Come nel caso delle zanzare, un insetto ha ragione della potenza tecnica dell'uomo. Il pidocchio (pediculus humanus) succhia il sangue di un malato e avvia un processo di contagio devastante che si rivela molto più letale di ulani e cosacchi durante la campagna militare iniziata nel giugno 1812 e durata poco più di cinque mesi.
Il tifo petecchiale o esantematico, da non confondere con la febbre tifoide o Salmonella enterica, prende il nome dalla parola greca typhos (stupore) perché ha fra i suoi sintomi caratteristici l'ebetudine e lo stato di confusione mentale che in Italia sono ritenuti tipici dell'appassionato di calcio.
Il rash cutaneo accompagnato da febbre altissima è provocato dall'aggressione dei pidocchi che diffondono il batterio gram negativo della Rickettsia Prowazekii.
In combinazione con le condizioni climatiche della spedizione militare in Russia, dall'estate torrida alla neve e al gelo, il tifo ha raggiunto indici di letalità elevatissimi, superiori al 40% dei casi. Alla fine le truppe della coalizione francese conteranno centinaia di migliaia di morti.
L'illusione della guerra lampo
La campagna di Russia è concepita da Bonaparte per mettere in ginocchio lo zar Alessandro I. Nel 1807 la Francia aveva imposto allo zar, e alla Prussia, la pace di Tilsit dopo avere sconfitto i russi nella battaglia di Friedland.
Fra le altre clausole, l'accordo vietava ai russi ogni rapporto commerciale con l'Inghilterra provocando nel Regno Unito la recessione aggravata dal fenomeno luddista (1811) della distruzione delle macchine tessili da parte degli operai.
Ma il monarca della dinastia Romanov non si mostra ligio agli accordi di embargo e Napoleone decide che il pretesto commerciale è buono quanto un altro.
Il 22 giugno 1812 il Corso passa in rivista le sue truppe accampate sul Niemen, il fiume al confine tra Prussia e Russia dove era stata firmata la pace cinque anni prima. L'esercito comandato in prima persona da Bonaparte è poderoso: mezzo milione di effettivi di cui 265 mila francesi e 235 mila soldati messi a disposizione dagli alleati, soprattutto austriaci e i prussiani.
Tutto sembra organizzato alla perfezione. Alle spalle del corpo di spedizione ci sono sei ospedali da campo allestiti in territorio prussiano. In omaggio al principio napoleonico per cui le guerre si vincono con la pancia, è stata organizzata un'imponente struttura di rifornimenti. Nessuno dubita che l'impresa sarà portata a termine in brevissimo tempo.
Il 24 giugno, l'Armée attraversa il ponte sul Niemen e punta su Vilna. La maggiore città della Lituania viene raggiunta il 28 giugno, dopo quattro giorni di marcia indisturbata.
Il ministro della guerra zarista, Mikhail Barclay de Tolly, e il comandante delle forze russe Mikhail Kutuzov (qui accanto) hanno deciso di non affrontare in campo aperto un esercito che appare invincibile. Indietreggiano e applicano la tattica della terra bruciata.
La stessa dimensione dell'invasore diventa presto uno svantaggio. Durante la marcia verso est, i reparti di vettovagliamento perdono contatto e i soldati sono costretti ad approvvigionarsi saccheggiando le fattorie risparmiate dalle truppe zariste.
È una pessima idea perché i contadini lituani e bielorussi vivono in condizioni igieniche terrificanti. Nella torrida estate continentale i pidocchi sono dovunque e, insieme a loro, si diffondono i batteri del tifo e del morbo delle trincee (Bartonella quintana).
Non è il primo incontro fra le truppe napoleoniche e le epidemie. Durante la campagna d'Egitto contro il sultano turco, i grognards (brontoloni) come vengono chiamati i veterani dell'Armée, devono affrontare la peste bubbonica. Per sopprimere la rivolta degli schiavi di Haiti, guidati da Toussaint Louverture, i francesi perdono migliaia di uomini per la febbre gialla. Nell'insieme, prima della campagna di Russia, alcune centinaia di migliaia di soldati sono morti di malattie.
