È l'odissea dei care leavers migliaia di neo maggiorenni senza prospettive e assistenza: dal reddito alla casa, fino all’università. L'appello al Governo: «È urgente rifinanziare il fondo nazionale»

Francesco Riccio ha 17 anni e qualche mese quando lui e sua sorella di 14 rimangono orfani. Nessuno dei familiari può prendersi cura di loro, si trasferiscono dalla vicina e richiedono che sia lei l’affidataria. A luglio dello stesso anno scoprono però che il tribunale minorile non ha mai ricevuto la richiesta. La sorella viene spostata in una casa famiglia. Lui nel frattempo ha compiuto 18 anni e la vicina non vuole più ospitarlo. Prima un avvocato, poi un assistente sociale gli spiegano che non possono fare molto. Gli consigliano di richiedere il reddito di cittadinanza e di andare da un prete di Cicciano, in provincia di Napoli, per avere una stanza. Adesso ha 23 anni, vive ancora nella soffitta data dalla Chiesa ma senza corrente. Ha litigato con il prete e dall’11 giugno gli ha staccato la luce per farlo andare via. Ha chiesto di poter rimanere qualche settimana in più per trovare un altro alloggio che ancora non ha trovato.

 

La vicenda di Francesco Riccio è l’onda lunga personale di un tema ampio e stratificato che coinvolge la vita di migliaia di neomaggiorenni in Italia. Il termine care leaver indica colui o colei che lascia l'assistenza. I care leavers sono ragazze e ragazzi che dopo un periodo di tempo trascorso fuori dalla famiglia (in casa-famiglia, affido o comunità) devono lasciare il sistema di accoglienza. Il primo punto che emerge nell’approcciarsi al fenomeno è comprendere chi sono queste persone, da quali contesti e da quali differenti percorsi minorili provengono. In Italia, secondo l’ultimo report curato dall’Istituto degli Innocenti, nel 2021 i bambini e ragazzi tra 0-17 anni nei servizi residenziali per minorenni si stimano essere 14.081 mentre per i bambini e ragazzi in affidamento familiare la stima è di 13.248.

 

A questi si sommano i minori stranieri non accompagnati (Msna) che secondo i dati del ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, aggiornati al 30 giugno 2024, sono 20.206 di cui il 74,64% ha tra i 16 e i 17 anni. È quindi complesso stabilire nel dettaglio il numero delle ragazze e ragazzi bisognosi di accedere a un percorso di accompagnamento oltre la maggiore età.

 

Secondo l’ultimo report “La tutela dei minorenni in comunità”, realizzato dall’Autorità garante per l'infanzia e l'adolescenza, nel 2020 i neomaggiorenni che vivono in comunità sono 2.745 su un totale di 23.122 ospiti. Un numero che non comprende la totalità dei neomaggiorenni in percorsi di accompagnamento dato che, come dice Federico Zullo, il presidente di Agevolando, una delle più importanti associazioni che si occupa di care leavers, «non c’è un monitoraggio, conosciamo i numeri solo dei neomaggiorenni che restano in comunità e non esiste un database nazionale per conoscere queste persone». 

 

Diciott’anni e un giorno
«A diciott’anni e un giorno è finita la protezione, come se nella notte in cui compi gli anni arriva l'illuminazione. Hanno la sindrome della fata turchina». Mauro Crosta lavora da 43 anni per la Repubblica dei Ragazzi, una realtà che opera con i minori nel comune di Civitavecchia. Tra gli operatori del settore emerge una frustrazione diffusa rispetto alla scarsa considerazione istituzionale che la questione dei care leavers ha storicamente avuto. «Per quanto riguarda questi ragazzi c’è un buco», spiega Maria Saggese, tutor del progetto Giovani Adulti portato avanti da Asilo Savoia: «Sono ragazzi che spesso vengono da percorsi di abusi e maltrattamenti o da situazioni familiari disastrose. Non si può pensare che lo Stato dica vai per la tua strada».

 

È solo negli ultimi anni, grazie al lavoro intenso di enti del terzo settore, operatori sociali e reti nazionali, che la questione ha assunto maggiore visibilità, riuscendo a stimolare alcune politiche pubbliche nazionali. La prosecuzione di forme di tutela dopo la maggiore età è fondamentale per non inficiare il percorso fatto prima dei 18 anni. Ma gli operatori sociali devono lottare, con grandi difficoltà, per ottenere la possibilità di seguire i ragazzi fino ai ventuno anni, quando anche questa età spesso non è sufficiente. «La maggior parte dei ragazzi che abbiamo conosciuto nel tempo – precisa Zullo – a 21 anni non è pronta, c’è la necessità di estendere per legge la possibilità di prolungare questi percorsi».

