Investire oggi per essere più capaci di gestire situazioni analoghe in futuro. E adottare i singoli interventi secondo una logica di sistema

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Quando si verifica uno shock (cioè un evento inatteso, positivo o negativo) sull’economia gli esperti della materia cercano di classificarlo e di quantificarne gli effetti. Ed è esattamente quello che istituzioni internazionali e nazionali, centri di ricerca e singoli esperti stanno facendo in tutto il mondo a seguito della diffusione del Coronavirus. I risultati di queste analisi sono diversi, ma su un punto sembra esistere un consenso quasi unanime: non ci sono precedenti, perché casi analoghi (ad esempio, la Sars) hanno colpito sistemi economici profondamente diversi dall’attuale, il quale è il più internazionalizzato e il più complesso della storia dell’umanità.

Uno shock può essere di due tipi: di “offerta” o di “domanda”. Il primo tocca in primo luogo i sistemi di produzione (la tecnologia, i prezzi, ecc.), il secondo il livello o la composizione della spesa (consumi, investimenti, ecc.). La crisi petrolifera del 1973 fu del primo tipo, ma poi innescò anche una caduta della domanda. La manovra fiscale di settembre del 1992, attuata per evitare il default dell’Italia, fu del secondo tipo, e poi determinò effetti significativi anche sull’offerta. Ebbene, la diffusione del Coronavirus sta provocando “simultaneamente” ambedue i tipi di shock: l’interruzione delle catene produttive internazionali determina un “effetto domino” sull’offerta di beni e servizi su scala globale; d’altra parte, la paura del contagio colpisce attività che prevedono contatti con altre persone (viaggi, convegni, ristoranti, ecc.) e peggiora le aspettative, determinando il rinvio di scelte di consumo e di investimento.
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Ma c’è un’altra ragione per cui ciò a cui assistiamo non ha precedenti. Nel passato le crisi hanno avuto origine in un settore (industria, banche, ecc.) e poi si sono propagate agli altri. Questa colpisce simultaneamente quasi tutti i settori dell’industria (in particolare quelli più integrati internazionalmente) e del terziario (turismo, ristorazione, trasporti, ecc.), con un impatto iniziale molto più esteso e violento.

Inoltre, la crisi è avvenuta in un momento in cui le quotazioni azionarie internazionali erano a livelli molto elevati, troppo secondo alcuni. Ciò vuol dire che l’aggiustamento dei mercati verso il basso potrebbe essere più ampio di quello direttamente dovuto alla riduzione del volume di affari delle aziende quotate, con effetti negativi sugli stock di ricchezza finanziaria e quindi sulle decisioni di spesa a lungo termine dei suoi detentori. Infine, la fragilità dimostrata dalle catene internazionali di fornitura potrebbe indurre molte imprese a riportare in patria lavorazioni precedentemente trasferite all’estero (specialmente in Asia), con effetti di lungo termine di difficile valutazione a questo stadio, anche sui mercati finanziari.

In queste condizioni le politiche hanno un ruolo decisivo nel determinare la durata e l’esito finale della crisi appena iniziata. E tutto dipende dall’approccio mentale con cui leggiamo ciò che sta accadendo e che accadrà nel prossimo futuro. Se si pensa che lo shock sul sistema economico duri poco, allora conviene concentrarsi su politiche che consentono il suo assorbimento; se si pensa che sia di durata media, allora bisogna operare perché il sistema si adatti alle nuove condizioni; ma se si pensa che lo shock sia “sistemico” e di lunga durata allora le politiche devono pensare a “trasformare” il sistema.

Usando le categorie che abbiamo sviluppato in una ricerca condotta presso il Joint Research Centre della Commissione europea sul disegno delle politiche intorno ai concetti di “vulnerabilità” e “resilienza”, a fronte di shock sistemici bisogna abbandonare la classificazione usuale di politiche in economiche, sociali e ambientali, per passare ad un approccio basato su politiche che “proteggono”, che “preparano”, che “prevengono”, che “promuovono” e che “trasformano” i nostri sistemi. E quello dovrebbe valere sia a livello nazionale che europeo. Invece di concentrare il dibattito sulla flessibilità di bilancio (certo necessaria), dovremmo discutere su come bilanciare le esigenze di “protezione” (cassa integrazione) con quelle di “prevenzione” (ricerca scientifica), quelle di “preparazione” (investimento nei sistemi sanitari) con quelle di “trasformazione” (rientro in Europa di produzioni dall’Asia), e così via. Peraltro, proprio gli scienziati che finalmente l’Italia sembra disponibile ad ascoltare, ci dicono che con il cambiamento climatico la diffusione di nuovi virus sarà più frequente, per cui bisogna investire oggi per essere più capaci di gestire situazioni analoghe in futuro.

Inoltre, si dovrebbe usare il tempo del rinvio delle decisioni di consumo e di investimento per preparare strumenti che orientino la futura ripresa nella direzione del green new deal, così da trasformare il nostro sistema economico in senso ecologico e ridurre i rischi sanitari derivanti dalla crisi climatica. Così come dovremmo ripensare alla divisione di compiti tra regioni e Stato e tra Stato e Unione europea in tema di politiche sanitarie, come da molti già segnalato. E potrei continuare.

Insomma, come diciamo nella citata ricerca, bisogna evitare di cercare di “rimbalzare indietro” per tornare dove eravamo, ma bisogna “rimbalzare avanti” verso un sistema più efficiente e sostenibile dal punto di vista economico, sociale e ambientale. Per questo le “unità di crisi” italiana ed europea (che suggerisco di chiamare “unità di resilienza”) dovrebbero usare un approccio sistemico al problema, mobilitando le tante intelligenze di cui dispone il nostro Continente nei vari campi e decidendo i singoli interventi anche in funzione del futuro che vogliamo costruire, non solo dell’emergenza che dobbiamo affrontare oggi. Sarebbe un segnale forte per una popolazione disorientata e spaventata.