Ci sarebbe stato bisogno, oltre ai banchi nuovi, di mappare e censire i luoghi agibili di ogni comune, di dimezzare il numero di studenti per classe, di aumentare l’organico, di investire in edilizia scolastica. Ma invece è tutto lasciato alla capacità dei singoli di salvare la situazione

scuola banchi vuoti
Meglio cominciare con una premessa: non è affatto facile far ripartire la scuola, coi suoi undici milioni di persone. Tanto più che se altri settori non si sono mai fermati la scuola, invece, a parte la breve esperienza dell’esame di maturità, è sempre stata ferma. E se ne potrebbe aggiungere un’altra, di premessa, meno ovvia di quanto si possa credere: da un punto di vista strettamente epidemiologico non converrebbe far ripartire questa enorme macchina.

Ne abbiamo un improrogabile bisogno educativo, sociale, cognitivo e persino economico, ma epidemiologico proprio no, e non bisogna avere paura di ammetterlo. Detto questo, è inevitabile constatare che alla riapertura ci stiamo arrivando senza le idee chiare, in ordine sparso e sfiancati dalle polemiche. Le indicazioni contraddittorie del Ministero hanno generato più confusione della mancanza di istruzioni e l’unica cosa che è stata subito certa è che ogni istituto si sarebbe dovuto arrangiare. E se in questi giorni sono finalmente uscite le linee guida regionali, che i presidi stanno in fretta e furia cercando di adattare alle specifiche esigenze del loro istituto (il che vuol dire, pressappoco, arrangiatevi), va osservato che queste linee guida si concentrano più che altro sulle esigenze logistiche e sugli standard di sicurezza da mantenere all’interno dell’edificio, ma spendono poche parole sulla qualità delle lezioni e sui livelli minimi da garantire.

Ancora una volta, dunque, ciascuno farà ciò che potrà, compresi i tanti docenti che metteranno piede per la prima volta in aula.

Intervista
«L'aula scolastica non è solo uno spazio fisico: è il luogo simbolico in cui si crea la comunità»
10/9/2020
La parola “arrangiare” dice molto di quello che siamo (o che ci ritroviamo a essere). L’italiano si arrangia sempre, lo sappiamo dai tempi della commedia dell’arte: tira fuori il meglio di sé nelle difficoltà e nelle emergenze, si arrabatta come può nelle situazioni della vita di tutti i giorni, riesce a far quadrare i conti anche quando non tornano, ha un cuore grande e si rimbocca le maniche, sa svignarsela e essere raffazzonato… Si potrebbe andare avanti a suon di altri cliché.

La parola “arrangiare”, così, si rivela subito bifronte perché da una parte rassicura denotando inventiva e coraggio, dall’altra indica approssimazione e superficialità. Scuola compresa, naturalmente. Sappiamo che in classe potrà capitare di fare un po’ i controllori e un po’ gli infermieri, dovremo decidere in autonomia come sarà meglio procedere. Del resto, non è stato così anche con la didattica a distanza? A riguardo, poi, è onesto ricordare che, al di là degli elogi generici, i risultati sono stati oscillanti, c’è chi ha fatto molto e chi poco, chi ha fatto bene e chi meno bene, chi ci ha provato e chi si è rifiutato di prestare la propria opera. Ci siamo arrangiati nel doppio senso della parola, chi per svicolare (i meno) e chi per tirare fuori risorse che nemmeno pensava di possedere (i più).

Ma ci sarebbe stato bisogno, oltre ai banchi nuovi, di mappare e censire i luoghi agibili di ogni comune (il liceo dove insegno è vicino a una caserma vuota, ma non c’è stato verso di renderla disponibile), di dimezzare il numero di studenti per classe, di aumentare l’organico, di investire in edilizia scolastica, di disporre dei corsi di formazione per l’insegnamento della didattica a distanza in modo da non improvvisarla più.

Una società, lo sappiamo, non si regge né sul colpo di genio, né sul richiamo di coscienza e nemmeno sulla buona volontà. Si fonda su precisi adempimenti di entrambe le parti, stato e cittadino. Questo arrangiarsi è invece parte della storia della nostra scuola, così come di questa storia fa parte anche l’accordo tacito, non scritto e sempre scomodo da ricordare, per cui lo Stato paga uno stipendio basso, eroga pochissima formazione, organizza lo stretto indispensabile (a volte anche meno) concedendo però all’insegnante di arrangiarsi come può: se vorrà potrà studiare per preparare delle meticolose lezioni, se non avrà questa spinta leggerà dal libro di testo davanti alla webcam. Va bene (quasi) tutto, proprio in nome di quell’accordo silenzioso secondo cui ciascuno fa quello che può, dai massimi vertici fino alla base.

O diciamo a gran voce che non ci va più bene questo mutuo patto al ribasso, o sarà sempre più netta la divisione tra chi si arrangerà a fare lo stretto indispensabile (a volte anche meno) e chi darà il massimo per coscienza e non per contratto. I luoghi comuni, lo abbiamo imparato sulla nostra pelle, gettano discredito sulla parte migliore di noi e prestano il fianco ai più subdoli populismi.