Mentre prosegue l'Odissea della Ocean Viking, in Parlamento riprende la discussione sulle missioni all'estero e sul contratto tra i due paesi sulla gestione dei migranti. Ma la realtà, come mostrano i tanti episodi registrati in questi mesi, è solo una: la Libia non rispetta alcun diritto umano

Fino a due mesi fa Alessandro Porro era a Firenze, la città in cui vive, volontario con la Croce Rossa durante l'emergenza Covid. Chiamate giorno e notte, e lui addetto all'autoambulanza sanificata con l'ozono per trasferire i casi sospetti all'ospedale più vicino.

Oggi Alessandro è in mare, soccorritore sull'Ocean Viking, come l'anno scorso, come due anni fa, l'estate del 2018, l'estate dei porti chiusi. L'estate in cui l'Aquarius con 630 persone a bordo dopo giorni di navigazione attraversò in Mediterraneo, fino a Valencia.

Tra il 9 e il 10 giugno 2018, l'Aquarius, la nave gestita da Sos Mediterranee insieme a Medici Senza Frontiere, effettua soccorsi coordinati dall'IMRCC, il Centro nazionale di Coordinamento del Soccorso Marittimo, ma alla nave viene negata l'autorizzazione allo sbarco in un porto sicuro italiano, come previsto dal diritto internazionale.

L'11 giugno il governo spagnolo offre all'Aquarius la possibilità di sbarcare a Valencia, il 12 giugno, le autorità italiane trasferiscono 524 persone su navi italiane, le restanti 106 restano sull'Aquarius e tutte viaggiano per 4 giorni in direzione della Spagna, dove arriveranno la mattina del 17 giugno.

Il prezzo delle politiche salviniane dei porti chiusi. Prezzo metaforico e non. I sopravvissuti in mare (tra cui 123 minori e sette donne incinte) restarono in mare nove giorni prima di arrivare in un porto sicuro, e l'operazione che vide coinvolte due navi militari italiane (la Orione e la Dattilo) per facilitare il viaggio all'Aquarius costò allo stato italiano, secondo le stime di EuObserver, almeno trecentomila euro.

Oggi Alessandro Porro ripensa a quei giorni a bordo dell'Ocean Viking, da dieci giorni in mare, dopo sette richieste negate di assegnazione di un porto, sia a Malta sia all'Italia, è – mentre scriviamo – in direzione di Porto Empedocle: "abbiamo fatto quattro soccorsi dal 25 giugno, i primi due per un totale di 118 persone, e cinque giorni dopo altri due interventi di cui uno notturno, tutti in zona SAR maltese e in quella che si sovrappone tra Italia e Malta. Al momento in nave ci sono 180 persone, tra cui una donna incinta di cinque mesi e 25 minori. Molte delle persone salvate erano in mare da giorni, disidratate e deboli, senza acqua né cibo.'

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Dal 25 giugno, giorno del primo soccorso, una persona è stata evacuata per motivi medici, altre due hanno tentato di suicidarsi gettandosi in mare, molti altri manifestano gravi difficoltà psicologiche e minacciano di farsi del male e fare del male ad altri salvati a bordo.

Il tre luglio Ocean Viking ha richiesto l'evacuazione medica per 44 persone considerate a rischio e dichiarato – per la prima volta nella storia dei loro soccorsi in mare – lo stato di emergenza.

‘Secondo le leggi internazionali gli stati devono fornire indicazioni di sbarco e il soccorso finisce quando l'ultima persona soccorsa è in salvo. Al momento il soccorso è ancora in atto perché sono ancora tutti a bordo tranne uno' Alessandro ripete queste parole come una litania stanca, si rende conto di avere un tono rassegnato e si ferma.

‘Mi sento un disco rotto' dice, mentre elenca le norme del diritto internazionale marittimo, mentre spiega che i salvati cominciano a manifestare diffidenza anche nei loro confronti, non capiscono perché siano in mare da dieci giorni, mentre racconta le storie di abusi e torture delle persone tratte in salvo.

