Omofobo. Razzista. Transfobico. Mentre il linguaggio racconta un mondo di odio, il lessico della legge Zan che include la definizione di “identità di genere” divide il femminismo. Ma va incontro a chi è più fragile

Helena Janeczek
Rallento il passo davanti a una vetrina, sul marciapiede mi superano tre ragazzini. Del loro parlarsi fitto afferro mezza frase lanciata nell’aria afosa del pomeriggio. «Quello è un trans!». L’ha detta il più piccolo, quasi volesse dare prova di essere anche lui uscito dall’infanzia ancora incarnata nel corpo grassotello. Dimostra circa dieci anni, ha l’età in cui è indispensabile imparare le parole sporche e maneggiarle in scioltezza. Magari non avrei registrato quel frammento di conversazione, se la “parola sporca“ non fosse stata “trans”: per me una nuova entrata nel lessico a cui ho fatto il callo, come tutti. A cominciare da “puttana”, l’insulto più comune indirizzato a una donna, anche se esce nello sfogo contro la prof a cui viene contestato un voto o la vigilessa che ha comminato una multa.

“Puttana” rincarato in “troia” pare diventato quasi sinonimo di “stronza”: peccato non sia equiparabile la sua offensività sessista, cosa chiarissima a chi si trova a esserne oggetto e molto meno a chi - a voce o per iscritto - se lo fa scappare. O “gay” che, lo confesso, mi ha lasciata interdetta la prima volta che l’ho sentito scagliare contro un compagno di gioco alla Playstation: sempre con valore interscambiabile a “coglione” o “nabbo”, il termine denigratorio più appropriato per insultare il gamer incapace.
Diritti
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16/7/2020

All’epoca, quando mio figlio aveva l’età del ragazzino che esclamava “trans”, i miei sforzi educativi di madre democratica attenta per mestiere all’appropriatezza lessicale, si sono tradotti nelle spiegazioni involontariamente comiche che, sì, capisco, quel “gay” non sarebbe carico di nessuna reale cattiveria, ma quando si gioca online con degli sconosciuti e, chissà, magari qualcuno gay lo è davvero, sarebbe il caso di attingere al serbatoio di parolacce che non tirano in ballo l’orientamento sessuale. Non ho raccolto molto successo, ma a distanza di anni posso dire che non si cresce omofobi riempiendosi la bocca di parole omofobe, come non si diventa violenti giocando a Call of Duty.

Resta il fatto che il linguaggio sessista razzista omofobo e, a quanto pare, pure transfobico circola ovunque in Italia: sul web, in tv, al bar, all’oratorio, nei grandi stadi come sui spelacchiati campi di calcetto, nei contesti aziendali e persino in parlamento. Nel riprodursi e proliferare agisce simile al virus che ci ha tanto bersagliati, vale a dire scavalca le barriere generazionali, di classe, istruzione e genere, pur rispettando certe diseguaglianze. Purtroppo anche le donne usano dare della “puttana” e, come dimostrano ricerche, quando c’è di mezzo il filtro dei social media, la prassi riguarda spesso signore che su Facebook esibiscono le foto coi nipoti.

Se questa è la qualità dell’aria che respiriamo, non stupisce che ci voglia poco per passare al livello dove il linguaggio d’odio monta a persecuzione digitale e infine varca la soglia dove alle parole violente seguono le azioni: i pestaggi, le molestie e gli stupri, ma anche i video postati in rete che mettono quelle violenze alla gogna. Insomma nel mondo dove vivo non mi sono mai accorta che avessimo un problema con il “politically correct”, ma piuttosto con la diffusione di contenuti di segno opposto quasi mai ostacolata e tantomeno sanzionata.

Per questo le reazioni ostili alla legge Zan che vuole estendere le tutele della legge Mancino a chi subisce discriminazione o violenza per motivi legati “al sesso, al genere, all’orientamento sessuale, all’identità di genere” mi hanno sconcertata non quando vengono da destra, ma da una parte del mondo femminista che oggi si trova a fianco del senatore Pillon, cattolico e leghista, di cui, assieme alle altre anime del movimento, aveva combattuto il famoso disegno legge.

