Il leader di Italia Viva è il trionfatore del risiko delle poltrone (voto 8). Conte delude e non riesce a incidere (voto 4). Bene Di Maio (voto 7,5), appena sufficiente il Pd di Zingaretti. Sorprendente la resistenza di Descalzi (voto 10), riconfermato all'Eni nonostante scandali a catena. L'addio a sorpresa di De Gennaro (voto 5). Grande assente: la meritocrazia

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Il rito laico delle nomine delle aziende statali, ancora una volta, è giunto a compimento. Nemmeno stavolta ci si è distaccati di una virgola dalla liturgia tradizionale. Zero sorprese nel metodo, nessun segnale di novità nel merito.
Forse l'emergenza Covid ha impedito al governo e alla maggioranza di prendere qualche decisione innovativa. Ma nonostante il coronavirus, dai giallorossi era lecito aspettarsi qualcosa di più.
Non si vuol criticare qui la spartizione basata sul “manuale Cencelli”, con nomine spacchettate tra partiti, correnti e istituzioni varie. A dispetto delle anime belle, è un fatto che in ogni paese democratico chi vince le elezioni ha l'onere e l'onore di scegliere la classe dirigente per il governo del Potere. Con quote che tendono a rispecchiare la forza dei singoli partiti o movimenti.
L'anomalia italiana è figlia di un elemento deteriore: l'irrilevanza del merito tra i diversi parametri che si usano nelle selezioni.
Nelle nazioni sviluppate si propende infatti a nominare i migliori manager e boiardi su piazza. Quelli più bravi. A Roma, no. Nelle cooptazioni fanno premio le reti relazionali, la fedeltà ai leader di turno, la raccomandazione, gli agganci giusti nei salotti. Una cattiva consuetudine che si perde nella notte dei tempi, e che consente a una classe dirigente mediocre di perpetuarsi, scegliendo altri pari grado. In una reiterazione che ha condotto i decisori a una disabilità politica che ostacola lo sviluppo del paese: non essere nemmeno più in grado di riconoscere chi è meritevole e chi non lo è.
Detto della cornice in cui sono avvenute le nomine, da qualche giorno Eni, Enel, Terna, Poste, Leonardo e altre spa di grande fatturato e influenza hanno i loro nuovi presidenti, gli ad e i consiglieri d'amministrazione. Leggendo i nomi delle liste depositate dal ministero dell'Economia, si capisce che tradizione della mediocrazia, come la chiama il filosofo canadese Alain Deneault, è stata rispettata.
Ma si intuisce pure chi ha vinto e chi ha perso la partita. Ecco le pagelle e i voti dei giocatori in campo.


MATTEO RENZI, voto 8.
Non è solo il «vincitore morale» del match, come ha detto senza falsa modestia, ma il trionfatore della tornata. A capo di un partito, Italia Viva, che galleggia intorno al 2-3 per cento, con una fiducia personale che i sondaggi danno sotto Vito Crimi, Renzi lavora da mesi per riconfermare gli amministratori delegati più importanti. Li ha promossi lui ai tempi di Palazzo Chigi e li considera - a torto o ragione – suoi uomini.
Complice la crisi del coronavirus, Claudio Descalzi, Francesco Starace di Enel (primario obiettivo di Matteo) e Matteo Del Fante di Poste alla fine sono stati riaffermati per un nuovo mandato.
Ma non è tutto. Renzi e i suoi sherpa (la Maria Elena Boschi e Ettore Rosato) hanno ottenuto l'impossibile: prima hanno incassato il miracoloso ritorno di Ettore Maria Ruffini all'Agenzia delle Entrate e la promozione di Federico Lovadina, socio di Francesco Bonifazi, in una spa cruciale di Cassa depositi e Prestiti, la Sia. Poi hanno incamerato la nomina di Renato Mazzoncini nella multiutility A2A. E ora hanno messo in carniere un consigliere di riferimento in Leonardo (l'ex ministro Federica Guidi) e uno a Terna (l'ex deputato Ernesto Carbone).
Renzi si intesta anche il salvataggio della brava Patrizia Grieco, spostata dalla presidenza dell'Enel a quella di Mps. Difficile non dare un voto alto alla strategia, anche se basata quasi esclusivamente sulla golden-share sulla vita del Conte 2.


GIUSEPPE CONTE, voto 4.
Il premier sperava di piazzare nelle partecipate più importanti alcuni dei suoi fedelissimi. È andata male: il Pd e soprattutto gli ex amici del M5S non gli hanno fatto quasi toccare palla. L'avvocato del popolo, regista di calcio mancato, aveva puntato su Domenico Arcuri, numero uno di Invitalia, per la poltrona di amministratore delegato di Leonardo. Non c'è stato verso, tanto che ha preferito nominarlo subito commissario straordinario all'emergenza Covid. In attesa, chissà, di tempi migliori.
Palazzo Chigi e il suo mentore Guido Alpa, di fatto, hanno brindato solo per la nomina del professor Maurizio Pinnarò, titolare del prestigioso studio Bdl e oggi nuovo membro nel cda dell'ex Finmeccanica. Troppo poco. Qualcuno sostiene che Conte stai studiando la rivincita: obiettivo i servizi segreti. Il capo dell'Aise Luciano Carta è infatti il nuovo presidente di Leonardo, e presto bisognerà sostituirlo.