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Le storie dalla Libia, purtroppo si somigliano tutte, hanno tutte le stesse parole d'ordine: abusi, estorsioni. Lo racconta a bordo ad Alessandro il ragazzo di vent'anni di origine eritrea rapito un anno fa, portato in un centro di detenzione illegale in cui i miliziani gli hanno rotto una gamba e un piede con un bastone di metallo affinché la sua famiglia mandasse denaro contante, o l'altro ragazzo, partito da Zuwara, che è stato lasciato per giorni senza cibo prima che la sua famiglia riuscisse a pagare il riscatto del suo rapimento.

È affaticato Alessandro, sente di raccontare – invano - storie già dette, già sentite, già denunciate. E ancora una volta dimenticate.
La sua è la frustrazione di non essere ascoltato. Queste estate, quella scorsa, quelle prima.

Mentre le persone in fuga continuano a descrivere una situazione a terra – in Libia – di totale impunità, la paura di essere rapiti e morire, non tanto per la guerra ma perché si sentono bersagli mobili ogni volta che camminano in strada.

Sono passati due anni da quando l'Aquarius è stata spedita a Valencia, l'estate del 2018, l'estate dei porti chiusi. La situazione è diversa solo in apparenza, non ci sono più quei toni e quella retorica, certo, forse perché non ci sono toni e basta.
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Le vite delle persone soccorse in mare non sono usate come allora per politicizzare il dibattito sul fenomeno migratorio, ma di fatto i soccorsi in mare non esistono più.

"Il soccorso in mare è un fatto tecnico legalmente necessario e ora è in ogni modo ostacolato e rallentato – dice Alessandro – è una situazione per molti versi diversa dal 2018, ma fronteggiamo ritardi, manca un sistema europeo di soccorso e siamo in mare alla cieca, con le nostre poche capacità di ricerca. Il binocolo, la termocamera, il radar di intercettazione di messaggi radio fra aerei navi, o con l'ausilio di aeroplani di altre Ong. È come se stessimo reinventando un sistema di ricerca e soccorso che esisteva e funzionava bene. E lo stiamo ricostruendo in modo non efficace, fatichiamo a portare le persone allo sbarco".

A rendere tutto più complicato il rischio sanitario, le difficoltà generate dai protocolli Covid e il tema migratorio di fatto scomparso dal dibattito pubblico."I diritti negati alle persone che soccorriamo vengono negati a tutti. Smantellando ricerca e soccorso si fa un torto a tutti noi cittadini europei, non solo a quelli a bordo delle nostre navi."

Giugno 2020, il Ministro degli Esteri di Maio a Tripoli e le modifiche al Memorandum
Il 24 giugno scorso, di ritorno da una visita ufficiale a Tripoli, il Ministro degli Esteri Luigi di Maio esprime soddisfazione per lo spirito di collaborazione del governo di Fayez al Sarraj.

Di Maio atterra a Tripoli a ristabilire e risaldare alleanze dopo che, all'inizio di Giugno, il Gna (Governo di Accordo Nazionele) di Fayez al Sarraj ha riconquistato Tripoli grazie ai droni armati e ai mercenari siriani trasferiti in Libia da Erdogan.

Di Maio è consapevole che la parte occidentale della Libia, per la negligenza europea e la disattenzione e l'attendismo italiani, stia diventando un protettorato turco. L'alleanza tra i due paesi è vincolata da un accordo militare e uno energetico firmati alla fine dello scorso anno, accordi che incidono su interessi non solo italiani sul Mediterraneo centrale e orientale.
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Sul piatto dell'incontro tra di Maio e il governo libico il nodo Memorandum, l'accordo stilato nel 2017 dall'allora governo Gentiloni e il governo libico sulla "cooperazione nel campo dello sviluppo, del contrasto all'immigrazione illegale, al traffico di esseri umani, al contrabbando e sul rafforzamento della sicurezza delle frontiere".

