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Cos’è l’empatia - 13 Aprile 2020
Relativamente è da poco che svolgo questa professione, quasi due anni. [...] Ho cercato di aggiornarmi e perfezionarmi il più possibile. L’unica cosa in cui mi sono sempre sentito in difetto è stata quella dose di empatia necessaria, che so già da me che è molto importante in questo lavoro, ma che per storia affettiva personale o per doti caratteriali, ancora non so se riuscirò a sviluppare più o meno lentamente. [...] Alle 6 della mattina scorsa ero in procinto di smontare dalla notte. Giungo al letto della signora Carla, una paziente in netto miglioramento negli ultimi giorni, tanto che la sedazione è stata notevolmente diminuita e lei comincia a mostrare le prime risposte a stimoli verbali. Ha una tracheostomia da cui viene ventilata, non può parlare, ma i suoi occhi lo fanno per lei: mi guarda, comincia a piangere e mima parole con le labbra. Capisco ben poco, ma l’essenziale in fin dei conti: era sofferente e magari anche un po’ di compagnia per vedere l’alba le avrebbe fatto del bene; allora, finite le mie cose, mi metto al suo fianco, le stringo la mano, ci guardiamo bene negli occhi oltre la visiera e gli occhiali di protezione e condividiamo tempo e emozioni allo stesso tempo, rivolgendole anche alcune domande a cui poteva rispondere con cenni della testa. Carla si è sentita a suo agio, accennando anche un sorriso, e nonostante il caldo con annesso sudore della tuta, la stanchezza di una notte fortunatamente poco movimentata ma intensa e la sola voglia di andare a farmi una doccia e stare nel mio letto tutto il giorno, una parola l’ho capita: “grazie”. Quel “grazie” vale più di mille medaglie o ritorni economici per me, perché ho scoperto finalmente cosa è la vera empatia e mi sono sentito gratificato del mio lavoro, non solo a livello dello studio e impegno che ci metto tutti i giorni, ma anche per l’aiuto che ho dato alla persona. Guardiamo fino a fine turno l’alba che ormai è agli sgoccioli e per un attimo dimentichi tutte le difficoltà del lavoro nuovo e tutte le mancanze affettive che soffri fuori dal turno.
L’alba tornerà e andrà tutto bene.
Non so più chi sono - 23 Aprile 2020
Sono un medico, un anestesista rianimatore. O almeno credevo di esserlo prima dell’arrivo del virus. Vengo da un passato di emergenza territoriale e medico di pronto soccorso: 25 anni passati a cercare di salvare il prossimo dalle lamiere di un’auto prima, da un arresto cardiaco poi. Ho intubato, defibrillato e massaggiato non so quante persone nella mia vita. Ho dovuto impersonare la morte centinaia di volte. Ora il virus ha vinto la mia anima e la mia professione, portandoseli via. Dopo 40 giorni trascorsi a cercare di fare respirare esseri umani malati, condannandone a morte tanti non avendo i mezzi per cercare di salvarli tutti mi sento un gran vuoto dentro. Sono passato dallo sgomento, all’azione frenetica, alla rabbia verso le istituzioni e i superiori e ora sono solo vuoto. Ricordo a malapena cosa voleva dire avere una lista operatoria di elezione e litigare coi chirurghi che volevano sforare l’orario di sala operatoria. Sembra una vita appartenuta ad un altro e vissuta secoli fa.
Ora qui il peggio sembra essere passato e insieme a quello sembra passata anche la vita oltre la morte di tanti…Monitor spenti e abbandonati, cataste di caschi cpap usati, tubi endotracheali accatastati…tutto fermo e immobile come dopo una tempesta. Verso la fine sono arrivati così tanti ventilatori polmonari nuovi di zecca che potremmo addormentare e ventilare un paese intero ma io continuo a ricordare i volti di chi non ho potuto salvare, i no che ho dovuto dire, le persone che ho rassicurato prima di addormentare e che poi ho saputo essere morte in rianimazione, senza amici e parenti, con i loro vestiti, occhiali, scarpe, cellulari messi in un sacco rosso e buttati, mentre loro entravano in un sacco nero. […] Ne ho dovuto vedere tanti così, e la mia professione se n’è andata via con loro. Non so più chi sono ora.
Gli eroi sono i miei pazienti - 20 Aprile 2020
Ho sofferto moltissimo quando il mio primo malato Covid non ho potuto farlo vedere dai parenti e le poche notizie che imbarazzato il medico al telefono dava ai parenti… Ero sconvolta dalla gravità… Un uomo abbastanza giovane in buona salute ben curato… Ho pianto a casa pensando a lui… ai parenti… E tutti i turni successivi fino al giorno in cui l’ho lasciato andar via in un sacco nero… […] Poi hanno iniziato a migliorare e diversi hanno migliorato e felici li abbiamo trasferiti. L’unica cosa positiva era il supporto che ci siamo dati con la coordinatrice quando dopo la doccia ci guardavamo negli occhi e scambiavano due parole con un pezzo di torta e un caffè. Grazie a tutti gli eroi che sono e saranno i miei pazienti.
