Intervista

«Per salvare lo Stato assumiamo i giovani nei ministeri e nella pubblica amministrazione»

I trentenni nella Pa sono meno dell'un per cento e l'Italia ha l'età media dei dipendenti pubblici più alta dell'area Ocse. Parla Carlo Mochi Sismondi, presidente del Forum Pubblica Amministrazione

di Gloria Riva   17 giugno 2020

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«Nella pubblica amministrazione i trentenni sono meno dell’uno per cento. L’età media dei dipendenti pubblici è 51 anni, la più alta dell’area Ocse, con punte di 54 anni nei ministeri. L’ingresso di nuova forza lavoro under 40 è un prerequisito di sopravvivenza per la Pa», snocciola cifre allarmanti Carlo Mochi Sismondi, Presidente del Forum Pubblica Amministrazione che, insieme al Forum Disuguaglianze e Diversità, ha presentato proposte operative per una pubblica amministrazione che sia in grado di sostenere la ripresa post pandemia.

In che situazione si trova la macchina pubblica?
«È fiaccata da dieci anni di tagli al personale, con una riduzione di 220 mila unità, altre 500 mila se ne andranno entro il 2022 per raggiunti limiti di età. Si fa un largo ricorso a precari (oltre 350 mila) e la spesa in formazione è di 48 euro l’anno a dipendente. In Francia i lavoratori pubblici sono il 40 per cento in più, in Germania il 30».

Quante assunzioni servirebbero?
«Settecentomila per tornare ai livelli del 2008. I tre ministri che si sono succeduti alla Pubblica Amministrazione, Marianna Madia, Giulia Bongiorno, Fabiana Dadone hanno tutti promesso l’ingresso di 500 mila nuove risorse e i primi concorsi iniziano ad essere banditi in questi mesi».

Una buona notizia, non crede?
«Dipende. Se pensiamo di rimpiazzare i funzionari uscenti con nuovo personale che faccia esattamente le stesse cose, allora ci ritroveremo con un’amministrazione incapace di stare al passo con i tempi, con le richieste di cittadini e aziende che, lo sappiamo, sono stufi della burocrazia. La Pa non può più essere l’organo che fa adempimenti e autorizzazioni, deve saper cogliere la discontinuità tecnologica e d’informazione che è ovunque, deve diventare regia di un processo di sviluppo. Il dipendente pubblico non può più restare nel suo ufficio a firmare carte, deve andare sul territorio, nella società, nelle aziende, deve essere al loro servizio».

I tempi sono maturi per un tale salto di paradigma?
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«Considerando anche i soldi del Mes, sull’Italia pioveranno 343 miliardi di fondi che devono essere veicolati dalle pubbliche amministrazioni. Mettiamola così, il vecchio dipendente pubblico si limitava ad amministrare i fondi, il nuovo dipendente pubblico deve essere un project manager, un programmatore, un informatico, un negoziatore, un gestore di reti perché deve mettere in circolo quel denaro. È il sistema di selezione che deve cambiare, scardinando la logica secondo cui i dipartimenti più potenti sono quelli con più personale, al di là di chi essi siano. Dunque, se le selezioni saranno effettuate senza ripensare le missioni, senza comprendere le professionalità di cui c’è bisogno, allora otterremo altri trent’anni di inefficienza burocratica».

Cosa si potrebbe fare per evitare che questo accada?
«Bisogna puntare sul concetto di missione strategica. È necessario che ogni ente pubblico identifichi chiaramente la propria funzione, decida come raggiungerla e definisca le professionalità di cui ha bisogno. Di più, la Pa deve diventare appetibile per i migliori talenti in circolazione. Come? Iniziando a pagare di più i neo assunti (c’è una disparità reddituale fra gli entry level e i senior che non ha paragoni in Europa); offrendo possibilità di carriera certa; garantendo percorsi di formazione d’eccellenza. Al contrario, la pubblica amministrazione è un pessimo datore di lavoro: non valorizza il merito e non offre possibilità di crescita».

Quali le tempistiche del rinnovamento?
«I primi concorsi saranno in autunno ed entro i prossimi tre anni i 500 mila nuovi assunti dovranno essere immessi in ruolo. Perdere questa occasione significa perdere la sfida per la crescita che il paese si è posto»
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