Il Memorandum si è rinnovato automaticamente il 2 novembre 2019, decisione controversa, criticata, rinnovato nonostante gli appelli, le denunce e le prove dei quotidiani abusi di cui sono vittime le persone migranti in Libia. "Chiederemo modifiche al governo di Sarraj", fu la promessa di Viminale e Farnesina. Oggi siamo al redde rationem. Bisogna proporre modifiche e farle accettare. Soprattutto bisognerebbe farle applicare.

Tornato in Italia il Ministro di Maio ha dichiarato: «Il presidente Al-Serraj mi ha consegnato la proposta libica di modifica del memorandum, si va in una giusta direzione, con la volontà della Libia di applicare i diritti umani». La volontà di applicare i diritti umani. In un paese che non ha ratificato la Convenzione di Ginevra del 51 e non riconosce dunque lo status di rifugiato e non può dunque essere obbligata a prendersene cura.

E se pensiamo anche a quelle che invece ha firmato (eccone solo alcune: la Carta africana dei diritti dell'uomo e dei popoli, 1986, la Convenzione UA sui rifugiati in Africa, 1981, Carta africana sui diritti del minore, 2000, Protocollo alla Carta africana dei diritti dell'uomo e dei popoli sui diritti delle donne in Africa, 2004) risulta evidente che gli impegni presi siano stati disattesi.

L'appello
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Quindi è vero, la Libia non ha firmato la Convenzione di Ginevra eppure a oggi riconosce aventi diritti di status di rifugiato i cittadini di sette nazionalità: siriani, iracheni, palestinesi, somali, eritrei, etiopi oromo e sudanesi del Darfur. Alcune presenti massicciamente nei centri di detenzione.

La Libia ha però aderito a trattati e convenzione contro la schiavitù e la tortura, per la tutela dei diritti dei bambini e delle donne che, come la Convenzione di Ginevra, hanno obblighi vincolanti. Eppure nessuno si è sentito vincolato né punito per l'inazione e nessuno è stato, evidentemente, in grado di fare pressione affinché i trattati venissero applicati. Risulta difficile in questo quadro pensare che il governo italiano riesca a imporre l'applicazione di un Memorandum che nella forma e nella sostanza nasce e resta fumoso e confuso.

Le autorità libiche avrebbero consegnato al Ministro di Maio una proposta in cui «si impegnano nell'assistere i migranti salvati nelle loro acque, a vigilare sul pieno rispetto delle convenzioni internazionali attribuendo loro protezione internazionale così come stabilito dalle Nazioni Unite».

Una settimana dopo la visita, il 2 luglio, il Comitato misto italo-libico si è riunito a Roma avviando formalmente il negoziato per la modifica del Memorandum. Nel corso della riunione, si legge nella nota della Farnesina "la delegazione italiana ha confermato l'obiettivo di imprimere una svolta sostanziale alla cooperazione con la Libia nella gestione dei flussi migratori irregolari, attraverso il richiamo e il puntuale rispetto delle norme applicabili in materia di diritti umani, un ruolo centrale da riconoscere alle competenti agenzie delle Nazioni Unite e il progressivo superamento del sistema dei centri che ospitano i migranti".

Obiettivo delle modifiche, a tre anni dalla firma del Memorandum che ha esternalizzato la ricerca e soccorso nel Mediterraneo alla Guardia Costiera libica (fornendo attrezzature, garantendo un importante impegno finanziario e addestrando uomini), è dunque quello di chiudere i centri - i centri descritti dal Memorandum e dalla vulgata politica italiana come ‘campi di accoglienza' ma che sono ‘detention centers' centri di detenzione, per la legge libica – e riconoscere centralità alle agenzie delle Nazioni Unite.

Agenzie, l'UNHCR e OIM, usate come alibi, giustificazione, per le politiche di esternalizzazione dei confini dagli ultimi tre governi, nonostante le denunce di abusi, le evidenti e documentate violazioni dei diritti umani, le inchieste della magistratura e le prese di distanza delle stesse agenzie ONU.

