Cosa significa nascere durante l'emergenza Coronavirus
Da mesi nei reparti maternità si vive tra tamponi, tute e mascherine. Ma l'ospedale di Bagno a Ripoli (Firenze) non ha mai chiuso ai papà la porta della sala parto. E questi scatti ci restituiscono dei momenti di eccezionale normalità (Foto di Malou Scuderi)
di Angiola Codacci-Pisanelli - foto di Malou Scuderi
8 luglio 2020
Per fortuna è andata bene: «Perché mica mi ci tenevano lontano da mio figlio. Scalavo il muro, entravo dalla finestra. Ho fatto il calcio fiorentino, io, e non c’è da nascondersi, nel nostro ambiente siamo abbastanza suonati…» È andata bene perché Devid il suo Dario l’ha visto nascere: a differenza di quasi tutti i padri di bambini venuti al mondo subito dopo l'arrivo del Covid in Italia, lui in sala parto, nell’ospedale Santa Maria Annunziata di Bagno a Ripoli (Firenze), c’è potuto entrare.
Non come quel suo amico che all’ospedale di Careggi, pochi giorni fa, è rimasto fuori: «Gli hanno fatto il tampone, hanno detto che appena arrivava il risultato lo facevano entrare. Lui è rimasto in macchina ad aspettare, ma ci sono volute otto ore per controllare che lui fosse negativo, e intanto il suo bambino era già nato». Nascere al tempo del coronavirus è un’impresa speciale. Tra corsi pre-parto da remoto, tamponi a scadenze fisse e visite vietate a parenti e amici, è andata per aria tutta una tradizione di riti di accompagnamento della mamma e di accoglienza del neonato.
«Quando è iniziata l’epidemia, abbiamo saputo che ai padri non era più permesso entrare in ospedale, e l’idea di non poter essere lì con Samanta mi metteva molto in ansia», racconta Lorenzo, che in pieno lockdown è diventato papà di Alice ed Emma. «Poi ci hanno parlato dell’ospedale di Bagno a Ripoli, abbiamo preso contatto con loro e ci siamo rassicurati». Durante il lockdown, la procedura standard teneva i padri del tutto fuori dall’ospedale: al momento del parto accompagnavano la compagna in accettazione e dopo quattro o cinque giorni andavano a riprendere lei e il neonato. Regole così strette da provocare un aumento delle richieste di partorire a domicilio. 002-jpg Lo conferma Giulia, la mamma di Dario: «Senza Devid accanto non ci sarei potuta stare, avrei scelto di partorire in casa». Con l’arrivo della fase 3, le regole di sicurezza si sono un po’ allentate e per assistere al parto serve solo il tampone anche per il futuro papà. Per il resto, la routine non è cambiata di molto. «Ma finalmente è scomparsa la paura», commenta Alberto Mattei, primario di ostetricia e ginecologia a Bagno a Ripoli. «Si torna a interessarsi delle problematiche che si presentano ogni giorno in ospedale: gli spazi e gli orari di visita stanno tornando normali. È iniziata la fase di convivenza con il virus, e l’eventuale sintomatologia viene ora valutata con senso clinico e non come un allarme rosso ad ogni starnuto».
Però proprio il suo reparto è stato uno dei pochissimi in Italia a garantire una gestione delle nascite il più possibile normale anche durante il lockdown: «Pur mantenendo norme di sicurezza stringenti, abbiamo voluto mantenere la possibilità per il padre di partecipare ad un evento così importante, spesso unico nella vita di tutti noi. Il primo punto è stato quello di eseguire il maggior numero di tamponi alle donne in prossimità del parto: le donne, sicuramente negative, hanno potuto partorire in sicurezza per sé, per il padre e per gli operatori sanitari». parti3-jpg E tutto questo mantenendo la vocazione per il “parto dolce” che l’ospedale di Bagno a Ripoli ha consolidato negli anni: «La nostra è una azienda molto grande, sia nei numeri che nell’estensione territoriale», spiega ancora Mattei, «comprende tre province e sette punti nascita. I casi più delicati vengono concentrati in altri ospedali, mentre il nostro ha da sempre una vocazione e una preparazione molto pronunciata per l’umanizzazione del parto. Da noi le ostetriche curano con grande passione l’esigenza delle coppie di vivere appieno il momento più alto della loro vita insieme».
Mantenere questo approccio anche nei giorni più duri dell’epidemia è stata una scelta di successo: «Abbiamo avuto ottimi risultati e un numero di nascite più alto dello stesso periodo negli anni precedenti». Oltre a ecografie, cardiotocografia e altri usuali controlli delle ultime settimane di gravidanza, in questo periodo le donne devono fare anche il tampone: «Dovevamo farlo ogni sei giorni», ricorda Giulia. «Poi, quando sono andata per l’ultimo tampone, sono iniziate le contrazioni e cinque ore dopo Dario era lì».