 

La divisione territoriale
La divisione regionale dei servizi e la mancanza di organicità degli standard rende ancora più complessa la problematica. Giovanni Fulvi, presidente del Coordinamento nazionale delle comunità di tipo familiare per minori (Cncm) ribadisce come: «Anche i nomi delle strutture cambiano, esiste una nomenclatura unica dal 2013 che le Regioni non applicano e le interazioni tra i vari operatori diventano estremamente difficili». Elemento che emerge in maniera esplicita, nel report dell’Autorità garante per l’infanzia e l'adolescenza dove si afferma che «ogni realtà regionale ha, infatti, una propria classificazione e questo rende complesso il confronto fra i dati esistenti». La diversificazione territoriale porta ad anomalie nel considerare il trattamento necessario per i neomaggiorenni e le relative risorse. È emblematico il caso che cita lo stesso Fulvi riguardo la situazione romana: «Il Comune ha deciso tre anni fa che per i neomaggiorenni stranieri, quando la richiesta di prosieguo amministrativo viene accettata, anche se permangono nelle comunità, non servono più cento euro al giorno di retta minima ma ne bastano trenta».

 

Zullo specifica come le divisioni regionali costituiscano un elemento problematico a partire proprio dall'applicazione del prosieguo amministrativo, misura fondamentale che consente di estendere i servizi di tutela fino ai ventun anni. «Ci sono regioni dove viene dato quasi a tutti e regioni dove non viene dato praticamente mai». Elemento confermato da Monica Ladina, che per Asilo Savoia si occupa dei neomaggiorenni stranieri: «Nel nostro caso spesso chi fa la richiesta non viene neanche chiamato in tribunale».

 

Isee zero
«Nel mio caso i Caf in un primo momento si sono rifiutati, e questo accade con tanti ragazzi che provengono da case famiglia, non conoscono la norma o decidono di non applicarla»: Emanuela Marianna Scurtu ha 23 anni, ha vissuto una parte della sua vita in una comunità per minori in provincia di Latina, nel 2019 dopo il Liceo ha dovuto chiedere l’Isee per iscriversi all’Università e usufruire di una borsa di studio. Secondo la legge italiana, i neomaggiorenni fuori dal nucleo familiare possono richiedere un Isee monoparentale. Quando, dopo un percorso tortuoso, è riuscita a ottenerlo e a richiedere la borsa di studio, ha scoperto che era stata automaticamente esclusa. L’esclusione è avvenuta per via di una segnalazione dell’Agenzia delle entrate che considerava sospetta la sua dichiarazione reddituale e patrimoniale pari a zero. La vicenda di Scurtu che prosegue, con alcuni avanzamenti, da cinque anni, racconta le difficoltà di accedere a tutele istituzionali dopo la maggiore età: «Non riguarda solo il diritto allo studio, ma anche trasporti e alloggio».

 

Scurtu, che come attivista segue diverse vicende di questo tipo, spiega come in molti enti pubblici, i care leavers non siano considerati una categoria sociale vulnerabile. Secondo Zullo: «Pochissimi riescono ad andare all’Università. Tra i ragazzi passati per i nostri progetti si arriva grosso modo al 7%». Scurtu racconta come delle oltre cento persone passate per la comunità di Pontinia, è l’unica che ha intrapreso il percorso universitario mentre era ancora ospite della struttura.

 

L’emergenza abitativa
Come per la storia di Francesco Riccio la dimensione abitativa assume nella vita dei care leavers un ruolo centrale. Racconta Nadia Recchia, responsabile dei gruppi appartamenti Felix e Colombi nella periferia Est di Roma: «La questione abitativa sta diventando grave, negli ultimi anni ho notato un aumento di minori non accompagnati che chiedono di andare nei centri per adulti alla fine del percorso per la sempre maggior difficoltà a trovare un alloggio». Le strutture per ospitare neomaggiorenni sono poche, secondo Ladina: «Dopo i diciotto anni la stragrande maggioranza è senza tutele abitative». La situazione più grave riguarda le grandi città; per l’esperienza di Zullo: «Milano, Roma, Napoli e Palermo hanno le situazioni più problematiche».

 

In questo quadro, elementi di sperimentazione arrivano da alcuni contesti più isolati come le aree interne. È un esempio il progetto portato avanti dalla Cooperativa Partes che opera a Borgo di Roccaporena nella comunità montana della Valnerina. Spiega la presidente Silvia Quaranta: «La volontà è di mettere al centro i giovani da un territorio di cui i giovani se ne vanno, accogliamo care leavers da altre parti d’Italia e insieme costruiamo dei percorsi partecipativi di transizione».

 

I tanti piani diversi che la vicenda dei care leavers intreccia la rendono una questione centrale per interrogarci sul rapporto stesso tra la funzione pubblica e le vulnerabilità sociali. Zullo, che è stato un care leaver e ai loro diritti ha dedicato molti anni della sua vita, lascia un appello concreto alla ministra Marina Elvira Calderone e al ministro Matteo Piantedosi: «È urgente rifinanziare il fondo nazionale, renderlo una misura strutturale e universalistica per tutti i care leavers inclusi i Msna. Occorre in fretta definire delle politiche e degli interventi a favore dei care leavers anche dopo i ventun anni di età».