Un passo indietro: le dichiarazioni dei ministri italiani sulle agenzie delle Nazioni Unite

Estate 2017
Marco Minniti, allora Ministro dell'Interno e promotore del Memoradum d'intesa, nel corso della festa del Pd a Certaldo dice, a proposito dei respingimenti dei migranti intercettati dalla Guardia Costiera Libica: «Affidare la gestione dei campi di accoglienza in Libia ad Unhcr e Oim è l'unica scelta possibile, sono impegnato affinché avvenga il più rapidamente possibile, ma è irrinunciabile il rispetto dei diritti umani delle persone accolte».

Dicembre 2018
Rispondendo alla richiesta di chiarimenti da parte del Consiglio d'Europa sugli accordi presi in Libia, Marco Minniti dichiara ancora: «L'Italia considera cruciale il tema dei diritti umani, l'obiettivo dell'azione italiana è infatti duplice: prevenire traversate che pongano a rischio le vite e garantire il rispetto degli standard internazionali di accoglienza in Libia, anche e soprattutto mediante il rafforzamento della presenza e delle attività di Unhcr e Oim».

Marzo 2019
Cambio di governo, Matteo Salvini è ministro dell'Interno e dichiara, a proposito delle agenzie ONU: «La Libia può e deve soccorrere gli immigrati in mare, e quindi è da considerare un Paese affidabile. Dove gli immigrati che vengono riportati a terra dalla Guardia Costiera vengono tutelati dalla presenza del personale Oim, l'Organizzazione internazionale per le migrazioni». 

Settembre 2019
Cambia di nuovo governo, in perfetta continuità con i precedenti il Ministro di Maio a capo della Farnesina e in visita a New York dichiara: «I migranti in Libia saranno afffidati all'Onu, le persone salvate dalla Guardia Costiera libica verranno prese in carico da UNHCR».

E le Nazioni Unite?
In questi anni, le agenzie della Nazioni Unite hanno ripetutamente dichiarato di non considerare la Libia un porto sicuro. Lo scorso anno, dopo che il centro di detenzione di Tajoura, a Tripoli, è stato bombardato da un drone delle forze armate del generale Haftar provocando la morte di 53 persone migranti (altre 130 rimasero ferite), UNHCR e OIM hanno rilasciato l'ennesima dichiarazione, stavolta congiunta, si legge: «È necessario compiere ogni sforzo per impedire che le persone soccorse nel Mediterraneo siano fatte sbarcare in Libia, Paese che non può essere considerato porto sicuro». Nella dichiarazione le due agenzie Onu sottolineavano anche la necessità che le imbarcazioni degli Stati Europei che conducevano operazioni di ricerca e soccorso tornassero a svolgere «questo compito vitale», come le navi delle ONG, si legge ancora nel testo che «non devono essere penalizzate per il soccorso di vite in mare».

Era il luglio del 2019, sei mesi dopo l'UNHCR decide di chiudere il GDF, Gathering and Departure Facility, di Tripoli, la struttura di raccolta e partenza per persone migranti che avrebbe dovuto essere il luogo di attesa delle persone vulnerabili in vista dei voli di ricollocamento, ma che nel giro di poco tempo si era di fatto trasformato nell'ennesimo centro di detenzione. La guerra di Tripoli entrava nel suo nono mese, i mortai colpivano le abitazioni adiacenti al centro UNHCR, il personale militare e di polizia libico veniva addestrato a pochi metri dalle strutture che ospitavano i rifugiati e richiedenti asilo, e il 30 gennaio Jean Paul Cavalieri, capo missione UNHCR in Libia dichiara: «L'Agenzia sospende le operazioni a causa dei timori per la sicurezza e la protezione delle persone ospitate nella struttura, dello staff e dei suoi partner in considerazione dell'aggravarsi del conflitto». Staff internazionale evacuato in Tunisia e GDF (centro di raccolta e partenza) chiuso.
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Per le Nazioni Unite, argomento centrale della difesa del Memoradum di tutti i governi di ogni colore, la Libia non era e non è un porto sicuro. Oggi come allora l'accesso ai centri di detenzione è vincolato a negoziazioni e l'azione di monitoraggio del rispetto delle vite migranti è vincolato alla presenza e al potere delle milizie armate. Oggi come allora le Nazioni Unite non possono entrare nei centri di detenzione illegali, non sanno – come nessuno sa – quanti siano e dove e soprattutto quante persone siano costrette a vivere in quei luoghi.