E se il tampone fosse stato positivo? O in caso di emergenza? Le procedure previste le spiega Mattei: «Dopo un tampone positivo, o se non era arrivato il risultato, la donna rimaneva in un’aria speciale, al di fuori del reparto. In caso di urgenza, invece, c’era una sala parto riservata in cui l’assistenza alla partoriente seguiva le procedure sanitarie previste per chi era positivo al covid»: quindi medici e ostetriche indossavano le tute sterili e le doppie mascherine che abbiamo visto nei servizi fotografici dai reparti più a rischio. «Ma ricordo bene la prima volta che ha partorito una donna che poteva essere positiva al covid», continua Mattei. «Medici, ostetriche, pediatri hanno passato ore in abiti che li rendevano molto più vicini esteticamente a un astronauta che a un medico, ma riuscivano a trasmettere umanità e gioia». 001-jpg Per una donna che aspetta un bambino in questo periodo, la quarantena non è ancora finita: «stay safe, stay home» è un motto obbligato perché entrare in contatto con una persona positiva renderebbe molto più complicata la gestione del parto. «Io sono stata sempre in casa, uscivo solo per le visite mediche», conferma Eleonora, che da poche settimane ha messo al mondo il terzo figlio, Andrea. «E poi si stava sempre tutti imbacuccati, anche durante le ecografie. Le altre volte vedere quelle immagini è stata un’emozione grande, ma stando a distanza di sicurezza non mi sono nemmeno potuta godere lo spettacolo, non riuscivo a vedere bene lo schermo».
Anche i parenti si finisce per sentirli solo per telefono. E poi niente visite dei nonni in ospedale, e poche anche adesso che i nipotini sono arrivati a casa: «Ma questo non è solo un danno», commenta Giulia con franchezza toscana. «Significa anche avere meno rotture di scatole...».
A Bagno a Ripoli però il personale ha fatto sentire tutti in famiglia: «Per questo mi complimento con i miei collaboratori, medici e ostetriche», commenta Mattei. «Perché l’aspetto umano non si insegna e non si impara, ma si ha dentro, o non si ha. Soprattutto durante il lockdown ho avuto l’impressione forte di vedere persone che remavano nella stessa direzione: sanitari e puerpere si aiutavano a vicenda per far prevalere la vita e l’entusiasmo sulla malattia». Parti1-jpg Nel racconto delle mamme dell’era Covid gli esempi del calore umano del personale medico sono una quantità: «Sono riusciti a farci sentire come se fuori dall’ospedale non stesse succedendo niente di speciale», assicura Lorenzo. La sua compagna, Samanta, è ostetrica, ma assicura: «Quando si partorisce tutto quello che si sa in teoria si offusca. Stavo seguendo un corso di preparazione in piscina ma dopo due incontri è stato interrotto, e mi è mancato molto. Anche preparare il corredino per le bambine è stato complicato, con i negozi chiusi e la paura di uscire di casa. Ce la siamo cavata un po’ grazie al commercio online, molto per le cose usate che ci sono arrivate grazie alla solidarietà di altre mamme, che si sono fatte in quattro per procurarci tutto quello che serviva».
Eleonora, che prima di Andrea di bambini in questo stesso ospedale ne aveva avuti due, dice che «si notava una disponibilità ancora maggiore rispetto al normale. Avevo paura, sì, perché per me era il terzo cesareo e sapevo che è un intervento delicato. Però solo questo mi metteva ansia: l’atmosfera era tranquilla, rilassata, con mio marito subito fuori dalla sala operatoria. Ci siamo sentiti coccolati. Pensi che il bambino è stato in incubatrice e quando ci hanno dimessi l’infermiera che lo aveva seguito non era di turno: la sera stessa mi è venuta a trovare a casa...» Unico problema, l’obbligo di usare la mascherina: «Io la metto quanto vi pare», commenta Devid, «ma la mamma no, non potete obbligarla, è una tortura: come si fa a fare il travaglio senza poter respirare a pieni polmoni?».
Ora la vita sta ricominciando al ritmo normale. Eleonora ha già ripreso il lavoro: «Sono veterinaria, mi occupo di controlli alimentari e ho sempre lavorato da casa». Resta il ricordo di un’esperienza diversa da quella vissuta dalle altre mamme. Restano le foto fatte da Malou Scuderi, che normalmente nei reparti maternità ci va su invito dei genitori che vogliono un servizio fotografico del parto, e questa volta invece ci è entrata per testimoniare come si viveva in quelle stanze in questo periodo eccezionale. «Chissà cosa diranno le bambine quando vedranno le foto» si chiede Samanta. «Vorranno sapere perché babbo e io portavamo quella buffa mascherina. O forse no: forse dovremo continuare a portarla per anni, e loro ormai ci saranno abituate».