Turismo, servizi, scuola. Milioni di persone sono rimaste all’improvviso senza reddito con l’incubo di non riuscire più a mantenersi. E nessuno sa calcolare quanti interinali sono stati lasciati a casa

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«Non mi hanno rinnovato il contratto perché ci sono solo tre camere al giorno da sistemare e quindi non c’è più bisogno di me». Mariz lavorava da anni in un hotel cinque stelle a due passi dal teatro alla Scala e ora ha perso la sua paga da 7,50 euro lordi l’ora. Beatrice invece di lavoro assiste i bambini svantaggiati «ma la scuola è chiusa e quindi non mi pagano». Mario accompagna i turisti per un’agenzia, ma adesso non ce ne sono più, «non so se potrò pagare l’affitto, tra poco dovrò iniziare a fare debiti, come ne uscirò?», chiede.

Sono le voci dell’esercito dei precari, combattenti in ritirata dalla vita, ora stremati da un virus che miete sempre più vittime e si scaglia violento contro chi ha una fragilità lavorativa. Partite Iva, collaboratori, intermittenti, a termine, ombre invisibili che restano senza paga, in una condizione generalizzata e permanente di insicurezza. Perché l’emergenza costringe a fare i conti anche con le macerie di un sistema produttivo pieno di contraddizioni.

«L’estrema potenza che l’Occidente è destinato a realizzare è essenzialmente insicura: essa è minacciata dalla possibilità dell’estremo naufragio», scriveva ne “Gli abitatori del tempo” il filosofo Emanuele Severino e ora, in balia di un mare in tempesta, si dilata ogni falla. Sono oltre 3 milioni in Italia le persone con un contratto a tempo determinato, sette su dieci hanno meno di 45 anni. Cinque milioni e duecentomila sono quelle a partita Iva, per lo più intestate a persone fisiche e per quasi la metà nel nord del Paese. Solo l’anno scorso ne sono state aperte 545.700, più 6,4 rispetto all’anno precedente.

«Scusate se esistiamo anche noi eh...!» è il grido di chi è impiegato senza certezze nelle scuole. In mano un contratto di dieci mesi «ma se ti avvertono tempestivamente che non c’è bisogno di te non ti pagano», chiarisce il professor Giuseppe Martelli segretario generale dell’Unione sindacale italiana. «Solo per il comune di Roma parliamo di 4.000 occupati nella ristorazione, 2.500 educatori e altrettanti addetti alle pulizie».

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È l’esternalizzazione dei servizi pubblici, con cooperative sociali che rischiano di fallire e con loro l’assistenza a chi è bisognoso di cure
. «Più diritti per noi significa più diritti e dignità per bambini che hanno difficoltà», dice Beatrice Valla. Educatrice e rappresentante Sial Cobas lavora per la Aeris di Vimercate. Sono in 580. «La cooperativa sta facendo di tutto per tutelarci. Siamo retribuiti a ora, circa 8 euro e 60, con un contratto ciclico e se non facciamo il servizio non possiamo fatturare». Beatrice ha fatto già i calcoli: se tutto va bene con la cassa integrazione a marzo arriverà al 61 per cento del suo già magro stipendio.

Milano in una tiepida sera di marzo è la fotografia di quella opacità che si riverbera sulle vite. Le strade deserte, la movida rimane un ricordo e al di là delle vetrine resta la desolazione. Ristoranti vuoti, camerieri e cuochi a casa, chi può usufruisce delle ferie arretrate, ma per molti stanno per finire. I più hanno contratti a chiamata e zero garanzie. Anche le consegne a domicilio sono calate: una media di 4 contro le 10 prima dell’emergenza. Hanno paura i clienti e hanno paura i rider. Ferme le società di catering come quella di Andrea Bertolucci «perché eventi aziendali e fiere sono stati posticipati a data da definire, non abbiamo più nemmeno i matrimoni». Le luci si sono spente di colpo. «Milano esplodeva, ritmi frenetici, happening a cui stare dietro», dice Sebastiano Leddi, un agente che rappresenta decine di fotografi di moda. Si ferma un attimo: «Sto parlando al passato, è drammatico. Ma il contenimento dell’emergenza è l’unico presupposto per il rilancio dell’economia».

Lo ripetono tutti, anche se non sanno se arriveranno a fine mese. Nell’area metropolitana di Milano secondo la Cgil un quinto degli occupati è a partita Iva. «Quelle in sofferenza in questo momento sono circa 80 mila, a cui vanno aggiunte altre 300 mila persone con contratti non stabili», dice Antonio Verona, responsabile del dipartimento mercato del lavoro. «L’emergenza ha messo alla luce l’inadeguatezza dei sistemi di protezione nei loro confronti, praticamente inesistenti. Migliaia di persone da un giorno all’altro si trovano senza occupazione e senza ammortizzatori sociali». Si parla ad esempio di bagnini e istruttori come Stefano Bianchi o di guide turistiche come Silvia Galasso. «Nell’ultima settimana il mio guadagno è stato zero».