Maggio 2020, il massacro dei bengalesi a Mizdah
Il 28 maggio scorso 30 persone, 26 cittadini del Bangladesh e quattro persone di origine subsahariana sono state uccise da un gruppo di trafficanti in un deposito di contrabbando a Mizdha, vicino alla città di Gharian, sud ovest di Tripoli, che allora era ancora sotto il controllo del generale Khalifa Haftar. Le autorità locali hanno inizialmente ipotizzato che la strage fosse stata compiuta per vendetta dalla famiglia di un trafficante che teneva in ostaggio i migranti, ma le ricostruzioni ottenute attraverso le testimonianze dei sopravvissuti dai funzionari dell'ambasciata bengalese, hanno fatto luce sulla vicenda: i cittadini bengalesi sono stati rapiti nel deserto tra Bengasi e Tripoli, presi in ostaggio da una milizia e portati nel deposito di Mizdha. I sopravvissuti hanno dichiarato di aver pagato tra gli otto e i diecimila dollari per raggiungere l'Europa attraverso la Libia, e che il gancio, il contatto con i trafficanti libici fossero altri cittadini bengalesi. Una volta giunti in Libia, i trafficanti hanno alzato la richiesta economica e quando gli ostaggi, dopo quindici giorni di abusi e torture a fini estorsivi, hanno assaltato il capo della milizia cercando di liberarsi, i suoi uomini per rappresaglia hanno sparato a sangue freddo contro di loro uccidendo 26 persone e ferendone gravemente altre dodici.

Il deposito di Mizdah, altro non è se non un centro di detenzione illegale. Quelli gestiti dalle milizie, quelli di cui è impossibile conoscere il numero preciso. Un giovane libico che lavora nello staff locale dell'OIM (e parla a condizione di anonimato per ragioni di sicurezza) sostiene che, sulla base delle loro ricostruzioni, il deposito ospitasse un numero molto più alto di persone migranti, fino a duecento, spostate prima che le autorità potessero raggiungere il luogo del massacro, verso destinazioni ignote.

«La domanda è quante strutture di questo tipo ci siano in Libia – dice – nessuno lo sa e per tutti gli staff sia locali che internazionali non è solo pericoloso provare a raggiungere questi luoghi ma è pericoloso anche cercare di capirne di più».

Luglio 2020, Ocean Viking in mare senza porto di sbarco e i numeri libici
Tra le motivazioni di chi difende il Memorandum e sostiene che negli ultimi tre anni (dalla firma al rinnovo) la situazione nei centri di detenzione libici sia migliorata c'è la considerazione che il numero delle strutture detentive gestite dal DCIM (dipartimento anti immigrazione clandestina del Ministero dell'Interno libico) si sia ridotto da circa trenta a undici e il numero delle persone detenute a sua volta ridotto da diecimila a duemilaquattrocento.

Proviamo a leggere i numeri libici con altre – più scettiche - lenti. Da gennaio a oggi, secondo i dati forniti dall'OIM, sono stati riportati in Libia dalla Guardia Costiera 5.476 persone. Al momento nei centri ufficiali – undici, appunto – ci sono però 2.400 persone. La matematica non inganna: posto che, sempre secondo i dati OIM, fino ad aprile nei centri di detenzione ufficiali c'erano mille persone, significa che delle 5.400 persone riportate a terra dalla guardia costiera libica da Gennaio a oggi, mille e quattrocento siano finite in strutture detentive e altre quattromila siano scomparse.

Semplicemente sparite dai radar. In questa parola: ‘scomparse", ci sono molte diverse – tragiche – possibilità. Possono essere scappate in città, cercando ospitalità e un po' di sicurezza in abitazioni occupate da connazionali, possono essere stati costretti al fronte, a combattere o – molto più spesso - possono essere stati prelevati, rapiti a fini estorsivi dalle milizie locali e destinati a strutture clandestine, come il deposito di Mizdha, il luogo della strage dei bengalesi.

