Serve a evitare che chi usa stupefacenti muoia ed è l'approccio che funziona meglio. Ma in Italia, anche se la legge lo prevede, l’ideologia repressiva impedisce che venga adottata davvero

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Lo scorso 6 luglio, a Terni, due adolescenti non sopravvivono alla notte. Flavio e Gianluca, 15 e 16 anni d’età, dopo aver trascorso la serata insieme ed essere rientrati nelle loro case, muoiono entrambi nel sonno per insufficienza cardiaca. A ucciderli, la probabile assunzione di un mix di sostanze psicoattive. Tra le poche certezze, l’acquisto in strada di metadone da un 45enne in cura presso il locale Servizio per le tossicodipendenze (SerT): un boccettino per 15 euro.

Il metadone è un farmaco oppioide creato dalla Germania nazista nel pieno della Seconda guerra mondiale (il brevetto è del 1941) che i tedeschi trasformano in un successo commerciale solo a partire dagli anni Sessanta, quando negli Stati Uniti i medici iniziano a impiegarlo come sostituto dell’eroina per il trattamento della dipendenza da oppiacei. Nel sistema sanitario italiano arriva vent’anni dopo, per far fronte alla cosiddetta “epidemia di eroinomani” che, partita dagli Usa, dilagava allora in tutto l’Occidente.

Non è la prima volta (e probabilmente non sarà nemmeno l’ultima) che qualcuno muore per aver assunto metadone come sostanza da sballo ricreativo ceduta da altri. Si tratta di un nuovo fenomeno: quello degli “shottini” di metadone, venduti in strada al pari di quelli di amaro, grappa o rum per pochi euro. Nel 2018, ad esempio, a rimetterci la vita era stato un 22enne di una famiglia della Roma bene. Due anni dopo, un ragazzino di 17 anni a Genova e un 19enne a Pisa. Giusto per citare gli ultimi casi.

In seguito alla tragica morte dei due adolescenti a Terni, il prefetto della città, Emilio Dario Sensi, ha riunito un tavolo tecnico con magistratura e forze dell’ordine per valutare «ulteriori possibili strategie di contrasto al fenomeno dello spaccio di sostanze stupefacenti». Mentre sul fronte politico, l’assessore alla Sanità della Regione Umbria, Luca Coletto, già sottosegretario alla Salute in quota Lega nel primo governo Conte, ha promesso che in Parlamento arriverà una «modifica della norma che prevede l’erogazione del metadone nei SerT su base settimanale». Mettendo a rischio il diritto di cura delle quasi 90 mila persone che nel 2018 (ultimi dati governativi disponibili) risultavano in trattamento farmacologico contro la dipendenza da eroina presso questi servizi.

C’è stato poi il quotidiano La Nazione, che ha convocato un forum su giovani e droga nel quale il vicesindaco di Perugia, il pediatra Gianluca Tuteri, anche lui leghista, ha chiesto di usare «il pugno duro» contro la «piaga delle sostanze d’abuso», ipotizzando di «costringere» chi si presenta in ospedale anche solo con un’intossicazione da alcol a prendere parte ad un progetto di recupero.

«Lanciamo allarmi, parliamo di emergenza ma non pensiamo di mettere in condizione i giovani di non morire, fornendogli tutti i servizi e le informazioni necessarie per potersi difendere», commenta Stefano Vecchio, presidente di Forum Droghe, associazione che dal 1995 si batte per la riforma delle politiche sulle droghe. «I ragazzi che hanno acquistato quel metadone non avevano nessuna informazione», continua questo psichiatra che lavora sul tema dal 1982, «perché quando una sostanza è considerata un farmaco si pensa sia esente da pericoli. È mancata loro l’informazione sulle caratteristiche, la composizione, su tutti i possibili rischi. Questo è un pilastro molto semplice di una politica pragmatica ed efficace sulle droghe: si chiama Riduzione del danno (Rdd)».

Il Dipartimento dipendenze della Asl che dirige Vecchio è stato uno dei primi in Italia, peraltro in un Meridione troppo spesso indicato come fanalino di coda in termini di servizi e prestazioni sanitarie offerti, ad aver istituzionalizzato questa pratica spostandola dal terzo settore direttamente all’interno del servizio pubblico. Come del resto prevede la legge, da tre anni a questa parte. Assieme a lotta al narcotraffico, riduzione della domanda, cura e riabilitazione, la Riduzione del danno fa parte della cosiddetta “politica dei 4 pilastri” europea in materia di droghe. Anche in Italia, questa pratica è entrata a far parte dal 2017 dei Livelli essenziali di assistenza (Lea) che le Regioni sono tenute a garantire allo Stato nell’ambito del Servizio sanitario nazionale (Ssn). Il problema è che, per ora, resta un diritto mancato.

