Dal Niger alla Svezia nei giorni del lockdown ci assomigliamo tutti
Il contagio. La clausura. La miseria. La speranza. E una quotidianità che malgrado le differenze di classi sociali e latitudini mostra tanti punti in comune. Testimonianze da tutto il mondo su un'esperienza che nessuno si aspettava di affrontare
Mi devo riabituare alla vita». Giorgia lo dice con un filo di voce. Ha trent’anni e il mento scavato, come fosse caduta a terra. «Le hanno da poco tolto i tubi dalla gola, ora è risorta», annuncia l’uomo con la cuffia verde e la maschera che gli copre il volto. Sulla tuta bianca spunta un crocifisso di legno, «così non mi confonde con un medico, ma fino a qualche anno fa avevo la foto di Jim Morrison», assicura.
Don Pietro Sacchi ha seguito l’insegnamento di Papa Francesco: «Non siamo come don Abbondio dobbiamo stare con i malati». Le sue giornate le trascorre all’ospedale di Tortona insieme a chi combatte il virus. Perché nessuno si salva da solo e, nonostante il distanziamento sociale cui siamo costretti, è necessario costruire legami che curino l’anima. «Non ho la verità in mano, qualcuno mi chiede di confessarsi, altri di parlare della paura e qualcuno sta solo in silenzio. Il mio compito è ascoltare e far esprimere il cuore», racconta.
Un anziano si sente in colpa perché pensa di aver infettato la moglie, un ragazzo gli chiede di raccontargli del concerto dei Guns N’ Roses. Gli occhi di un papà e di un figlio si incrociano su uno schermo dopo venti giorni. «I tablet ce li hanno donati e con le rotelle delle sedie rotte e delle flebo abbiamo costruito un supporto, per portarli in giro. Sento tutti loro come una famiglia».
A fine turno un’anestesista sfinita gli prende la mano e se la mette sulla testa. Sanitari che continuano a lavorare e muoiono per l’incuria in cui sono stati abbandonati da anni, che resistono tra smarrimento e sofferenza. «Il dolore davanti a tante morti in solitudine, il non poter fare abbastanza, ogni certezza è messa a dura prova».
Mirella Riccardi è una psicologa di Medici Senza Frontiere e per la prima volta lavora in Italia in una casa di cura nel lodigiano. Ospita anziani, fragili vittime di una strage silenziosa. «Qui gli operatori hanno un legame con i pazienti, sono la loro famiglia. Mi ha colpito la commemorazione delle date, in assenza di commiato ricordano ogni momento con precisione». Riccardi ha vissuto epidemie come l’Ebola e si rende conto che «ci sono affinità tra diverse culture davanti a qualcosa di sconosciuto e drammatico. Si cerca di trovare un senso alla paura. Un’epidemia altera ogni regolarità e impone prepotente nuove forme di stare al mondo». [[ge:rep-locali:espresso:285344160]] Scoprire dentro di sé nel bel mezzo dell’inverno un’invincibile estate, perché «non importa quanto duramente il mondo vada contro di me, in me c’è qualcosa di più forte, qualcosa di migliore», scriveva Albert Camus. Stasera a Niamey c’è il coprifuoco. Issifou Djibo, giornalista televisivo, esce da casa a giorni alterni per documentare la situazione in Niger: «nessuno può entrare ed uscire, sono chiuse scuole, moschee, chiese». Il coronavirus non risparmia uno dei paesi più poveri del mondo, già messo in ginocchio da altre malattie mortali, la prima è la fame. «Abbiamo un solo centro di analisi e per curarsi servono i soldi. Siamo imprigionati nella violenza dei gruppi jihadisti, piegati dagli effetti del cambiamento climatico, questo renderà i poveri ancora più poveri, ma ci aiutiamo l’un con l’altro, ci salverà dal virus», spiega.
L’aiuto degli altri, Maria Consuelo lo invoca piangendo. Dal barrio Santa Fe, la più grande zona di tolleranza di Bogotà. «Sono una lavoratrice del sesso. In famiglia tutti dipendono da me e io non sto lavorando perché non voglio contagiarli, ma se non lavoro non mangio». A Bogotà, per le strade, non c’è più nessuno: soltanto militari dell’esercito e piccioni. Claudia López, la prima sindaca donna della capitale ha chiuso tutto, altri sindaci l’hanno seguita, nonostante il governo all’inizio si sia opposto. «Qui al barrio però viviamo ammassati, è un disastro». Gli occhi lucidi di Maria Consuelo si perdono nei venti metri quadri dove vivono in otto: «Tu riesci a dormire?» chiede «Io no. Penso a come fare perché io e i miei figli esistiamo».