Abbiamo costruito un muro per non farci del male -13 Aprile 2020
Arriva un paziente, lo ingressi. Trasferisci un paziente. Vai avanti.
Arriva un altro paziente, lo ingressi. Trasferisci un paziente. Vai avanti.
Arriva un altro paziente ancora, lo ingressi. Trasferisci… e così ancora e ancora.
Ah no. Un paziente perde la vita.
Così nel caos di un reparto che gira e rigira, un’anima va via e nessuno se n’è reso conto. [...]
Non hai neanche il tempo di fare una preghiera perché devi liberare il letto per un nuovo ingresso.
È così questo periodo. [...]
Abbiamo costruito un muro per non farci male, ma quale tristezza ci pervade dentro e non lo sappiamo.
Io e la mia collega prepariamo l’ennesima salma. Lo puliamo, gli chiudiamo gli occhi, lo copriamo.
Dove si va? In una stanza, dove altri corpi sono li lasciati. Borse su borse contenenti oggetti personali lasciati vicino ai muri. Lascio il corpo ma prima una cosa che mi fa venire i brividi.
Gli lascio il campanello in mano.
Non sia mai che si svegli, che ritorni alla vita.
Anche se diciamocelo, quel campanello suona solo alle porte di un paradiso che forse non ha più posto neanche per un innocente.
Oggi abbiamo vinto noi - 11 Aprile 2020
Oggi abbiamo vinto noi.
Dopo 23 giorni di “Sta desaturando”, di “Ho aumentato la PEEP”, di “Alziamo la FiO2”, di “Iniziamo con la noradrenalina in doppia concentrazione”, […] “Dobbiamo fare la NIV”, di “Signora forza sta andando benissimo!”.
Oggi abbiamo vinto noi nelle nostre tute 4 taglie più grandi, senza identità per i nostri pazienti, sudati, con il triplo guanto, la mascherina, la doppia cuffia e la visiera, e una sete allucinante.
Oggi ha vinto questa Signora, e a vederla forse non lo ha ancora realizzato.
Oggi abbiamo vinto noi che in questo inferno ci facciamo forza, medici e infermieri che si affidano l’uno all’altro per FINALMENTE gioire insieme di questi momenti.
Oggi abbiamo dimesso dalla nostra Terapia Intensiva la prima paziente.
Oggi la commozione era più grande delle lacrime versate sentendo i bollettini quotidiani, dei turni no, della paura di non farcela e di non vedere la fine. E allora mi spiego l’adrenalina e la carica di questi 23 giorni. Tutto questo per arrivare oggi qui. Tutto questo per non smettere. Qui si lotta!
Seppelliti con la terapia intensiva addosso - 14 Aprile 2020
[...] Ed eccoci qui, i familiari non possono né vedere né toccare il proprio caro per l’ultima volta. Non potranno mai più vederlo, nemmeno al funerale. Una volta deceduti, le salme vengono portate via ancora con i dispositivi inseriti. […] Vengono seppelliti così, con la terapia intensiva addosso, e vengono avvolti in un lenzuolo intriso di alcool e messi nella bara. Non c’è dignità in questa morte. Personalmente, non vedo la mia famiglia da un mese e mezzo, mi sono auto-quarantenata, non vado nemmeno a fare la spesa per paura di contagiare qualcuno. Esco solo per andare a lavoro. Però posso dire che tutti questi sacrifici valgono la pena. Perché assistere alla prima estubazione, poi alla seconda e alla terza e così via mi dà speranza. Quindi, c’è un “lato positivo” in questa storia: dopo tante morti, c’è ancora un barlume di vita che spinge e combatte. Mi riempe il cuore di gioia vedere i “sopravvissuti del coronavirus” uscire dalla terapia intensiva. Mi fa credere che non è tutto perduto.
Un messaggio alla moglie - 9 Aprile 2020
Mi chiamo Laura e lavoro in terapia intensiva come infermiera. In una mattinata che scivola via come tante, tra mille cose da fare e a cui pensare mi capita di passare distrattamente davanti ad un signore anziano ricoverato. È li, tranquillo nel suo letto con il casco Cpap in testa e lo sguardo un po’ smarrito di chi si trova solo e ovattato dal flusso di ossigeno continuo del casco. […] Mi avvicino e gli dico che sta andando tutto bene, che piano piano sta migliorando. Lui è più sereno, però prima di staccarmi dal letto mi chiede un favore: “infermiera mi può dare il mio cellulare? Vorrei mandare un mex a mia moglie se posso”. Io stacco il cell dalla carica e glielo consegno. Lui non smette di ringraziare. Poco dopo ripasso davanti a lui e lo vedo indaffarato a scrivere sul cellulare, mi avvicino, scrive e ha le lacrime agli occhi. Mentre lui mi guarda e continua a ringraziarmi come se gli avessi fatto il più bel dono del mondo mi congedo, dicendo di mandare un saluto anche da parte mia alla moglie…mi allontano e torno ai miei mille pensieri ma questa volta offuscati dai miei occhi lucidi nascosti da mille protezioni.