Un disaccordo su tutta la linea politica, dall’austerity all’eredità di Berlinguer, ma più di un’assonanza sul metodo della ricerca scientifica. Il celebrato economista di Harvard ed editorialista del Corsera, scomparso ieri, nel ricordo di un dibattito in Bocconi con un suo critico marxista

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“Dici cose che fanno riflettere, non credere che non ti capisca”. E io: “Non lo credo affatto. Dai vostri editoriali non si evince, ma so che siete stati estimatori di Marx ed Engels”. Sorrise divertito, come fosse stato colto in flagranza. 
Fu questo lo scambio con cui io e Alberto Alesina ci salutammo, nell’unica occasione che avemmo di dialogare dal vivo. Era il febbraio 2019, in Bocconi. Ero stato gentilmente invitato da Francesco Giavazzi a discutere di “Austerità”, l’ultimo successo editoriale che lui e Alesina avevano firmato assieme a Carlo Favero. Al dibattito partecipavano anche Mario Monti, Ferruccio de Bortoli e Veronica de Romanis. Il momento dialettico della serata, tuttavia, lo ebbi proprio con Alesina.
 
Nell’occasione sostenni che Alesina, Favero e Giavazzi avevano torto nel ritenere che una politica restrittiva basata sul taglio della spesa pubblica più che sull’aumento delle tasse avrebbe aiutato l’Europa a uscire dall’ultima crisi. Spiegai che aveva invece ragione Olivier Blanchard a denunciare una sottovalutazione degli effetti depressivi delle politiche di austerity. Aggiunsi che la restrizione dal lato della spesa suggerita da Alesina e dai suoi coautori sarebbe stata persino più dannosa di quella dal lato delle tasse effettuata dal governo Monti (che provocatoriamente denominai “austerità keynesiana”). Infine, dichiarai che il tentativo degli autori di mettere Enrico Berlinguer dal lato dei propugnatori dell’austerity non mi persuadeva. Quella evocata nel 1977 da Berlinguer, a mio avviso, era un’altra austerità: anch’essa criticabile ma incommensurabilmente diversa dalla loro.
 
Dopo il mio intervento de Bortoli si dichiarò “colpevole” di aver suggerito agli autori il richiamo a Berlinguer. Alesina fu più tenace: disse che il riferimento a Berlinguer era sostanzialmente corretto. Nella replica precisai perché a mio avviso non poteva esserlo. Feci notare che un implicito supporto alla tesi di Alesina poteva forse essere rintracciato nei rapporti che all’epoca Franco Modigliani inviava alla CIA, nei quali il PCI veniva descritto come una forza saldamente ancorata alla NATO, già matura per assumere responsabilità di governo e potenzialmente in grado di rimettere in equilibrio l’economia del paese. Aggiunsi però che l’ipotetica “forza di governo comunista”, guidata da Berlinguer, avrebbe dovuto affrontare un problema di “equilibrio” specifico di quegli anni: rendere compatibile la grande espansione della quota salari dell’epoca con l’esigenza del paese di attenuare la tendenza all’accumulo dei deficit esteri, non dei deficit pubblici. Si trattava di una questione molto diversa da quella sollevata da Alesina e dai suoi coautori nel loro libro.
 
In quella occasione penso di averla spuntata io. Ma devo riconoscere che Alesina ebbe un merito indiscusso: non confinò il dibattito a un mero tecnicismo sulle stime statistiche dei moltiplicatori keynesiani ma preferì ribattere sul punto politico. Fu per questo che precipitammo tutti nel gorgo dei complessi legami tra economia e storia politica, rendendo così la discussione in Bocconi molto più viva e partecipata.
 
Chi conosce la produzione accademica di Alberto Alesina non sarà sorpreso da quella sua rischiosa scelta dialettica. Perché Alesina è stato forse il più “politico” degli economisti ortodossi. Tra i suoi numerosi interessi scientifici va annoverata la “new macro political economy”, una proposta di indagine del problema della scelta politica su basi diverse da quelle tipiche della teoria neoclassica dominante. Più in generale, Alesina ha confessato in varie occasioni i limiti di un approccio alla politica fondato sui meri strumenti della teoria economica standard. E’ il caso ad esempio del suo lodevole “Un mondo di differenze”, scritto con Edward Glaeser, dove cercò di spiegare l’ostilità degli americani al welfare e alla redistribuzione ricorrendo alla storia, alla sociologia, alla psicologia, e avvalendosi persino delle interpretazioni del processo storico suggerite da Marx ed Engels.
Di Alesina e Giavazzi non ho quasi mai condiviso gli editoriali né mai la loro linea politica generale. Ho tuttavia apprezzato i loro tentativi di spingere la ricerca scientifica oltre gli angusti confini del pensiero economico ortodosso. Tentativi che talvolta li hanno condotti, più o meno surrettiziamente, a lambire persino le coste rigogliose e maledette del materialismo storico.  
 
Ci eravamo ripromessi di tornare a scontrarci, sulla politica economica di Berlinguer e non solo. Perdere un avversario teorico può rivelarsi un lutto particolarmente avvertito, come la dipartita di un compagno di ventura.