Napoleone lo ha imparato talmente bene che ama dire: «Meglio affrontare la battaglia più cruente che mettere le truppe in un luogo malsano».
Ma il tifo non gli lascia scelta e si diffonde con una velocità spaventosa. Nel mese di luglio sono già morti o indisponibili per il morbo ottantamila soldati.
Nel frattempo, lo zar Alessandro I vede che l'invasore è sempre più vicino alle porte di Mosca e pretende che i suoi strateghi accettino lo scontro. La città del Cremlino non è più capitale da un secolo ma è pur sempre la più grande dell'impero.
Kutuzov, di mala voglia, deve piegarsi agli ordini del sovrano e il 17 agosto affronta il nemico nella prima battaglia in campo aperto davanti a Smolensk (400 km da Mosca). Non è una vittoria chiara per i francesi che perdono molti uomini. I russi, prima di indietreggiare, incendiano la città.
Il 7 settembre c'è un nuovo scontro nei pressi del villaggio di Borodino (125 km da Mosca). La battaglia è la più dura della campagna, con cinquantamila morti russi e trentamila francesi. Le truppe di Kutuzov non possono fare altro che ripiegare ancora.
L'incendio di Mosca
Una settimana dopo, il 14 settembre 1812, Napoleone entra a Mosca. Sembra il sigillo dell'ennesimo trionfo militare ma in meno di tre mesi l'esercito bonapartista si è ridotto a centomila effettivi, un quinto di quelli iniziali. Il tifo è di gran lunga il maggiore responsabile di queste perdite, molto prima che arrivi l'inverno.
Il processo del contagio, piuttosto ripugnante, è il seguente. Il pidocchio morde un uomo che è già infettato dal batterio. Una volta passata nell'insetto la rickettsia si riproduce così freneticamente da colonizzare le feci del pidocchio fino a farne esplodere le interiora. Altri uomini si infettano grattandosi e facendo passare il batterio nella pelle o nelle mucose.
La campagna di Russia è una delle prime a lasciare abbondante materiale diaristico da parte dei reduci anche al di sotto degli ufficiali in comando. Scrive il sergente Bourgogne: “Avevo dormito per un'ora quando ho sentito un prurito insopportabile in tutto il corpo. Con orrore ho scoperto di essere coperto di insetti. Sono balzato in piedi e in meno di due minuti ero nudo come un neonato, dopo avere buttato nel fuoco camicia e pantaloni. I pidocchi scoppiettavano nella fiamma”.
Per tre giorni, dal 15 al 18 settembre, Mosca è avvolta dagli incendi appiccati dai russi in ritirata. L'artigliere di Ajaccio diventato imperatore nel 1804 si rende conto di essere arrivato alle soglie di un inverno che si annuncia precoce e rigido. I problemi di vettovagliamento e di sanità dell'Armée sono drammatici. Bonaparte offre ad Alessandro un negoziato. Lo zar rifiuta e Kutuzov riorganizza le truppe in modo da aggirare l'ex capitale e chiudere i francesi in una sacca.
Napoleone tenta la carta della disperazione. Tornato per calcolo tattico ai suoi esordi rivoluzionari, cerca di sobillare i contadini e di convincerli a ribellarsi al tiranno Romanov come aveva fatto Emeljan Puga?ëv nel 1773. L'operazione fallisce.
Il 19 ottobre 1812 Napoleone ordina la ritirata verso Smolensk.
La catastrofe della Beresina
Fa già molto freddo. La fame mette a durissima prova le truppe in marcia che subiscono gli attacchi dalle retrovie della cavalleria leggera cosacca mentre i servi della gleba che Napoleone voleva emancipare infieriscono sullo straniero che fugge.
I servizi logistici sono totalmente disgregati e i reparti da combattimento faticano a mantenere l'ordine. Il grosso dell'Armata ormai è composto da sbandati, compresi molti civili e anche donne e bambini, che tentano di sopravvivere alla fame, al ghiaccio, ai pidocchi, alla dissenteria e allo scorbuto.
Ai primi di novembre i francesi rientrano in Smolensk o in quel poco che rimane di Smolensk dopo l'incendio di agosto. Ma non c'è riparo né tempo da perdere e il 9 novembre la marcia riprende. Kutuzov non è lontano e si accinge a completare la manovra di aggiramento che significherebbe distruzione.
