Gianni e sua moglie. Palmira e il marito. Chiusi insieme, lontano da figli e parenti, in attesa che il cancro faccia il suo corso. In una struttura che prima era una casa aperta all'affetto. E che oggi mette alla prova ancora più duramente anche chi ci lavora (Foto di Alessio Romenzi)

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La luce che entra dalla finestra è quella della primavera romana al suo primo accenno, procede a piccoli passi, con timidezza, quasi con pudore. Poi un raggio di sole si appoggia sul davanzale e la luce invade la stanza, sfacciata. Sono qui, pare dire. Sono qui, nonostante tutto.

Fuori gli alberi, e il parco di Santa Maria della Pietà che un tempo è stato il piu’ grande ospedale psichiatrico d’Europa: trentaquattro padiglioni da 50 posti ognuno, mille posti letto. Quello degli epilettici, degli schizofrenici, dei dementi, quello dei criminali e quello delle "agitate". A destra gli edifici per gli uomini, a sinistra quelli per le donne, divisi da una rete metallica. E un padiglione per i bambini. Si stima che dal 1913 al 1974 nel manicomio romano siano stati internati 293 bambini con meno di quattro anni, 2500 minori tra i 5 e i quattordici anni.

Il 14 gennaio del 2000, le porte dell’ospedale psichiatrico a Santa Maria della Pietà si sono chiuse definitivamente, in un ultimo atto della legge 180, la legge Basaglia, e oggi, tra i viali alberati, tra i centocinquanta ettari di parco, ci sono i dipartimenti degli uffici municipali, la Asl, il Dipartimento di Salute Mentale, le cooperative che supportano i lavoratori migranti. E la stanza di Gianni, al primo piano di un hospice, nell’edificio che un tempo era il padiglione 22, quello destinato ai "sudici".

Gianni è sdraiato ma vigile, il televisore acceso ma silenzioso. Sua moglie fa ordine, sistema i libri su un ripiano alle spalle del letto di Gianni. Accoglie chi bussa alla porta come una padrona di casa: «Prego entrate, accomodatevi». Gianni ha un cancro ai polmoni, stadio avanzato. Dal 14 febbraio ha cambiato quattro strutture ospedaliere, lo Spallanzani prima, il San Camillo, il Casilino e poi la scelta dell’hospice. «Fai prima a dire gli ospedali in cui non sei stato Gianni!», gli dice il medico. «Casa mia», risponde lui, «non sono stato a casa mia».
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Gianni è un malato stretto tra una malattia terminale e l’epidemia di Covid, uno dei tanti che tra febbraio e marzo non riusciva a trovare personale medico per le assistenze domiciliari, e aveva paura a uscire di casa per fare la chemioterapia. Aveva paura anche di essere fermato in strada e spiegare che si stava spostando per la chemioterapia. Perché la malattia è ostinata e sta, e mentre sta deposita sempre vergogna. E la vergogna non ha logiche. «Soprattutto», dice Gianni, «le malattie che non sono Covid, le altre malattie, vanno avanti lo stesso, anche se tutto intorno si ferma per un’emergenza, un’epidemia, un terremoto. Eri malato prima, sei malato peggio».

Il cancro quando ha deciso di accompagnarti al termine non si ferma, corre e tiene il suo tempo. Quando Gianni è arrivato all’hospice Antea le direttive di distanziamento sociale erano già attive. Significa regole rigide nella relazione con medici e infermieri, significa innanzitutto distanza dai propri cari. Così sua moglie ha deciso di imporsi una quarantena e vivere con lui, nell’hospice. Finchè serve. E finché serve, in una struttura come questa significa accompagnare i pazienti alla fine. «Non volevo lasciarlo solo», gli dice. E lui irrompe con la lucidità dei malati che non vogliono essere consolati, perché la malattia non chiede consolazione.