LUIGI DI MAIO, voto 7,5.
Il ministro degli Esteri, insieme a Riccardo Fraccaro e Stefano Buffagni (voto 7, è lo sponsor di Stefano Donnarumma, nuovo ad di Terna, e di Paolo Simioni piazzato all'Enav) sono stati i king maker del Grande Accordo con il Pd e i renziani.
Hanno perso la battaglia su Eni, dove sono stati costretti ad accettare la riconferma dell'indagato Descalzi. Ma in cambio hanno ottenuto uno scalpo inimmaginabile: la rottamazione del potente presidente di Leonardo, Gianni De Gennaro, che mirava all'Eni.
Al suo posto Di Maio e soci hanno imposto Lucia Calvosa, già nei cda di Tim e della società che edita il Fatto Quotidiano (alla posizione ci sperava anche Franco Bernabè, vicino a Davide Casaleggio). Ma i tre grillini hanno scelto pure il presidente di Enel, l'inesperto Michele Crisostomo che Di Maio già sognava a Tim mesi fa, e gli amici Emanuele Piccinno (segretario del sottosegretario Davide Crippa, piazzato in Eni) e Carmine America (compagno di classe di Di Maio, ora a Leonardo).
Nel board del colosso degli armamenti c'è anche Paola Giannettakis: candidata M5S nel 2018 ma non eletta, è l'altra pupilla – insieme a Elisabetta Trenta - del fondatore della Link Campus Vincenzo Scotti.
Al netto dei giudizi sui curriculum dei nominati pentastellati, per Di Maio e il M5S è un'abbuffata da record.


DI BATTISTA, voto 6,5 
È entrato nella partita delle nomine a tempo praticamente scaduto. Il fratello diverso di Di Maio, tornato di recente da un viaggio di formazione in giro per il Medio Oriente, ha firmato insieme ad altri grillini un appello indignato contro la riconferma Descalzi. In pratica un attacco violento alla leadership governista di Di Maio e Fraccaro: fosse saltato l'ad di Eni, il lavoro di tessitura tra Pd e M5S sarebbe dovuto cominciare dall'inizio.
Un ipotesi impraticabile. Di Battista sapeva benissimo che la sua strategia era del tutto velleitaria, ma in realtà al romano del destino di Descalzi interessa poco o nulla: ha cavalcato una battaglia (eticamente sacrosanta) solo come antipasto della guerra prossima ventura per la leadership del Movimento. O di quel che ne rimane. Da questo punto di vista la mossa anti-Descalzi sembra perdente. In realtà ha avuto una sua efficacia.


MASSIMO D'ALEMA, voto 5. 
Le cronache lo davano come vero Rasputin dell'amico Roberto Gualtieri, il ministro dell'Economia che voce ultima sulle poltrone delle partecipate. Ma Il Migliore e il suo partitino, Leu, non hanno lasciato traccia nel risiko: Arcuri, che pure D'Alema stima molto, è rimasto a Invitalia. Unica macchia rossa nelle liste è l'economista inglese di origini italiane Mariana Mazzucato (stimata anche da Bersani, e già chiamata nella task force sul Covid a Palazzo Chigi). Siederà nel cda dell'Enel.


CLAUDIO DESCALZI, voto 10.
Il manager è riuscito a ottenere il terzo mandato nonostante un'imputazione per corruzione internazionale per alcune presunte tangenti in Nigeria; il coinvolgimento dei suoi fedelissimi nell’indagine milanese sui tentati depistaggi messi in piedi dal faccendiere Piero Amara; l'incredibile scandalo dei 310 milioni di dollari che l’Eni ha girato a una cordata di società africane costituite da sua moglie.
In qualsiasi altro paese occidentale Descalzi sarebbe stato sostituito. Per sua fortuna l'oilman (uno dei manager più navigati che abbiamo, va ammesso) vive in Italia.


GIANNI DE GENNARO, voto 5.
L'inaffondabile per eccellenza stavolta non è riuscito nell'impresa di guadagnare un'ennesima riconferma. Il potente ex capo della polizia voleva rimanere a capo di Leonardo, dove ha lavorato bene soprattutto nel campo della sicurezza. Molti davano per certo, dopo la notizia dell'arrivo di Carta, il suo spostamento alla prestigiosa presidenza dell'Eni. L'idea dell'establishment era quella di affiancare un uomo forte alla truppa di Descalzi. Pd e renziani l'hanno rassicurato più volte, ma alla fine il niet dei grillini è stato irremovibile.
Il momento è deprimente, ma è improbabile che De Gennaro resti sguarnito di una poltrona consona al suo standing.


ZINGARETTI, voto 6.
Sconfitto alle elezioni del 2018, il Pd nemmeno nei sogni più belli immaginava di rientrare nella stanza dei bottoni così presto. Il treno è passato inaspettato, ma Zingaretti e i suoi uomini nel braccio di ferro con i soci grillini non hanno brillato. Né per coraggio, né per fantasia.
Prima hanno “adottato” senza se e senza ma i vecchi amministratori scelti dall'arcinemico Renzi, compreso il controverso Descalzi (Starace e Del Fante, secondo gli osservatori intellettualmente onesti, visti i risultati ottenuti meritavano la riconferma). In secondo ordine, hanno deciso di esporsi per proteggere il più debole del mazzo, il banchiere Alessandro Profumo: Paolo Gentiloni (voto 7) è riuscito a salvargli la posizione (ad in Leonardo).
I democrat, in cambio, hanno dovuto lasciare a Di Maio e Fraccaro gli ad di Terna e Enav e quasi tutte le presidenze di peso: unico nome di tendenza zingarettiana è quello di Valentina Bosetti, bocconiana e nuova presidente a Terna. Il Pd può vantare anche la nomina di sette-otto consiglieri sparsi per le varie società. Quasi tutti sconosciuti: saranno davvero i migliori in circolazione?