Centri di detenzioni non ufficiali, illegali, in cui nessuna agenzia delle Nazioni Unite può entrare, nessuno può registrare le persone, avere contezza della loro presenza in Libia. Qualsiasi destino sia toccato loro, una cosa è certa per tutti: non fanno parte delle statistiche ufficiali, è per loro complicato oltre che pericoloso tentare di mettersi in contatto con le agenzie delle Nazioni Unite e diventano, esattamente come raccontano i salvati dalla Ocean Viking, "un bersaglio mobile ogni volta che sono in strada".

Dall'inizio dell'anno, secondo le testimonianze dello staff locale delle agenzie delle Nazioni Unite, un venti, trenta percento delle persone sbarcate veniva direttamente lasciato scappare al momento dello sbarco al porto. Secondo una fonte del Ministero dell'Interno libico, negli ultimi mesi le autorità di Tripoli starebbero utilizzando una struttura un tempo usata come fabbrica di tabacco per trasferire gli altri migranti dopo lo sbarco, una struttura che non è sulla lista degli undici centri di detenzione gestiti dal Ministero dell'Interno ma dove, i funzionari governativi presenti al momento dello sbarco, destinano i migranti.

Per le agenzie delle Nazioni Unite è impossibile sapere quante persone siano finite in questa struttura abbandonata, e da chi sia gestita, la sola indiscrezione è che faccia capo ai gruppi e alle tribù di Zintan. Le autorità libiche hanno chiesto alle agenzie delle Nazioni Unite di recarsi nell'edificio ma le agenzie si sono rifiutate perché il centro non compare sulla lista ufficiale del Ministero.

Federico Soda, capo missione OIM in Libia, sottolinea che: «Le condizioni nei centri continuano a essere inaccettabili e che gli eventi degli ultimi mesi, non ultima la strage dei bengalesi a Mizdah, dimostrano che la detenzione non sia un deterrente, ma che al contrario aumenti la determinazione di fuggire dalla Libia via mare». Chi è stato in un centro di detenzione libico, legale o illegale, farebbe di tutto pur di lasciare il paese. Anche rischiare la vita in mare. L'OIM gestisce i rimpatri volontari dalla Libia, oggi però dal paese non si esce. Causa guerra e Covid gli aeroporti sono chiusi e i rimpatri bloccati.

Federico Soda cerca da due mesi di sbloccare le partenze, sono 1.500 le persone in attesa di rientrare nei paesi di origine. La richiesta è rimbalzata di ufficio in ufficio, fino ai tavoli del governo, ma l'agenzia è ancora in attesa di risposte. Quando anche i voli ripartiranno ricominceranno anche i programmi di reinsediamento ma, sempre causa Covid, i numeri saranno ridimensionati di molto. Paesi che prima dell'epidemia avrebbero accettato tre, quattrocento persone oggi si dichiarano disponibili a non accettarne più di sessanta, settanta. Significa più persone bloccate in Libia, più persone esposte al pericolo di abusi.

Sono passati tre anni dal Memorandum che ha esternalizzato controllo dei confini e delegato i recuperi in mare, il Memorandum che ha esternalizzato responsabilità e percezione dell'altro, della persona migrante che attraversa il Mediterraneo per fame, disperazione o solo perché, assai più semplicemente e tragicamente, non ha documenti per spostarsi altrimenti che così.

Anni in cui la Libia è stata attraversata da conflitti minori e da una guerra massiccia che ha devastato intere aree della capitale e provocato 400 mila sfollati interni, anni in cui Ong, agenzie Onu e inchieste giornalistiche hanno denunciato e documentato abusi e torture in quei centri finanziati dall'Europa, accettati dall'Europa, e battezzati dall'Italia con un nome improprio:

Si legge, articolo due paragrafo due del Memorandum: "Adeguamento e finanziamento dei centri di accoglienza summenzionati già attivi nel rispetto delle norme pertinenti". E però non sono mai stati e non sono centri di accoglienza, sono – lo ripetiamo – per la legge libica, centri di detenzione.  

