
Bordin, romano di padre veneto, cresciuto a San Giovanni in via Vetulonia, vissuto a Testaccio, cresciuto politicamente tra la IV Internazionale e il collettivo del Manifesto a Monteverde, ha sempre detestato i generi, le categorie e le indicazioni temporali e quando qualcuno lo apostrofava come «maestro» amava rispondere con una frase di Alberto Arbasino adattandola al giornalismo: «La carriera dello scrittore italiano ha tre tempi: brillante promessa, solito stronzo, venerato maestro», diceva. Per poi concludere: «Quella del solito stronzo è senza dubbio la più divertente». Tuttavia le migliaia di ore di registrazioni che ci ha lasciato, i centinaia di migliaia di fogli e taccuini con appunti, scalette, corrispondenze, i ritagli di giornale, gli articoli che sono stati catalogati per Radio Radicale in questi mesi da Andrea Maori, sono materia di studio piena e autentica che determina il compimento di un vero e proprio metodo di lavoro giornalistico composto da una rigorosa analisi delle fonti, che si mescolava con libri, riviste, una capillare rete di informatori sparsi in ogni angolo del Paese, personaggi con cui Bordin amava intrattenersi, di cui amava la cialtronesca movenza, ma di cui testava l’affidabilità nel corso del tempo; un segmento questo che veniva implementato dall’analisi storica dei fatti e degli argomenti trattati - essendo dotato di una memoria sfavillante sapeva a memoria date, luoghi, processi, eventi, manifestazioni, nomi di deputati e gruppi di appartenenza, autori di libri, nomi di assassini, di giudici, di testimoni.
Un database cerebrale che allenava quotidianamente immettendo una quantità enorme di informazioni, mescolandosi in modo mimetico con i posti che attraversava. Ad esempio negli anni del processo Tortora fece di Napoli la sua casa e grazie ad Antonio Cerrone, anima della radio nella città partenopea, ne riuscì a catturare le sfumature e l’essenza e così quell’odore dei quartieri Spagnoli, la linea di fuoco di Scampia, i processi ai Casalesi e ai Di Lauro, la nuova e vecchia camorra avevano nel racconto radiofonico la trama e le immagini di un serie televisiva, facendosi da parte nella narrazione diventando “uno del posto” è riuscito sempre a dipingere i pezzi più dolenti, sanguinari, eccessivi del nostro Paese. Un metodo questo che applicava anche alla politica che guardava con attenzione, arguzia e tenerezza sempre perché più dell’opinione e del giudizio sapeva fare spazio ai difetti essenziali e ai pregi efficaci. Le giornate trascorse interamente in radio dall’alba al tramonto erano la necessaria condizione per riuscire ad immettere un numero enorme di informazioni e di connetterle, stessa alchimia che ha animato “Stampa e regime”. In questa modalità operativa era quasi bandito l’innamoramento che «porta sempre alla retorica» ma era invece stabile l’amore per i fatti e i protagonisti, per l’inchiostro, il nastro e la carta.
La pressoché totale verbalizzazione a mano di ogni singolo passaggio della sua esistenza giornalistica rendeva evidente la passione unica che nutriva per le parole, parte integrante di un metodo di dialogo con l’interlocutore o con l’ascoltatore. L’assenza totale di anafore, di metafore calcistiche, di similitudini scontate, del battutismo di seconda categoria, sono una lezione pratica di rispetto verso l’altro, ogni parola costava impegno. Di qui le sue massime, le vestizioni lessicali, i sospiri, i colpi di tosse erano un tappeto sonoro adatto per un giornalismo che non faceva il verso a nessuno.
Anche il ricordo visto con questa lente di ingrandimento non si perde in mezzo ai rivoli del sentimentalismo ma diventa subito memoria e quel sigaro tra i denti, l’altezza e lo stile, il garbo e la metamorfosi della riottosità, le risate con la rincorsa, la passione smodata per l’umanità la più alta e la più infame, i ritagli dei giornali, gli espedienti per svignarsela, la rara capacità di decidere quando scientificamente essere antipatico, ruvido e fastidioso, gli amori, gli amici, il «tirare tardi e aspettare mattino», le grappe bianche e le conversazioni senza fine con i colleghi durante i festival, il rivolgersi ad Alessio Falconio che lo ha succeduto, dopo Paolo Martini, alla guida della Radio con «scusa direttore, ma secondo te…», la memoria di ogni secondo della nostra storia politica, la razionalità del giocatore, il gusto nel vestire e nel raccogliere le provocazioni facendole raffreddare, i caffè lasciati raffreddare, le fughe a pranzo con il figlio Pierpaolo, l’amore per la sua compagna Daniela Preziosi raccontato in punta di penna su “Il Foglio”, il riserbo sul periodo più difficile e la lotta generosa e senza sconti per la vita di Radio Radicale sono un dono prezioso per il futuro del dibattito pubblico di questo Paese. Un dono che ebbe la forma del testamento politico e giornalistico che pronunciò al Congresso straordinario del Partito Radicale a febbraio dello scorso anno nel corso del quale ribadì la natura radicale di un organo di servizio pubblico, un dono irregolare che servirebbe a scrostare l’ineleganza di un mestiere che si fa sempre più in modo urlato, alla ricerca di colpevoli e di sensazionalismi, senza la dolce curiosità che servirebbe, una curiosità che ha animato Massimo Bordin fino all’ultimo giorno e che forse si è mescolata alla rabbia per essersene andato troppo presto da dover rinunciare a girare per Roma fino all’alba, alle conversazioni notturne con gli amici di sempre, ai poker a casa del professor Pellicani e al dire ogni giorno: «E con questa segnalazione chiudiamo qui oggi la puntata di oggi di “Stampa e Regime”».