A un mese dall'inizio dell'epidemia, nel nostro Paese i numeri di contagiati e di decessi continuano a crescere a ritmi preoccupanti. Le misure prese dall'Italia sono imitate dalle democrazie occidentali. Ma Cina e Corea del Sud hanno seguito strategie diverse. Che finora hanno avuto successo

Se qualche virologo spera che la devastazione da coronavirus possa fermarsi con l'arrivo dell'estate, e se i cattolici pregano che Dio fermi la pandemia con una mano, il pessimismo della ragione è invece la sola bussola con cui i decisori dovrebbero – in Italia, ma non solo – gestire l'emergenza.

Non solo perché la spagnola del 1918 ebbe la sua ondata peggiore in agosto, e H1N1 si diffuse nel mondo con il caldo di luglio, ma perché il decantato “modello italiano” non sembra aver dato i frutti sperati. Nel Paese in cui si annuncia che ogni settimana è quella «decisiva», e in cui si spinge il picco ogni volta più in là, s'è presa una strada differente dai due unici modelli che si sono finora rivelati vincenti. Quelli della Cina e della Corea del Sud.

Dati
Coronavirus, la corsa dei contagi giorno dopo giorno
17/3/2020

I cinesi, è noto, dopo le iniziali titubanze e censure si sono mossi attuando un lockdown (blocco) totale. Sia a Wuhan, epicentro del Covid 19, sia nel distretto provinciale di Hubei, è stato chiuso tutto: uffici pubblici e privati, fabbriche, mezzi pubblici, treni, aerei. Il coprifuoco ha tenuto in casa 60 milioni di persone per quasi due mesi. L'esercito in strada ha funzionato, per usare un eufemismo, da potente deterrente. Ospedali sono stati costruiti in dieci giorni, migliaia di medici sono stati portati da tutta la nazione per fronteggiare il nemico. Armati con ogni mezzo disponibile.

È un paradosso, ma oggi se il regime non spaccia dati fasulli lo Hubei è il luogo più sicuro del pianeta. Non a caso Apple ha riaperto tutti i negozi della Cina chiudendo in contemporanea quelli del resto del mondo. Ieri a Wuhan sono stati tracciati solo 4 nuovi casi. La preoccupazioni maggiori del partito comunista riguardano adesso i contagi da “rientro”.

La Corea Del Sud contro il Covid ha seguito una strada del tutto diversa. Il contagio nel paese s'è diffuso qualche giorno prima rispetto all'Italia. Il 20 febbraio si contavano già 100 casi e un morto. «La velocità di risposta è tutto» ammoniva in quei giorni l'Oms. I coreani hanno preso in parola gli scienziati. Non hanno chiuso nulla, però. Nemmeno il focolaio dell'infezione, la città di Daegu, è stata messa in lockdown.

La battaglia è stata combattuta con l'arma dello screening di massa, attraverso i tamponi e la ricerca ossessiva di ogni positivo possibile, e poi a cascata di tutti i suoi possibili contatti. È stato fatto subito il tampone a tutti i 215 mila fedeli della setta focolaio del Covid, e sono stati messi in quarantena non solo i positivi al test, ma tutte le persone rintracciate che erano state a meno di due metri dai contagiati.

Per fare questo enorme lavoro di investigazione, sono state usate 500 cliniche private per i test, mentre decine di migliaia di persone hanno fatto interviste a raffica per ricostruire la filiera dei contagi. Infine, è stata usata una app (chiamata Corona100m) per controllare con il Gps del cellulare che la quarantena fosse rigidamente rispettata.

La stessa app è stata usata per girare al sistema sanitario nazionale lo stato di salute di malati e asintomatici a rischio. Mentre un ufficiale sanitario ha il compito di contattare due volte al giorno i cittadini costretti all'isolamento domiciliare. Un triage efficace messo a punto cinque anni fa, quando la Corea del Sud fu colpita da un'altra sindrome respiratoria grave, la Mers.

Il 10 marzo la curva dei contagi ha cominciato a scendere. Ieri, se l'Italia ha contato quasi 3000 contagiati in più, a Seul ne hanno calcolati appena un'ottantina.

Terza nazione colpita in ordine temporale, l'Italia ha seguito una terza via. Più simile, probabilmente, a quella cinese. Ma la Grande Muraglia messa in piedi a Wuhan per noi è operazione difficile e, per alcuni versi, impossibile.

Lo Hubei ha chiuso fabbriche e uffici tenendo in casa 60 milioni di persone perché il resto del Paese (oltre 1,3 miliardi di persone) lavoravano al loro posto, prendendosi cura delle necessità dei concittadini costretti alla quarantena. In Italia è invece irrealistico pensare di ridurre a zero la produzione industriale: le filiere alimentari, della sanità e degli altri beni primari non possono essere bloccate. Fossimo tutti chiusi in casa, chi si prenderebbe assistenza di noialtri?

Il lockdown solo parziale costringe le persone a spostarsi, a incontrarsi sui mezzi di trasporto, sui luoghi di lavoro, in fabbrica. In qualche caso, gli assembramenti sono impossibili da evitare.

Ieri la Regione Lombardia ha svelato che ben il 40 per cento dei lombardi si muove ancora sul territorio. Molti non possono farne a meno, per motivi di necessità, ma altri – in mancanza di regole ferree e una militarizzazione che resta impossibile nelle democrazie occidentali – continuano a uscire di casa. Il virus ha e avrà, da noi, molte più occasioni di diffondersi rispetto a quanto accaduto in Cina.

Il governo nazionale, inoltre, nonostante le insistenze di alcuni governatori (Luca Zaia in primis) non ha per ora intrapreso alcuno screening sul modello coreano. Per quale motivo? Innanzitutto, a differenza di Seul non eravamo pronti: non esistono strutture sul territorio per organizzare test rapidi e di massa. In secundis, i tamponi sono pochi, e sono stati riservate ai sintomatici e agli operatori sanitari. Poche anche le cliniche capaci di dare risultati in tempi rapidi.

Un software centrale di controllo (sono giorni che l'infettivologo Massimo Galli del Sacco invoca, ignorato, un utilizzo massiccio della telemedicina) per contattare le persone malate a casa e localizzare e delimitare un focolaio non esiste. E non c'è alcun programma per realizzarne uno.


Italiavirus
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12/3/2020
Fossimo anche attrezzati tecnologicamente, il terzo fattore che impedisce di seguire il modello coreano riguarda la questione della privacy: il timore è che la sorveglianza attiva (attraverso app, telecamere e controllo domestico da effettuare attraverso le forze dell'ordine) sia contraria ai diritti sanciti dalla nostra Costituzione. Diritti che, a detta dei più accorti, dovrebbero venire dopo il diritto alla salute. Anche perché, mancando il secondo, sarà complicato difendere tutti gli altri

Wuhan ci ha messo due mesi ad uscire dall'emergenza critica. La Corea meno di 45 giorni. In Italia siamo a un mese dalla scoperta del paziente 1 di Codogno. Ma, mettendo i fatti sul tavolo (compresa l'impossibilità di proteggere con mascherine adeguate medici e infermieri, che si ammalano e infettano a loro volta) sembra difficile che il modello italiano come finora concepito possa portarci ai successi dei cinesi e dei coreani negli stessi tempi.

Ci attendono settimane, probabilmente mesi, difficili

1. continua