La malattia, nella partita a scacchi che giochi con lei per batterla, ha bisogno della fermezza dei vivi, di un accudimento limpido, libero dalla chimera dell’“andrà tutto bene". «Bisogna essere espliciti, vuole stare qui perché è dura, perché quando entri in un posto così sai che esci con i piedi alla porta». Cioè orizzontale. Cioè morto. «Non dipende da me», sorride Gianni, vorrebbe bere ma non può, poi guarda fuori dalla finestra, e la luce che penetra è un raggio di sfacciato di sole che sbatte sul davanzale.

Gli hospice (277 strutture, 3000 posti letto in tutta Italia) sono strutture sanitarie residenziali per malati terminali, ricoveri temporanei dove i pazienti, quasi sempre oncologici, sono accompagnati nelle ultime fasi della vita con sostegno medico e psicologico, con le cure palliative e la presenza di familiari e amici.

Le cure palliative, inserite nel nostro Sistema Sanitario Nazionale nel 1999, non accompagnano il malato a morire, ma a vivere gli ultimi istanti di vita nel migliore dei modi. La parola più spesso usata da tutti qui è casa. L’hospice è come una casa. È un luogo che deve essere ricco di persone e accudimento. Perché cura palliativa non significa solo sostegno farmacologico, significa trascorrere gli ultimi giorni o settimane della propria vita in uno spazio intimo. E te ne accorgi dall’odore che l’hospice è un’altra cosa, è un’altra casa. Non è un ospedale. I corridoi non sanno di disinfettante e alcol, non c’è l’inconfondibile odore del malato, l’odore acuto della carne che si consuma.

Qui ci sono i nomi sulla porta e i fiori sul davanzale. Gianni prima di essere un paziente è Gianni. E chiunque entri nella sua stanza scandisce il suo nome. Un patto che si rinnova ogni volta, l’unicità di ogni essere umano. Chi entra in strutture come queste ha un’aspettativa di vita inferiore a novanta giorni. Chi entra in hospice, tendenzialmente, non esce vivo. E qui dunque cambia l’idea della cura. Perché curare non è sinonimo di guarigione ma di protezione dalla sofferenza. La cura qui allevia il dolore, non lo elimina. Lo processa.

Dopo l’8 Marzo, inizio del lockdown, anche negli hospice è cambiato tutto, e limitare gli spostamenti in una struttura così compromette le fondamenta del sostegno. Da marzo le visite dei parenti, prima consentite 24 ore al giorno, sono state limitate a un’ora soltanto. Una persona a paziente.

Chiara Pilotti è un’assistente sociale, è a persone come lei che spetta l’onere di discutere con i pazienti ospedalizzati l’alternativa dell’hospice. Oggi le criticità di queste conversazioni sono raddoppiate: i pazienti hanno paura di morire soli e le famiglie temono di non essere presenti nel momento dell’addio: «Preferiscono morire in casa che rischiare di morire in solitudine», dice Pilotti. «Viviamo il paradosso di avere stanze libere mentre di solito la lista di attesa per strutture come queste è lunghissima. Ci scrivono gli oncologi dicendo che a causa del Covid soprassiedono sulle chemio, avviano i pazienti forse precocemente alle cure palliative. Certo sono pazienti in fase avanzata che non si salverebbero con la chemioterapia, ma avrebbero forse speranze sull’allungamento di qualche mese della vita. I pazienti invece richiedono la cura palliativa, ma domiciliare, e far fronte a queste richieste in isolamento sta mettendo a dura prova il sistema domiciliare e sta alterando la relazione medico-paziente nella gestione delle terapie del dolore».

Oggi essere un medico, un operatore, in un hospice, significa più di due mesi fa la responsabilità di bilanciare l’intervallo tra il dentro e il fuori, di colmare il vuoto affettivo. A questo si aggiunge il timore di rispettare la distanza laddove invece la distanza dovrebbe essere ridotta e di dover adottare tutte le misure di protezione individuale necessarie. E anche qui come nella maggior parte delle strutture per anziani in emergenza Covid, trovare guanti, camici e mascherine è una sfida.

