«Il mio limbo da positiva al coronavirus a 34 anni»

di Marta Bellingreri - foto di Alessio Mamo   27 marzo 2020

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La telefonata con il responso: "Lei è positiva”. La febbre, un peso nel petto, la guarigione. Il covid-19, vissuto a Catania, giorno per giorno (Foto di Alessio Mamo)

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Una pietra, a tratti un sasso leggero, altre volte un macigno. Al centro del petto. Poi talvolta il masso sembra spostarsi, e stomaco e costole rimangono schiacciate. Mi si stringe il torace. Come se fossi costretta a indossare un corpetto. Vengono stretti i lacci, e mi tolgono il respiro. Poi si allentano, ed io riprendo a respirare. In affanno, come se avessi scalato una montagna correndo. Eppure sono ferma a casa. Come tutti. Gli unici che corrono all’impazzata creando ancora più affanno sono i miei pensieri, anch’essi stretti, anzi stritolati dal dolore che migliaia di famiglie stanno provando in queste ore in Italia e nel mondo. A distanza di sicurezza da tutto quel che vorresti vicino.

Ore 8.37, venerdì 13 marzo 2020. «Buongiorno signora, sono la dottoressa dell’Ufficio Igiene. Purtroppo le devo dire che è positiva. Non deve uscire di casa per nessun motivo. Se ha febbre più di 38, chiami questo numero. Se non riesce a respirare bene, pure. Tutto chiaro? Arrivederci».

UNA FESTA È CONTAGIOSA
La sera del 25 febbraio ci riuniamo per una cena tra amici. L’occasione è festeggiare il fotografo Alessio Mamo che ha vinto un premio del World Press Photo. In tutta Italia intanto, nel giro di soli sei giorni, i casi positivi al Covid-19 sono passati da 4 a 322. Ma in Sicilia, nessuna traccia. Certo, già dai primi di febbraio, agli aeroporti hanno iniziato a misurare la temperatura a chi atterra. Le mascherine cominciano a scarseggiare nelle farmacie. Pochi probabilmente avrebbero saltato una festa «a causa del coronavirus». Nessuno avrebbe mai immaginato che a quella cena c’era il nostro paziente zero. Un amico tornato dalla Germania con uno scalo di un’ora all’aeroporto di Milano. Asintomatico al controllo della temperatura, e del tutto ignaro di essere un portatore sano.

Il giorno dopo, io e Alessio Mamo partiamo per il Sudan, armati di mascherina e amuchina, ma siamo ancora al 26 febbraio, e quasi nessuno le indossa: né a Catania né ad Istanbul né a Khartoum. Stiamo giorni a fotografare il paese che vive una rivoluzione da oltre un anno. Le nuove generazioni hanno scacciato via una delle più longeve dittature africane, e il paese brancola ancora nell’incertezza. La chiamata che cambierà il destino del viaggio e delle settimane a seguire arriva dopo sei giorni, i primi di marzo del 2020, mentre l’Italia e il mondo stanno cambiando per sempre. L’amico tornato dalla Germania ha avuto la febbre e, proprio perché rientrato da un viaggio, è stato sottoposto a un tampone risultato positivo. Così scatta l’allerta: le chiamate ai possibili contagiati, i tamponi ai più anziani presenti alla cena, le quarantene volontarie.

Noi ci mettiamo in autoisolamento in Sudan, ma, nel frattempo, la mamma di Alessio risulta positiva e, sia per l’età che per i pregressi problemi respiratori, viene immediatamente ricoverata all’ospedale Cannizzaro di Catania. Guardare i voli aerei per tornare in Italia diventa la nostra urgenza, una ricerca disperante: la Turchia, il nostro scalo di andata, ha cancellato tutti i voli verso l’Italia. Altri paesi, per altri scali, vietano il transito o l’ingresso a chi viene dall’Italia, o ci è stato negli ultimi 14 giorni.
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Il mio primo sintomo sembra un colpo di sole africano: una cappa alla testa, qualche decimo di febbre, niente tosse, un malessere che passa dopo pochi giorni. Ci sono quarantadue gradi e non posso uscire di casa. Nell’incertezza, inizio a chiedere alle persone che ho incontrato in Sudan come stanno. «Se possibile, restate a casa», ripeto. Cerco di attenermi a quello che ormai si dice in tutta Italia: restiamo a casa.

Intanto, anche il fratello di Alessio viene ricoverato: fatica a respirare, ha 46 anni. Che fare? Ha più senso aspettare la fine dei 14 giorni dall’ultima volta in cui si è stati in Italia per poterci rimettere piede? O aspettare l’unico volo a settimana verso la Sicilia che dal Sudan, volando a Dubai, ci riporti a casa? Alla fine, grazie a un viaggio dal cuore dell’Africa verso l’Asia, riusciamo a tornare. Un rientro in Italia che sa di addio: al nostro lavoro e alla mobilità, al mondo di prima. Adesso le mascherine negli aeroporti le indossiamo tutti.

(Solo dopo il rientro verremo contattati dal Ministero della Salute del Sudan per rintracciare le persone che abbiamo incontrato: nessuno ha sintomi, i tamponi sono negativi e tutti sono stati messi in quarantena preventiva. Sapere che ancora adesso il Sudan ha due soli casi Covid-19 ci fa tirare un respiro di sollievo).

IL LIMBO È ANCHE IL PRIVILEGIO DI NON ESSERE GRAVI – COVID-19 IN SICILIA
So descrivere l’intensità di una lombosciatalgia. Riconosco la stanchezza che mi porterà a un blocco della schiena. Ma non ho mai provato, fino a questi miei 34 anni, un affanno nel respirare. Non ne conosco i livelli, non ne capisco la gravità. Non ho mai avuto una polmonite. Ma se provo a fare pilates, seguendo le lezioni-video della mia amica Emilia, non riesco a terminare gli esercizi.

