Leaticia Ouedraogo è una studentessa e scrittrice nata nel 1997 in Burkina Faso. Tra gli 11 e i 22 anni ha vissuto in Italia. Dopo essere stata ammessa alla Scuola Normale Superiore (ENS) di Parigi, si è trasferita nella capitale francese per continuare i propri studi

Sono giorni di piombo quelli che hanno intrecciato una rivolta mondiale per la giustizia razziale alla stanchezza e alla disperazione causata e drenata da una pandemia senza precedenti. E per una giovane donna afrodiscendente che ha vissuto col fiato sospeso per undici anni in Italia prima di prendere il largo e cercare il respiro oltre i confini del Belpaese, questi giorni hanno anche risvegliato traumi personali come la fucilazione di Idy Diene sul ponte Vespucci a Firenze nel 2018.

L’Italia in cui ho vissuto si rispecchia in una famiglia disfunzionale, con genitori italiani bianchi ignari della natura meticcia del proprio albero genealogico e con ancora troppi figli non bianchi non riconosciuti, ma marginalizzati e visti come i bastardi della nazione che mantengono viva una memoria coloniale e imperiale taciuta dalla bianchezza occidentale e italiana. Ed è dal 25 maggio che come italiana senza cittadinanza, figlia negra e bastarda dell’Italia, avrei voluto scrivere alla bianchezza italiana solidale con Minneapolis per dirle di fare spazio nella propria coscienza anche per Diene, Sacko, Dame, Modou, Mor, Shazad Kan, Masslo, Sabally, Uwangwe, Nnamdi, Yabuku, Meftah, Valent, Guiebre, Anang, Kaimarouni, Bayer, Bouchaid, per suggerirle di estendere lo sguardo oltreoceano verso Lampedusa e il Mediterraneo, per ricordarle di sostenere anche i braccianti nel Meridione.

Invece di fare tutto questo, però, ho solo pianto. Ho pianto insieme ai compagni afrodiscendenti che per esperienza e età mi hanno preceduto nella lotta antirazzista italiana. Ho toccato con mano la frustrazione della mia comunità, mentre una certa bianchezza si svegliava e sembrava prendere coscienza della propria esistenza. Ed è curioso che mentre molti bianchi uscivano astrattamente dal proprio privilegio e sentivano l’impeto della rivoluzione da condurre partendo da sé stessi, molti neri, invece, facevano l’esperienza di una paralisi estrema dettata dall’urgenza di riprendersi dal trauma di essersi immedesimati nel corpo di Floyd e di tutti gli altri corpi neri mutilati, calpestati, bruciati, impiccati, annegati, deportati anche in Italia. Ma ho visto tante sorelle prendersi cura l’una dell’altra, tanti fratelli chiamarsi per farsi forza e rialzarsi per continuare questa lotta antica. E quello che mi ha permesso di riprendermi è stata anche l’unione di persone non nere ai cuori e agli spiriti neri da Pisa a Palermo, da Milano a Catania, da Torino a Bari per esorcizzare la tensione razziale, espiare il dolore accumulato e per trionfare con una pace intersezionale e un respiro nazionale di giustizia.

Come respirare dopo Floyd, ma anche e soprattutto dopo Diene e tutti i morti per razzismo nostrano, significa entrare in una dimensione di onestà memoriale per cui si accetta di scuotere vigorosamente e ininterrottamente il torpore della bianchezza italiana senza dimenticarsi delle altre forme di oppressione esistenti. Onorare la memoria di Floyd o di Diene richiede da noi tutti dedizione intellettuale e attenzione panoramica, responsabilità e rispetto, ma soprattutto una umiltà tesa alla creazione e al rafforzamento di una comunità italiana innamorata della giustizia intersezionale. Fatta l’Italia bisogna tuttora fare gli italiani, ma ora più che mai bisogna unirsi per fare anche l’antirazzismo italiano. In questa avventura è benvenuto chiunque sia pronto ad ammettere i propri limiti, privilegi e pregiudizi per decostruirsi e disalienarsi per abitare un mondo in cui non si permetta a nessuno di togliere il respiro alla vita e alla vitalità del pianeta nella sua diversità umana e nella sua biodiversità.