L’hospice è il luogo dell’inguaribilità, soprattutto è il luogo della consapevolezza dell’inguaribilità, per chi entra da degente e per chi lavora. «La risposta alla convivenza con la morte varia da persona a persona, chi si dedica alle cure palliative sa che la morte fa parte del nostro percorso naturale. Il grande limite del nostro lavoro è sapere che tutto quello che faremo non risolverà lo stato clinico del paziente. Non è come per un fisioterapista dopo un coma, che può vedere la riabilitazione della persona a cui si dedica, può, nei casi più fortunati, vederla camminare di nuovo. Può vedere il dopo e prendere da quel dopo l’energia per andare avanti. Per chi opera con le cure palliative non esiste il dopo del paziente. Esiste la cucitura di una serenità verso l’uscita dalla vita, una serenità che fino a due mesi fa era fatta di condivisione con amici e parenti. Noi resistiamo per quello che le persone ci restituiscono, i pazienti certo, ma anche i loro familiari».

Oggi la battaglia quotidiana delle persone come Chiara è sollevare l’umore di chi si avvicina alla fine, alleviare il loro stato depressivo. Spiegare loro che non si può uscire dalla stanza, né vedere mogli e figli, né parlare con altri pazienti, e combattere il pericolo che si lascino andare più velocemente all’imminenza della fine. Perché nello spazio vuoto della solitudine le insicurezze si stendono, un lenzuolo che riempie la stanza ai quattro lati, e il paziente in mezzo, a combattere tra la coscienza della fine e la voglia di resistere un giorno in più alla conta dei giorni e dei minuti che restano prima del congedo.

Chiara dall’inizio dell’epidemia piange cinque, sei volte al giorno: «Mi viene da piangere e lo faccio. Tutto qui. Siamo diventati la voce e il corpo delle famiglie che non ci sono, e non possiamo tradire paure o stanchezze. Qui i sentimenti sono amplificati e una smorfia del mio viso, anche accennata sotto la mascherina, alimenta la sfiducia del paziente. Come prima, più di prima, non possiamo permetterci tentennamenti. È l’impegno emotivo che abbiamo con i nostri pazienti, e di più, è l’impegno con le loro famiglie».

Chiara bilancia le relazioni con i familiari dei pazienti che devono accettare il fatto che persone amate stiano morendo e decidere cosa sia meglio per chi soffre. Perché la morte, la malattia, mettono alla prova l’altruismo di chi resta. I parenti non sono chiamati a scegliere cosa sia meglio per loro, ma per chi sta morendo. «Chiediamo alle famiglie dei pazienti un atto d’amore: affidarci il dolore di chi muore», continua Chiara. «Siamo abituati a rispondere a questo patto con i nostri strumenti: le attività, l’ascolto, il tempo soprattutto. E chiedendo alle famiglie di vivere un luogo a loro sconosciuto con la naturalezza con cui vivono la propria abitazione. Oggi stiamo chiedendo loro di non venire per evitare i possibili contagi dei pazienti, del personale, e per evitare un contagio eventuale tra loro. Accompagnare un essere umano alla morte è un privilegio. Bussi e chiedi loro di entrare nella loro vita nel momento in cui la stanno abbandonando. Vogliono che tutto sia in ordine, niente sia lasciato in sospeso. Ma oggi siamo soli ad accompagnarli e sono molte di piu’ le sofferenze che dobbiamo lenire, perché ci sono anche le nostre».

Così l’ultima volta che Chiara ha pianto è stata una settimana fa. È arrivato in struttura un malato terminale di cancro ai polmoni, la famiglia si è riunita decidendo che uno solo di loro – la moglie del paziente - avrebbe vissuto in quarantena nell’hospice. Gli altri, i figli, hanno salutato il padre sapendo che sarebbe stata l’ultima volta. Si sono abbracciati e baciati. Hanno pianto e sorriso. Sapevano tutti che quel saluto sarebbe stato l’ultimo.