La necessità di un futuro, il diritto ad averlo. Maria cresce dentro alla pancia e Dimitra Tsiopela da un mese non esce dal suo appartamento di Atene: «Se prendo il virus dovrò fare una terapia, chissà che effetti avrà su di lei, ormai le visite le faccio al telefono. Sono piena di ansia. Il mio compagno organizza eventi, quelli che forse non si faranno più. Ora è di nuovo buio, come dieci anni fa». In Grecia la fragile ripresa rischia di essere spazzata via dalla pandemia, ma resta la consapevolezza di avere dei diritti: «il governo voleva privatizzare la sanità e oggi ci dice di applaudire medici e infermieri. Questo virus ci insegna che non sei sano se gli altri non lo sono», spiega.
Il diritto alla salute per tutti, anche per chi come Wahid è stipato nell’inferno d’Europa. La sua casa è una tenda del campo di Moria, per terra il fango: «dicono di mantenere distanze di sicurezza, ma abbiamo l’acqua poche ore al giorno in un solo punto. Siamo in troppi anche per la fila del cibo: o mangio o mi contagio». Qui non ci sono mascherine né gel, qui si muore anche se hai sei anni. L’effetto della vita sull’anima si increspa come le gocce dell’acqua.
Rasha Deeb l’ha racchiuso in una scultura di legno di 2,8 metri di altezza. Vive a Tubinga in Germania, «ho superato tutto quell’orrore e ora mi sento al sicuro, qui ci sono 40 mila posti nella terapia intensiva ma tutti i giorni chiamo i miei genitori a Damasco. Non si sa quale sia la situazione e non possono fare nulla, perché lì gli ospedali per curarti proprio non ci sono». Si chiama guerra e in guerra non sei al sicuro nemmeno se resti a casa. Lo sa bene Aysar Nasserallah, che a Gaza lavora con i giornalisti stranieri e «ora per la prima volta in vita mia li chiamo al telefono per chiedere come stanno. Qui sono pochi i casi ufficiali, hanno costruito luoghi per l’isolamento, disinfettano le strade ma se dovesse scoppiare per due milioni di abitanti abbiamo solo 70 posti in terapia intensiva». E a volte nemmeno quelli, come in Rojava nel Kurdistan siriano: «perché se sei in confitto, tra le macerie, le capacità di far fronte all’emergenza sono fortemente ridotte e si rischia la catastrofe».
Luca Cafagna lavora per l’ong “Un ponte per”, con la Mezzaluna rossa curda tenta di dare cure e medicine a vite spezzate. «Mantenere le distanze nei campi di sfollati è impossibile, non ci sono centri in cui isolare i pazienti, i posti letto con l’ossigeno sono appena una dozzina», spiega. Cafagna ha scelto di non rientrare, la sera si collega via Skype con la madre infermiera in un ospedale romano: «Il virus ci ha svelato che le nostre sicurezze non sono scontate. Siamo tutti connessi e non possiamo permettere che qualcuno resti indietro». A prescindere dalle latitudini.
Beatrice ha dodici anni e vive dove Roma sembra finire e l’orizzonte si infrange in una colata di cemento. In quella Tor Bella Monaca che per molti è solo una delle più grandi piazze di spaccio d’Europa. Sulla facciata cieca di un palazzone lo street artist Solo ha colorato Miwa, l’eroina che affianca Jeeg Robot e anche Beatrice ama disegnarla. «Prima non lo facevo, ho iniziato con la quarantena. Mi fa sentire libera». Disegna su fogli di carta, gli stessi che usa per i compiti mentre la mamma cuce vestiti. Per le lezioni invece usa il telefonino: «Quaranta minuti perché poi è a pagamento», specifica. Nel silenzio del municipio più giovane della Capitale c’è chi si impegna per riannodare i fili e costruire alternative. «Ci adattiamo con l’improvvisazione forzata dalle circostanze e dall’incuria di tanti anni», spiega il suo professore di italiano Emiliano Sbaraglia. «Quando finirà tutto questo?» chiede Beatrice. Cala il silenzio sui volti sovrapposti sullo schermo. La clausura si insinua rapida nell’animo. E l’impotenza nel non raggiungere chi rimane tagliato fuori, perché non ha il pc, giga a sufficienza o una famiglia che lo supporta.
Il virus impone la distanza e rischia di fare a pezzi il futuro dei più deboli. Giacomo sognava di diventare un campione del ring, ma l’hanno arrestato per resistenza a pubblico ufficiale e un furto da 60 euro commesso in uno stato psicotico. Da mesi è stato dichiarato «inadatto al regime carcerario», ma non ci sono posti disponibili in una struttura di cura. È obbligato a restare in cella: come fosse una sala d’attesa per malati, ma senza le cure adeguate.
