«Lavoriamo come in un formicaio. Qui non sappiamo neanche cosa sia un contratto di lavoro». Con una paga di  tre euro netti l’ora pagano 120 al mese d’affitto agli stessi padroni per dormire con altri 40 in una baracca di lamiera e cartone. Senz’acqua potabile, e con un unico bagno. Ecco le loro testimonianze

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«Ma cosa volete che sia il Covid? È solo una minaccia in più. Fra le altre. «Lavoriamo come schiavi da sempre e con il coronavirus le cose sono solo peggiorate. Parlo tutti i giorni con gli indiani e i bangladesi, e sono tutti reclutati ogni mattina tramite furgoncini da caporali che sono agli ordini del padrone. Caricano lavoratori pronti a rompersi la schiena e a respirare i veleni che diffondiamo sotto le serre senza mascherine e guanti. Ho visto anche questa mattina furgoncini scaricare ognuno venti persone. E domani mattina accadrà lo stesso. È pieno ovunque. Le mascherine non ci sono mai state date, i guanti ce li compriamo noi e raccogliamo tutti ammucchiati. Non si può lasciare il prodotto sulla pianta. Il padrone ti caccia se fai una cosa del genere. Altro che distanziamento. Lavoriamo come in un formicaio. Sono settimane che nonostante il coronavirus io lavoro ammucchiato per raccogliere carote e rape tra Sabaudia, San Felice Circeo e Terracina. Lavorano tutti a nero. Qui non sappiamo neanche cosa sia un contratto di lavoro».

Analisi
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Benedetto, nome di fantasia, ha 45 anni. Da quando ne ha sedici lavora nelle campagne dell’Agro Pontino, la terra di bonifica del Lazio su cui si piegano ogni mattina migliaia di braccianti. In gran parte pagati in modo irregolare: o completamente in nero, oppure sotto contratti da cui risultano meno ore di quelle effettivamente impiegate. Così anche per i lavoratori formalmente contrattualizzati a nove euro lordi all’ora, come da norma, i compensi reali e le tutele sono in realtà molto inferiori. «I padroni pagano, corrompono tutti, pagano anche la camorra per garantirgli protezione e poi si rifanno su noi avvelenandoci e spremendoci come limoni. I controlli sono rarissimi e tranne alcune eccezioni spesso gli ispettori si fanno solo delle passeggiate in campagna senza controllare seriamente come lavoriamo e quanto veniamo pagati».

Marco Omizzolo è il ricercatore Eurispes e presidente dell’associazione “in Migrazione” che ha supportato i braccianti Sikh di Latina nel loro primo sciopero tre anni fa. Non ha mai smesso di tenere contatti con mediatori e lavoranti agricoli: segue Benedetto da anni, e con lui gli extracomunitari che si trovano ai margini dei margini. «Perché sono persone escluse da qualsiasi politica. Non parlano la lingua, non hanno accesso a informazioni e risorse», riflette Omizzolo: «Sanno del Covid, ma abbiamo dovuto portare noi cinquemila mascherine nei campi, e spiegare loro i contenuti dei decreti, grazie a dei mediatori, altrimenti non avrebbero capito come comportarsi. Ai caporali ovviamente non interessa della loro salute». Interessa altro: «L’emergenza coronavirus ha impoverito molti settori, nel Lazio e non solo. Quello zootecnico, ad esempio, perché latte e mozzarelle erano acquistate soprattutto dai ristoratori. La domanda crollata delle pizzerie non è stata compensata dai consumi al supermercato. Chi si occupa degli allevamenti sta scivolando così nella povertà», spiega Omizzolo. «Ma il settore dell’ortofrutta invece ha aumentato gli ordini. Caricandone il peso solo sui lavoratori: i caporali chiedono orari più lunghi e intensi. Il business dell’agro-mafia in Italia vale secondo le nostre stime 25 miliardi di euro».

L’osservatorio Placido Rizzotto della federazione agro-industriali (Flai) della Cgil stima che nei campi italiani lavorino almeno 220 mila stranieri irregolari. «160 mila sono i braccianti che vivono nei ghetti o negli accampamenti informali», spiega il responsabile Jean-Renè Bilongo: «A questi vanno aggiunti i richiedenti asilo che avevano una protezione internazionale decaduta con i decreti sicurezza di Salvini, e gli stagionali rimasti in attesa del decreto flussi».

Bah Ibraim arriva dal Gambia. Da un anno e mezzo raccoglie pomodori in un’azienda agricola della zona di Foggia, senza contratto. Prende tre euro netti l’ora. Ma deve pagarne 120 al mese d’affitto agli stessi padroni per dormire con altri 40 in una baracca di lamiera e cartone. Senz’acqua potabile, e con un unico bagno. Per loro l’emergenza virus è stata solo un surplus di paura: del contagio, sì, ma soprattutto della strada. Non si spostano quasi mai, temendo controlli di polizia, e quindi il rischio di essere espulsi. Il Covid li ha chiusi in un pezzo di terra da cui non si spostano nemmeno per fare un giro in paese.

Muca invece è nato a Lushnje, una cittadina a Sud di Tirana. Vive nella zona di Caserta da cinque anni, insieme a zii, cugini e parenti. Tutti, in famiglia, sono braccianti. Muca è senza documenti. Un’azienda dell’Agro Falerno ha provato più volte a regolarizzarlo come stagionale. «Ma le quote riservate nei decreti flussi alla nazionalità albanese in Campania sono irrisorie», spiegano i sindacalisti che sono in contatto con lui ogni giorno in attesa della sanatoria: «È mortificante e disumano». Per l’emergenza sanitaria, il proprietario agricolo ha chiesto a tutti i lavoratori di arrivare ai campi con mezzi propri. Quanti sono senza documenti si sentono così doppiamente braccati: mentre temono in bici di raggiungere le serre. E mentre sgobbano per ore pagati la metà di quanto previsto.

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«Qui fra Lagosanto e Ferrara è sempre più difficile entrare in contatto con le donne rumene che raccolgono fragole e asparagi. Perché da mesi praticamente non escono mai dai vivai dove lavorano e abitano. Gia prima si affacciavano in paese solo per fare la spesa. Ora nemmeno quello». Dario Alba segue da anni le terre basse del Delta per la Flai Cgil, dove la maggior parte del raccolto è garantito grazie alle madri che arrivano apposta dalla Romania per infangarsi le mani e mandare i soldi a casa prima di rientrare. «Quando è scoppiato il focolaio in Lombardia e si è iniziato a parlare di chiusura dei confini, moltissime sono scappate», racconta: «Erano disperate. Dicevano: non vogliamo morire in Italia. Alcune imprese hanno organizzato pullman che attraversavano le regioni del Nord e le riportavano dalle famiglie. È stato drammatico». Tante sono rimaste però. «E a loro i padroni chiedono di lavorare di più.

L’Emilia-Romagna si è fatta promotrice di un portale dove si possono incontrare domanda e offerta di impieghi agricoli. È un’iniziativa meritevole, e che chiediamo da tempo, perché il pubblico partecipi all’intermediazione per evitare infiltrazioni mafiose e sfruttamento, come prevede la legge del 2016 sul caporalato», continua: «Sulla piattaforma si sono iscritti anche molti italiani che hanno perso impiego per il Covid: ex baristi, disoccupati. Ma nelle campagne i padroni stanno chiedendo più sforzi agli stranieri, considerati più abituati a un lavoro ingrato e pesante». 

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