Sono stati anni in cui l'azione delle Ong in mare è stata ostacolata, impedita e criminalizzata, i porti sono stati chiusi e poi riaperti ma riaperti solo sulla carte, anni in cui inchieste della magistratura hanno accertato e contestato il reato di tortura nei centri di detenzione libici, in particolare quello di Zawhia, sotto il controllo formale del Ministero dell'Interno libico, ostaggio di milizie che hanno in mano le due ricchezze del paese: contrabbando di carburante e traffico di esseri umani.

Torture così efferate che il Procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio ha dichiarato che l'attività investigativa avesse: «Dato conferma delle inumane condizioni di vita all'interno dei cosiddetti capannoni di detenzione libici e la necessità di agire, anche a livello internazionale, per la tutela dei più elementari diritti umani e per la repressione di quei reati che, ogni giorno di più, si configurano come crimini contro l'umanità».
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A tre anni dalla firma di quel Memorandum oggi si torna a discutere di modifiche che, alla luce di quanto elencato finora, si riveleranno parole vuote, impegni destinati a non essere rispettati. Al tavolo del Comitato Italo Libico non c'erano, per esempio, delegati delle UN che in questi anni hanno lavorato sul terreno, difficile immaginare un tavolo di concertazione e di riflessioni sulle modifiche da apportare al testo, in assenza di funzionari che hanno vissuto e lavorato nei centri e che hanno affrontato ogni giorno la difficile relazione con la autorità libiche da un lato e con i ricatti delle milizie dall'altro.

La presenza delle agenzie delle Nazioni Unite è stata usata in questi anni come alibi da ogni governo. "Della sicurezza dei salvati si occuperanno le Nazioni Unite": intanto le medesime Nazioni Unite continuavano a ripetere che i respingimenti fossero inaccettabili. L'alibi era chiaro, è il comma 22 del Memorandum: se ci sono OIM e UNHCR sul terreno vuol dire che la situazione è migliorabile. Ma la situazione non è migliorata.

Le agenzie Onu non sono – per loro stessa ammissione – in condizione di garantire la sicurezza delle persone sbarcate in Libia dalla Guardia Costiera libica, le strutture sono nelle condizioni in cui sono sempre stati, cambiare le finestre o dare una mano di pittura a un centro detentivo non significa risolvere il problema. E il problema è la legge: finché non si attiva un processo trasparente di ripensamento del sistema giuridico libico le persone migranti continueranno a essere portate indietro in un paese che li obbliga a una detenzione sine die, in cui rischiano di diventare ostaggio di milizie, e in cui non è possibile per nessun organo internazionale tutelare la loro incolumità e garantire che non finiscano in un luogo illegale sottoposti a torture e atrocità.

«Finché non mettono mano alle leggi, finché non saremo certi di riuscire a registrare tutti e che le persone registrate non spariscano sotto gli occhi delle autorità, non cambierà molto in Libia» dice Federico Soda.

Mentre scriviamo l'Ocean Viking è ancora in mare, il governo italiano ha inviato un team di psicologi, un'ispezione medica per stabilire lo stato delle persone salvate. Sono stati effettuati tamponi Covid a tutti e si attendono i risultati.

Alessandro Porro, dalla nave, alle 23 di domenica sera sapeva che era stato assegnato un Porto di sbarco, Porto Empedocle, ma non sapeva ancora se i salvati sarebbero stati trasferiti, come si apprende da indiscrezioni, sulla Moby Zaza, la nave noleggiata dalla protezione civile proprio per la quarantena delle persone soccorse in mare.

Da Gennaio a oggi sono arrivate in Italia 6.900 persone via mare. I numeri non sono più quelli dell'emergenza in termini numerici, sono però sempre di più i numeri di una emergenza umanitaria. Anche figlia di quel Memorandum del 2017 che il governo Conte 2 si impegna a modificare pur sapendo che è stato e continua ad essere totalmente inefficace.