Il mio sconcerto o, meglio, la percezione di un’enorme dissonanza cognitiva rispetto alla realtà italiana e alla scala di priorità richiesta a difesa delle soggettività più vulnerabili, deriva dal fatto che la legge Zan sia rigettata soprattutto perché include la definizione di “identità di genere”. Benché sia entrato nel nostro lessico giuridico, è un concetto inviso alle femministe vicine al “pensiero della differenza” che nel mondo anglosassone preferiscono definirsi “femministe radicali”. Insomma quella parte del femminismo vede nell’introduzione del termine “identità di genere” - usato nel ddl per includere le persone trans o percepite come tali da chi le discrimina - un cavallo di troia per cancellare le donne: quelle definite dal sesso biologico su cui si baserebbe la differenza fondativa della cultura patriarcale.

Penso anch’io, come ha controargomentato Lea Melandri, voce storica del femminismo, che misoginia omofobia e transfobia nascono dalla stessa radice che assegna il ruolo dominante all’uomo etero, a patto che rifugga da ogni contaminazione della virilità di cui deve farsi portatore: tanto vale dotarsi di uno strumento per combatterle tutte. Ma vorrei riportare la riflessione a quell’atteggiamento di chiusura di alcune femministe, spesso accusate di essere transfobiche dal mondo Lgbt e dal femminismo che gli è vicino e solidale.

Esattamente come è capitato a J.K. Rowling, che a causa di alcuni tweet in difesa delle “donne vere”, si è trovata al centro di shitstorm e appelli al boicottaggio e a diventare una delle firme più in vista della lettera dei 150 intellettuali contro la “cancel culture”. Quel che credo di percepire in chi, da femminista, teme maggiormente che si possa finire come nel mondo anglosassone di quanto non si senta minacciata dalle destre nostrane così reazionarie anche in materia di diritti delle donne, non è transfobia (o omofobia), ma una paura talmente sganciata dalla realtà da assumere tratti fobici.

La fobia che venga invaso o cancellato uno spazio più sacro e inviolabile di un’ulteriore restrizione della legge 194 o altre concretissime azioni messe in pratica da chi ora governa nei territori ma potrebbe tornare a governare il paese. Lo spazio della propria identità, pensata a partire dalla differenza biologica.

È curioso che in Italia si continui imperterriti a chiamare “politically correct” (o “dittatura del politically correct”) ciò che i critici e accusatori anglosassoni definiscono “identity politics” da oltre un decennio. Ma è identitaria anche la politica di Trump e di Salvini (esiste un’importante formazione europea dell’estrema destra dal nome “Movimento identitario”), e persino la galassia frammentata della sinistra-sinistra appare cristallizzata da questioni di arroccamento identitario. Credo che in Italia la presa, grande o piccola, del rifugio offerto alle proprie identità prescelte abbia a che fare con la percezione di un paese in declino e con un sentimento nostalgico. E credo che sia una questione da prendere sul serio, spia di quanto siamo fragili e vulnerabili. D’altro canto, una “normale” donna o persona omosessuale o transgender che in Italia subisce violenza fisica o verbale a causa di ciò che è o che sembra essere, non sarà quasi mai in grado di rispondere se è discriminata in base all’identità di genere perché, a differenza delle parole che servono per ingiuriarla, quel termine non l’avrà sentito nominare.

Ma questo non dev’essere molto diverso là dove il dibattito sulla “cancel culture” coinvolge soprattutto le persone che non rischiano di essere fisicamente cancellate: come le decine di vittime del solo 2020 ricordate con lo slogan #blacktranslivesmatter. Cominciamo anche noi a tutelare le vite, tutte le vite, nei limiti in cui una legge lo consente.