibili azioni terroristiche, frugando nella vita di milioni di persone. Secondo +972, questo progetto, che si avvale della collaborazioni di tecnici israeliani che lavorano per Google, Meta e Microsoft, potrebbe allargare, senza controllo, il numero di persone sospettate, accelerando le incriminazioni e gli arresti.
Per Rapoport, l’affinità ideologica tra il governo Netanyahu e la destra al potere negli Stati Uniti ma anche in Italia e in altri Paesi europei, potrebbe accelerare l’impiego di tecnologie di sorveglianza, in una singolare convergenza di interessi economici e progetti securitari nazionali. In questo Israele, ma non solo, potrebbe giocare una partita funzionale a un disegno più ampio. Mentre anche in Italia emergono nuovi casi di intercettazioni illegali con Paragon – l’ultimo ai danni del giornalista di FanPage Ciro Pellegrino – Pegasus, un altro software spia della controversa società israeliana Nso, era stato al centro di un torbido caso di intercettazioni. Nel 2021 un’indagine di molti giornali internazionali aveva rivelato che Pegasus era stato usato per intercettare migliaia di persone in più di 50 Paesi, tra cui politici, attivisti e giornalisti. Nel quadro delle alleanze diplomatiche, anche allora lo spyware fu venduto ai servizi segreti dei regimi sunniti del Golfo e alle agenzie governative degli Stati Uniti. Prima che la Nso finisse nella lista nera Usa.