Come posso spostare questo masso dal petto? Allora torno a chiamare il mio medico che mi segue fin dal primo sintomo, il dottor D’Arpa di Palermo. Devo fare dei raggi, mi dice. Telefono al numero che mi è stato dato al rientro. Mi rispondono che devo farli privatamente. Ma il medico si oppone categoricamente: sono positiva, non posso uscire di casa! Allora chiamo direttamente l’ospedale: «Si deve ricoverare per farli, ma se non ha più di 38, non è il caso».

Perché, se mi ricovero, il protocollo prevede almeno due notti in ospedale, isolamento in una stanza senza finestra, due antibiotici, e in caso di polmonite l’assunzione di due antivirali. Ma io, al momento, dovrei fare solo una radiografia. Opzione che non esiste neanche per i pazienti positivi. Decido di non ricoverarmi. Non sono così grave, i posti a Catania, dove mi trovo, sono limitati. Ma io potrei diventarlo? Il mio medico mi rassicura: ascolteremo i sintomi ora dopo ora. I casi aumentano di giorno in giorno, ed in Sicilia la provincia più colpita è proprio quella di Catania. Nel frattempo, l’affanno cresce e, con l’affanno, anche la paura di un dolore al petto che non riconosco. Il dottor D’Arpa mi dice di ordinare in farmacia il saturimetro. In poche ore diventerà il mio migliore amico. «Se superi 95 di ossigeno, stai serena. Se sei a 92, bisogna correre in ospedale». Aspetto che un amico me lo porti dalla farmacia a casa, lasciandolo dietro la porta. Il mio ossigeno è 98. Posso dormire sonni tranquilli.

A Palermo, la mia città, la città dove vive la mia famiglia, sono ricoverati 45 pazienti Covid: un numero talmente basso che potrebbe rientrare nella media stagionale di polmoniti. L’infettivologo Tullio Prestileo dell’ospedale Civico si rende disponibile per seguire a distanza pazienti che come me non hanno sintomi gravi ma che hanno bisogno di un controllo quotidiano: in poche settimane ne ascolta 80 in tutta Italia, ma gli arrivano chiamate di italiani anche dal resto d’Europa.

Fin da fine febbraio, l’Assessorato alla Salute siciliana ha messo in campo un’organizzazione fuori dall’ordinario per incrementare posti in terapia intensiva, tenendo conto di quel che stava accadendo al nord. E questo ha permesso all’ospedale Civico, ad esempio, di poter ospitare due pazienti da Bergamo e offrire ancora dei posti ai colleghi lombardi. Ogni giorno il dottor Prestileo si preoccupa di informarli sull’andamento dei pazienti di Bergamo. Non si può permettere di fare lo stesso l’infettivologo primario dell’ospedale Cannizzaro di Catania, dottor Iacobello: «Abbiamo 225 ricoveri su un totale di 799 casi in Sicilia». Una situazione delicata insomma, nonostante anche a Catania come a Palermo siano stati allestiti già reparti dedicati interamente a pazienti Covid e si stiano incrementando i posti letto in rianimazione. La Sicilia aspetta l’impennata. Il problema, mi spiega il mio medico D’Arpa, che segue 30 casi Covid in Italia, è che, non conoscendo il virus, i pazienti con sintomi lievi vengono lasciati a casa senza alcuna terapia: se scompensano, possono diventare gravi anche in un tempo molto breve. Il che esigerebbe un ascolto individuale, per prevenire il peggio.

Nel frattempo, il nostro paziente zero ha debellato il virus: ora è negativo al tampone. Ma poiché non gli è stato rilasciato nessun documento che lo attesti, rischia una sanzione penale se esce di casa. Aspetta da giorni il secondo tampone che in base alle direttive del Ministero della Salute dovrebbe esser fatto a 24 ore dal primo negativo. Più aumenta il numero dei tamponi effettuati più il sistema si impalla. Per una risposta ormai si attende anche sino a tre giorni. Un limbo in cui non sai niente: né se per caso hai contratto il virus né se sei tra coloro che ne sono usciti. Poco importa, restiamo tutti a casa. Arrivano anche le buone notizie: la mamma e il fratello di Alessio escono dall’ospedale! Escono, sì, ma anche loro devono attendere l’esito dei due tamponi. La verità è che servono i posti per i casi più urgenti. Così, si rimane tutti confusi. Perché la mamma di Alessio, ad esempio, non ha ancora ricevuto risposta del primo tampone eseguito una settimana fa, ed è stata sottoposta al secondo senza sapere l’esito del primo. Un limbo nel limbo.

Nel mio isolamento domiciliare da Covid, il mondo e i viaggi di questi anni vengono ad abitare la casa insieme a me. Ricevo decine di messaggi di solidarietà al giorno: da Siria, Giordania, Yemen, Iraq, Tunisia, Afghanistan, Libia, Germania, Palestina, Francia, Marocco, Gran Bretagna, California. Mi commuovo quando leggo: «Tutta la Libia sta pregando per l’Italia», quando, dalla Siria, Najla mi chiama piangendo o quando da Baghdad mi arrivano video di incoraggiamento. Mi scrive persino un giudice di Mosul. Tutte persone care, e molte di loro protagoniste dei miei reportage dai luoghi più martoriati del mondo. Come sto, come stiamo? chiedono. Ogni giorno se ne vanno 700 persone. Oltre ai polmoni, mi si stringe il cuore.

Intanto, la pietra al petto si alleggerisce e i lacci del corpetto si allentano. L’affanno diminuisce. Torno pian piano a respirare nel respiro di vicinanza che mi arriva dal mondo, in questa nostra tragica primavera del 2020.