Napoleone punta con decisione verso ovest e il fiume Beresina. È la fase più terribile della ritirata, segnata da episodi di cannibalismo.
Dal 26 novembre per circa due giorni si concentrano sulle rive del fiume ventottomila superstiti in grado di combattere e circa altrettanti sbandati. Quando le truppe zariste capiscono che il nemico sta per mettersi in salvo, cercano di chiudere il passaggio. Ma vengono ingannate dal diversivo dei francesi che fanno credere di volere passare in un punto presidiato dai russi mentre costruiscono il vero passaggio con due ponti quindici chilometri più a nord.
Mentre il battaglione del maresciallo Nicolas Oudinot blocca 40 mila nemici sulla riva destra, Napoleone passa il fiume il 28 novembre. Per coprire la ritirata, ordina di incendiare i ponti mentre migliaia di sbandati non sono ancora riusciti a passare. È una scena apocalittica. I disperati vengono respinti dai soldati francesi. Molti si buttano nell'incendio, altri affogano nel fiume gelido.
La catastrofe della Beresina, che pure poteva avere come esito l'annientamento totale, viene accolta a Parigi come una tragedia nazionale, la prima vera sconfitta della Grande Armée.
Gli oppositori di Napoleone organizzano un colpo di Stato che obbliga l'imperatore ad abbandonare la Russia in fretta il 5 dicembre per tornare in Francia. Il comando passa al re di Napoli, e cognato di Napoleone, Gioacchino Murat che aveva deciso la battaglia di Borodino in settembre.
L'8 dicembre 1812 l'Armata rivede Vilna dopo oltre cinque mesi. Del mezzo milione di effettivi arrivati in Lituania a giugno sono rimasti settemila soldati in grado di combattere e ventimila sbandati, in larga parte malati di tifo. Almeno altri tremila di loro vengono abbandonati all'agonia in Lituania.
Gli scheletri saranno trovati nell'autunno del 2001 durante l'abbattimento di un'ex caserma sovietica. In un primo tempo, si penserà a un ossario più recente riempito dalle truppe naziste con corpi di ebrei. Ma i franchi trovati nei portamonete indirizzeranno sulla strada giusta l'archeologo Rimantas Jankauskas e l'infettivologo dell'università di Aix-Marsiglia Didier Raoult (foto sopra), specializzato in Rickettsia e tornato d'attualità con il Covid-19 per la sua contestata terapia a base di antibiotici e clorochina.
La spedizione della Grande Armée in Russia si conclude lì dove era incominciata. Gli storici calcolano fra diecimila e ventimila i superstiti che attraversano il fiume Niemen il 13 dicembre 1812. Poche imprese militari della storia hanno avuto un bilancio così pesante. Per fare un paragone, il corpo di spedizione italiano (Armir) che invade l'Urss durante la Seconda guerra mondiale perde centomila uomini su 230 mila durante la durissima ritirata.
Napoleone riesce a salvarsi dal colpo di Stato in Francia ma la campagna di Russia segna l'inizio del suo declino. Meno di un anno e mezzo dopo, il 6 aprile 1814 l'imperatore destituito va in esilio all'Elba.
Il tifo oggi
L'Oms-Who segnala nel suo sito che il tifo petecchiale ha avuto manifestazioni epidemiche recenti in Rwanda, Burundi ed Etiopia. Le premesse sono scarsa igiene e sovraffollamento ossia le caratteristiche dei campi di rifugiati e delle prigioni. Non esiste profilassi.
Proprio per questo il tifo è stata l'epidemia dei lager nazisti e dei gulag staliniani. Nel campo di Bergen Belsen muore Anna Frank (1945). Sette anni prima (1938) il tifo petecchiale aveva ucciso il poeta russo Osip Mandel?tam in un campo di smistamento nei pressi di Vladivostok.
Lo sbarco degli americani in Sicilia del 1943 va incontro a una potenziale epidemia di tifo ma l'esercito Usa ha grandi scorte di Ddt e riesce a distruggere i parassiti.