La mamma, Loretta Rossi Stuart, sorella dell’attore che ha interpretato il “Freddo” nel film “Romanzo Criminale”, ha fatto arrivare il suo fascicolo persino alla Corte europea dei diritti dell’uomo che ha riconosciuto la necessità di dover intervenire immediatamente. «Ma è ancora lì, è terribile», sospira. Loretta sobbalza a ogni trillo «i colloqui sono sospesi e io il martedì aspetto la chiamata via Skype, ma sono in tanti e così non lo vedo da settimane». Vuole mostrargli un incontro di pugilato, le foto dei fratelli. Nel buio aspetta un figlio «sequestrato da uno Stato che ora dice di stare a un metro di distanza. Ma sono sei in 10 metri quadri».
Tremila chilometri più a sud risuonano le note di “Con te partirò”. «È un modo per placare l’ansia della lontananza», rivela Yftah Schibolet. Sua moglie Giusy si è trasferita da Milano a Tel Aviv: «Lì ci sono ancora i suoi parenti, uno zio si è ammalato di Covid-19. Chissà quando potremo rivederli». Partire per tornare. Giusy non esce da settimane «non porto fuori nemmeno i bambini. Qui in ogni caso un’app ti dice se hai incontrato persone contagiate. E anche se non la scarichi ti arriva comunque un messaggio». In prima linea è stato schierato lo Shin Bet, i servizi segreti interni, usa dati e strumenti solitamente impiegati per l’anti-terrorismo, ma per Giusy « è più importante fermare il virus».
La pandemia come spartiacque nella storia della sorveglianza, con misure temporanee che potrebbero sopravvivere all’emergenza e i diritti che cedono il passo all’incolumità. «Tra privacy e salute i cittadini di solito scelgono la seconda, ma possiamo scegliere di proteggere la nostra salute senza istituire regimi di sorveglianza totalitaria, responsabilizzando i cittadini», avverte lo storico israeliano Yuval Noah Harari. Ricostruire la fiducia delle persone nella scienza e nelle autorità pubbliche. In Svezia Per Söderström ha un chip impiantato sotto alla mano già da un paio d’anni, contiene tutti i suoi dati sanitari. «Credo in una visione democratica della tecnologia. Il bilanciamento dipende da consapevolezza e trasparenza».
A Stoccolma ha già visto morire due amici, sua moglie è a casa con la tosse da dieci giorni. Il governo ha rifiutato di adottare la strategia del confinamento totale e il Paese è caduto nei numeri bui con tanto di richiamo alla medicina delle catastrofi, vietando le cure a chi non ha speranze di farcela «Un concetto vitale per la nostra società è il medbestämmande, il processo di co-decisione. Dobbiamo essere informati e capire. Non so però se saremo davvero pronti a prenderci le responsabilità in caso di fallimento», ragiona Söderström.
L’iniquità di un sistema dove sopravvivono i più forti e dove ha prevalso l’avidità, tanto da arrivare impreparati nonostante l’allarme degli scienziati. E questa, come ha detto l’ex direttore del Guardian, Alan Rusbridger, è solo la prova generale di quello che ci aspetta per le conseguenze del cambiamento climatico. Nel villaggio di Xixuaù sulle sponde del rio Juaperi, Francisco Alves dos Santos Nascimento è sconsolato. «La natura va temuta e noi dobbiamo imparare a rispettarla. Qui non esistono strade, solo fiumi e non ci sono ospedali».
I più vicini, a 500 chilometri, sono già al collasso nonostante il presidente Jaïr Bolsonaro abbia all’inizio bollato il virus come «una piccola influenza». Francisco e gli altri nativi sono costretti a muoversi lo stesso, «perché non ci sono mercati e dobbiamo mangiare. Il governo ha dato un sussidio ma non abbiamo un conto in banca, possiamo anche utilizzare i soldi per pagare online, peccato che su 14 villaggi solo 3 abbiano la rete. A noi non servono soldi, ma cibo e medicine». E così insieme alla milanese Amazônia Onlus cerca di garantire la distribuzione di beni di prima necessità a 100 famiglie perché «bisogna invertire la rotta. Proprio come con la salvaguardia della foresta».
A Ny-Alesund, mille chilometri dal Polo Nord, in un avamposto della ricerca fondamentale per studiare i cambiamenti climatici, Marco Casula non indossa la mascherina ma un passamontagna e i guanti sono quelli imbottiti contro il freddo. Qui Covid-19 non è arrivato, unica eccezione del pianeta insieme all’Antartide. Casula ha 28 anni viene da Mestre e l’isolamento l’ha scelto: è un tecnico dell’Istituto di Scienze polari del Cnr «sono arrivato il primo gennaio, in piena notte polare e il mio ritorno in Italia sarà proprio il coronavirus a deciderlo». Oggi si trova in una situazione fortunata «siamo trenta, da tutte le parti del mondo e ci possiamo ancora stringere la mano ma penso ai genitori e agli amici». Vite che si intrecciano connesse in un mondo spaventato e tentano di evitare che dolori e traumi segnino in profondità le generazioni a venire.