La devoluzione moltiplica le risse fra potere centrale e amministrazioni locali. Che continuano ad andare in ordine sparso. Aperturisti, chiusuristi, tentennanti, di destra o di sinistra, i governatori si tengono stretti i 120 miliardi all'anno della sanità. Contro la scienza e i costituzionalisti

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Titolo quinto, chi fa causa ha vinto. Chi glielo doveva dire a Francesco Boccia che il suo ministero degli Affari regionali, un dicastero senza portafoglio di tutto riposo, sarebbe diventato grazie al Cov-Sars-2 l’epicentro di un contenzioso legale da fare impallidire le risse fra il collega Vincenzo Spadafora, ministro dello Sport, e la Lega calcio.
La giustizia amministrativa attende i ricorsi del potere centrale contro gli esecutivi locali che, in nome del federalismo previsto dal titolo V della Costituzione secondo la riforma del 2001, vogliono virare verso il modello dell’Italia di fine Quattrocento, divisa in tanti staterelli senza una strategia chiara di fronte all’invasione di Carlo VIII dalla Francia.

Il Corona virus, che deve essere fornito di un radar particolare per colpire le debolezze degli organismi umani e politici, ha aggredito l’equilibrio precario fra il governo di Roma e le satrapie regionali fin dai giorni più duri della Fase 1. Il salto di qualità è arrivato il 29 aprile con la lettera che chiede maggiori poteri per la Fase 2 sottoscritta da undici governatori di destra (Piemonte, Lombardia, Liguria, Friuli Venezia Giulia, Sardegna, Calabria, Sicilia, Basilicata, Abruzzo, Molise, provincia di Trento). I destinatari, Sergio Mattarella, Giuseppe Conte, i presidenti delle Camere, Boccia stesso hanno lasciato al ministro il compito di rispondere con il ricorso depositato il 4 maggio al Tar di Catanzaro contro la forzista Jole Santelli per la sua ordinanza sulle riaperture di bar e altri esercizi.

All’opposizione si è unito anche qualche tifoso tiepido del Conte bis come il presidente altoatesino Arno Kompatscher della Svp che a Bolzano governa con la Lega e a Roma minaccia di togliere il sostegno - o la non opposizione - a Conte. Anche lo schieramento salviniano ha qualche crepa. Il veneto Luca Zaia sulle riaperture anticipate collabora con il governo quanto il suo confinante emiliano e democrat Stefano Bonaccini.

Resta l’evidenza che l’autonomia finora ha prodotto il caos. In ordine sparso, la situazione è questa.
Nel turismo il governo ha detto sì a mare e seconde case entro i confini regionali. Il campano Vincenzo De Luca, ex sceriffo impresentabile del Pd diventato popolarissimo, ha chiuso gli accesi a Capri, Ischia e Procida fino al 10 maggio. A Ostia, nel Lazio del governatore-segretario Pd-ex malato di Covid Nicola Zingaretti, non si va in spiaggia pena una multa da 25 a 500 euro. Però sono stati riaperti i principali parchi pubblici della capitale (Villa Borghese, Villa Pamphilj). Lo stesso è avvenuto nelle Marche con il Colle dell’Infinito a Recanati, città natale di Giacomo Leopardi, e con il parco delle Cascine a Firenze.

Nella Toscana di Enrico Rossi (Pd), seconda casa mai. Nel Veneto di Luca Zaia, seconda casa sì ma soltanto a scopo di manutenzione. Il sardo Christian Salinas e il siciliano Nello Musumeci hanno detto sì ai trasferimenti purché stagionali ma i collegamenti con le due isole maggiori sono tuttora ridottissimi.

Nelle attività ricreative post-lockdown è il delirio. La Liguria dell’ex berlusconiano Giovanni Toti ha detto sì alle barche, una vocazione locale, e più a sorpresa all’equitazione. In un tipico avvitamento ultralocalista, Toti si è visto contestare l’ordinanza da 81 fra sindaci e amministratori. Nell’elenco, per chi sa apprezzare certe sfumature, ci sono anche un ultrà forzista di vecchissima data come Claudio Scajola (Imperia) e la savonese Ilaria Caprioglio.
A Palermo, per passeggiare alla Favorita ci vuole uno di quei corsi di formazione che hanno sorretto l’economia siciliana per decenni. Il giardino è accessibile dopo prenotazione online in quattro fasce orarie, con turni di novanta minuti, forse in omaggio al vicino stadio di calcio, e un massimo di cinque persone, due adulti e tre bambini.
Si può tornare a correre lontano da casa senza mascherina, salvo in Veneto e in Lombardia dove però Fontana ha poi cambiato idea, senza convincere il sindaco di Opera (Milano) che ha mantenuto il divieto integrale.

De Luca ha fissato per i runner “cinghialoni” un orario da caserma dalle 6 alle 8.30 di mattina. Si può pescare in Puglia e nei fiumi lombardi. Nelle Marche è ammessa anche la variante subacquea.