L’ultima relazione al Parlamento sulle tossicodipendenze (con dati fermi al 2018), contiene i risultati dei questionari inviati alle 20 Regioni italiane dall’Osservatorio europeo sulle droghe e le tossicodipendenze di Lisbona (Emcdda) sui servizi di Rdd attivi in Italia. E cioè di quelli finalizzati ad entrare in contatto con i consumatori precoci, ricreativi o occasionali, che sfuggono ai servizi tradizionali deputati alle dipendenze. I risultati ci dicono che nella maggior parte delle regioni italiane le attività di Rdd risultano demandate, oltre che ai citati SerT, a «servizi di salute mentale, strutture residenziali (comunità terapeutiche e/o strutture ospedaliere)», persino alle «farmacie». In altre parole, nel nostro Paese sono ancora merce rara gli operatori professionali che incontrano i consumatori per fare orientamento, fornire generi di prima necessità, materiali sterili, informazioni sulle sostanze o accompagnamenti in comunità, attraverso le unità di strada che intervengono direttamente nei luoghi del divertimento o che operano nei drop-in (la loro versione stanziale).

«Sono state “nozze coi fichi secchi”, visto che è rimasto tutto come prima: in assenza di finanziamenti da parte di Stato e Regioni la Rdd resta a buon cuore delle singole aziende sanitarie o dei singoli gruppi di privato sociale», denuncia Paolo Jarre, un altro medico che da quasi quarant’anni si occupa dei problemi che derivano dall’uso di droghe e oggi direttore del Dipartimento patologia delle dipendenze della Asl Torino 3, periferia ovest del capoluogo piemontese. A Terni, l’unità di strada che faceva Riduzione del danno ha smesso di operare oltre 6 anni fa. «La nostra attività non è mai stata finanziata dalla Asl, ma sempre e solo con progetti comunali a scadenza», rivela Marco Coppoli, uno degli operatori sociali che vi lavorava. «Quindi non appena ingranavi, iniziando a lavorare, si arrivava a scadenza e i fondi finivano».

Questo tipo di approccio non giudicante, a detta degli operatori che lo praticano, è in grado di ridurre le vittime e far comprendere dinamiche della piazza e nuovi stili di consumo. Il tutto, in un mercato della droga in continua evoluzione: a dicembre 2019, secondo l’Ufficio contro la droga e il crimine delle Nazioni Unite (Unodc), sul mercato erano arrivate ben 950 Nuove sostanze psicoattive (Nps).

«La maggior parte dei giovani cerca lo “sballo” a tutti i costi, con quale sostanza poco importa», continua Coppoli, «e il problema è che qui, tra le droghe pesanti, l’eroina è quella che si trova più facilmente. Ecco perché serve fare informazione con la Rdd». Nemmeno il progetto regionale di Rdd, finanziato direttamente dal governo quando l’Umbria era in vetta alle macabra classifica delle morti per overdose, è più attivo. Si chiamava “Notti Sicure in Umbria” e univa tutte le unità di strada presenti sul territorio per interventi nei grandi eventi del divertimento con postazioni chillout, primo soccorso, spazio informativo, ristoro e servizio di drug checking (analisi rapida delle sostanze).

«A fine 2018 la Regione aveva stanziato dei fondi per un progetto analogo sull’intero territorio umbro», denuncia Andrea Albino, referente dei servizi di Riduzione del danno della cooperativa sociale perugina Borgorete. «Ma il solito macchinario burocratico ha fatto sì che ancora non sia partito, perché il passaggio con il quale la dirigenza della Asl 1 doveva affidare i fondi al terzo settore, e quindi al privato sociale che avrebbe dovuto occuparsene, materialmente si è perso».

Ecco perché il Coordinamento nazionale comunità di accoglienza (Cnca), rete attiva con i suoi associati su tutto il territorio nazionale fin dal 1980, è intervenuta nel dibattito sul caso Terni per chiedere alle istituzioni «meno repressione (…) il rispetto dei Lea (…) e della nostra lunga storia e delle professionalità acquisite nel tempo e dai più riconosciute, riportando l’attenzione sulle politiche di prevenzione, educazione e Riduzione del danno». L’unica, a loro dire, in grado di salvare delle vite e cercare di prevenire l’insorgere di consumi problematici.