La morte è innaturale, sembra per tutti la sconfitta della scienza. Un fallimento. La morte va allontanata, amministrata, ma non preparata. Nell’hospice la morte è un passaggio. Per le famiglie significa raccogliersi intorno a chi sta per andarsene e attraversare un congedo. Monica Pittaluga, medico nella struttura ammette che prima ancora che il rapporto con i pazienti, le limitazioni da Covid, stiano alterando i rapporti con le famiglie. Perché la morte è di chi muore, certo, ma la morte è anche di chi resta.

«Tutti provano a capire, ma quando la limitazione si scontra pesantemente col dolore è difficile trovare una sintesi», dice. «La sofferenza si fa cieca. Gridano, mi chiedono perché sto impedendo loro di vedere il padre o la madre. Sono pochi casi, ma difficili da sostenere. Perché capita di dover alzare il telefono e comunicare un decesso e fino a due mesi fa avremmo vissuto quel momento insieme, qui, piangendo in corridoio. O capita di avvisare la famiglia di un peggioramento, dopo che il familiare ha già usufruito dell’ora di visita. E non può tornare, non posso farlo entrare di nuovo».Può dire solo «preparati», la dottoressa Pittaluga, può dire «prepariamoci». Perché in un hospice, dice, «non si viene a morire, si viene per continuare a vivere quel che resta nel migliore dei modi possibili». E quando arriva il momento del commiato, ci si stringe ai vivi. Perché morire in presenza di una persona amata è parte della cura palliativa.

Chiara Latini nell’hospice si occupa delle terapie occupazionali. Fino a due mesi fa ogni giorno riuniva in giardino, in gruppo, i pazienti capaci di mobilità, per qualche ora al sole nell’"orto seduto". Per una lettura comune. Oggi pensa al tempo dei vivi, si affaccia alla finestra per sorridere ai parenti, a chi non può più entrare, e prende un autobus con i guanti e la mascherina, attraversa la città per dire ti voglio bene dalla finestra a un padre o una madre. «Tra qualche mese noi torneremo alla vita che abbiamo sempre avuto, torneremo ad abbracciarci e a visitare i nostri cari, e quando li vedo salutarsi dalla finestra penso che per loro il tempo ha un’altra velocità, è una lancetta che corre veloce. Mi chiedo solo: chissà se si rivedranno ancora».

La domanda in un hospice non è: si può ancora fare qualcosa. È: raccontami una storia. Palmira e suo marito Angelo sono sposati da sessantatré anni. Palmira ha un cancro in fase terminale. E allora Angelo ha scelto di vivere con lei in una stanza al primo piano, da cui entra un vento gentile. le creme di Palmira sono in fila sulla mensola come se fosse casa, prima di parlarci chiede di essere pettinata, ogni particolare si mescola con quello vicino per fare casa, l’ordine degli asciugamani ricamati nel bagno, le riviste settimanali sul comodino, l’acqua di rose nel flacone blu, memoria di tutte le nonne.

Palmira dice che si sente coccolata nell’hospice, che il tempo qui non è sospeso ma sa di protezione. Sul cartellino che porta il suo nome fuori dalla porta un’operatrice ha disegnato dei fiori, papaveri rossi. Sul divano accanto al suo letto, dove dorme Angelo, un cuscino portato da casa.

È mezzogiorno, quasi ora di pranzo. Palmira stringe la vestaglia al collo con grazia, sposta i capelli grigi sulla fronte, sorride. Vuole essere bella. Angelo è garbato e galante. «E dove potevo andare, dopo tutto questo tempo, se non qui con lei». Sanno che quel luogo è il luogo degli ultimi giorni insieme. E poi l’accarezza, le copre le spalle con uno sciallo e spinge la carrozzina, camminando con Palmira nel corridoio come fosse la via alberata del parco, là fuori. Sul muro del padiglione di fronte una scritta in corsivo, di vernice nera, «fuori dalla paura c’è un sole bellissimo». Palmira sorride, delicata, le mancano i figli. Però guarda fuori, «che bella primavera, vero?».