Per chi rientra la quarantena è obbligatoria in Sicilia, Puglia, Campania, Sardegna e Calabria dove si può interrompere se il tampone è negativo, peccato che non se ne trovino. La quarantena dura quattordici giorni dovunque nel mondo ma in Lombardia la coppia Gallera-Fontana l’ha portata a ventotto per chi è stato positivo.
Nelle altre attività produttive lo scontro è stato ancora più duro che nel turismo. Le librerie sono state aperte il 14 aprile dal governo ma le tre regioni più popolate del nord hanno rinviato al 4 maggio, come hanno fatto anche Sardegna e Trentino. Il Lazio ha aperto il 20 e il 4 maggio ha dato semaforo verde anche ai set cinematografici.
Lo scontro sulle imprese è stato molto forte nella Fase 1 ma ha visto una complessiva uniformità di posizioni a livello centrale e locale. Molto meno con il commercio dove la riapertura dei bar da parte della neoeletta Santelli in Calabria ha suscitato, oltre al ricorso di Boccia, la protesta di molti sindaci calabresi, non solo di sinistra.
La vera posta economica in gioco è la sanità devoluta che da più parti si vuole ricentralizzare e che è stata finora il punto chiave del patto di non aggressione fra ministri e governatori. Un patto pagato molto bene.

La gestione complessiva di aziende sanitarie, di ospedali pubblici e di strutture private accreditate dalle regioni vale 119,6 miliardi di euro nel Def 2020 e varrà, salvo ritocchi imposti dall’emergenza Covid-19, 121 miliardi di euro nel 2021. Per gli enti il peso dei contributi sanitari sul bilancio complessivo non è inferiore al 75 per cento e arriva al’84 per cento della Puglia di Michele Emiliano (7,3 miliardi di euro).

In tutte le regioni sanità è uguale a potere. La più colpita dal virus, la Lombardia, incassa un sesto del budget nazionale (19,3 miliardi di euro), una cifra proporzionale al numero di italiani che ci vivono. Seguono il Lazio (12 miliardi), la Campania (11 miliardi), la Toscana (9,5 miliardi), la Sicilia (9,2 miliardi), il Piemonte (8,5 miliardi), l’Emilia-Romagna (8,44 miliardi) e il Veneto (8,2 miliardi). La spesa pro capite più alta (2400 euro per abitante) è della provincia di Bolzano dato che il Trentino Alto Adige è una regione virtuale sostituita dalle sue due province.
Prima di essere scossi dal virus i modelli di sanità virtuosa erano nel centronord, con la punta di diamante gestita dal Pirellone di Milano, come non hanno smesso di ricordare nelle loro dirette Facebook l’assessore al Welfare Giulio Gallera, il governatore Attilio Fontana e il suo vice Fabrizio Sala.

Nel centrosud finora meno colpito dal virus sette regioni (Lazio, Abruzzo, Molise, Puglia, Campania, Calabria, Sicilia) sono sottoposte a piano di rientro. L’incapacità di gestire i fondi della sanità si è tradotta in aziende territoriali indebitate e a volte commissariate per infiltrazioni mafiose.

È un quadro clinico-politico che ha riacceso vecchie polemiche sopite nelle riunioni della Conferenza Stato-Regioni, l’organo presieduto dal premier ed effettivamente guidato dal ministro competente con l’aiuto del capo dipartimento Elisa Grande.

Nella sua sede romana in palazzo Cornaro, in zona Trevi, la Conferenza si è riunita l’ultima volta l’8 aprile mentre la riunione prevista per il 23 dello stesso mese è stata annullata. Secondo Stefano Ceccanti, deputato Pd e docente di diritto pubblico alla Sapienza di Roma, la Conferenza è uno strumento bisognoso di integrazione nel titolo quinto. Così è spuntato. Ma molti costituzionalisti hanno rimesso in discussione l’autonomia dei governi decentrati di fronte all’emergenza Covid-19.

Da Sabino Cassese al presidente emerito Cesare Mirabelli, che ha bocciato come incostituzionale il divieto di mobilità fra regioni, da Giorgio Lattanzi, predecessore di Marta Cartabia alla guida dell’Alta Corte, ad Alberto Lucarelli che ha attaccato le ordinanze di De Luca, l’elenco di critici è molto ampio.

La discussione giuridica verte sul principio di supremazia e sulla modifica dell’articolo 117 della Carta che figurava nella riforma firmata da Maria Elena Boschi e bocciata al referendum del 4 dicembre 2016. Alcuni, come il presidente emerito Valerio Onida, hanno sostenuto che non servono riforme e che la supremazia dello Stato sulle regioni è già fissata dall’articolo 120 comma 2 della legge primaria: «Il Governo può sostituirsi a organi delle Regioni, delle Città metropolitane, delle Province e dei Comuni nel caso di mancato rispetto di norme e trattati internazionali o della normativa comunitaria oppure di pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica». È un testo chiaro. Basterebbe applicarlo.