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«Che ne sarà di noi?», domandano anche le maschere della Fenice: accolgono il pubblico nella magia del teatro e vivono con un lavoro a chiamata. È la frustrazione che si somma all’incertezza che disorienta la vita. Il sociologo Pierre Bourdieu nel suo “Oggi la precarietà è dappertutto” alla fine degli anni Novanta fu tra i primi ad indagare la relazione tra globalizzazione, precarietà e politiche economiche. A trent’anni di distanza è diventata un tratto costitutivo.

Liberi professionisti che non possono contare nemmeno su riserve di risparmio a causa di redditi spesso sotto i livelli di povertà. Su 410 intervistati da Acta, l’associazione dei freelance, quasi otto su dieci prevedono una contrazione del fatturato e un terzo guadagna al lordo di spese, contributi e imposte non più di 20mila euro all’anno.

«Il coronavirus non ha fatto altro che portare a galla una situazione insostenibile!», ragiona l’educatrice museale Daniela Pietrangelo. Archeologi, storici dell’arte, archivisti, paleontologi con uno stipendio da fame e senza garanzie si sono uniti in un movimento chiamato: “Mi riconosci? Sono un professionista dei beni culturali”: «Siamo preoccupati e arrabbiati. Solo al Museo Egizio di Torino ci sono 160 occupati a cottimo. La metà di noi ha una paga sotto agli 8 euro l’ora e dal ministero per ora nessuno ci ha risposto per avere aiuto».

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I turisti scomparsi, le gite scolastiche annullate, la chiusura dei musei hanno quasi azzerato le possibilità di esercitare il mestiere e quindi di guadagnarsi da vivere. Federculture ha già rilevato perdite effettive di 2,5 milioni di euro in una sola settimana di chiusura e solo nelle regioni del Nord. E non va meglio a Firenze: «Abbiamo registrato l’80 per cento di cancellazioni. Nulla per Pasqua, Pasquetta, per il 25 aprile, tutta la stagione è compromessa», spiega Enzo Cusumano, presidente del centro guide. Anche nelle regioni del Sud il clima di paura ha determinato una forte riduzione, tanto che a Catania le sole disdette scolastiche nei siti monumentali gestiti dall’associazione Officine Culturali hanno causato una perdita economica pari a sette mensilità.

Niente più eventi, concerti, festival annullati o slittati a data da destinarsi. Progetti che vedono un lavoro corale, con tante professionalità che vivono di collaborazioni e si ritrovano senza orizzonte. Nella prima settimana di marzo la cancellazione di 7.400 spettacoli di musica dal vivo ha provocato perdite di incassi pari a 10,5 milioni.

E a rischio sono anche film, serie e programmi tv con troupe e produzioni ferme. «Quasi tutti siamo pagati in base alle puntate realizzate. Lavora solo chi segue l’attualità ma ci si pone dei problemi, come la sanificazione delle attrezzature», racconta Lucia Pappalardo vicepresidente dell’associazione dei filmmaker. «E poi quando documenti terremoti e guerre rischi solo tu, ora invece c’è un problema etico, quello di mettere in pericolo gli altri». C’è il rischio che la crisi si riveli un moltiplicatore delle diseguaglianze, accentuando insicurezza e smarrimento. «Reddito di quarantena per tutti», dicono gli striscioni dei precari sotto la sede della Regione Emilia Romagna. E se l’obiettivo è scongiurare la recessione tornano al centro anche i limiti del patto di stabilità e crescita. «Il fatto è che i virus se ne fregano dei confini, servono decisioni unitarie, rapide e coordinate a livello europeo per ridurre anche il contagio economico», chiarisce Dario Guarascio, economista dell’università Sapienza di Roma.

Non solo. I primi a risentire sono i precari perché è più facile licenziarli ma, avverte Marco Elia ricercatore dell’Agenzia nazionale politiche attive del lavoro, «leggi come il Jobs act hanno impresso un’accelerazione ed è probabile che per la prima volta che anche una parte dei contratti a tempo indeterminato venga espulsa perché le restrizioni al licenziamento sono minori».

Il governo ha aumentato gli stanziamenti a 25 miliardi, ma i lavoratori autonomi e con contratti fragili restno molto esposti. Eppure intanto proprio i precari rispondono mettendo a disposizione lavoro e talento: scrittori a domicilio pronti a leggere libri online, creativi ed educatori che distribuiscono tutorial con attività per bambini, cuochi che propongono ricette. Vite invisibili che continuano a sostenere il paese con generosità.