Presidi e docenti raccontano il secondo lockdown: tra delusione e impotenza. E se per i "primi della classe", seppure con molte difficoltà, la Dad è una valida alternativa, per gli altri è un disastro. “In classe riesco a parlarci. Online, semplicemente, smettono  di discutere. Evaporano"

Riccardo Giannitrapani, in arte Orporick, insegna matematica e fisica al liceo Marinelli di Udine. «Sono abbattuto», sospira: «Ho appena sentito il presidente della regione dichiarare che riprenderemo le lezioni in presenza a fine mese». Marzia insegna alle medie di Maleo, in provincia di Lodi. Abita a Codogno. Dall’epicentro della pandemia in Italia, ha avuto conferma del rientro a scuola il 7 gennaio «dal ministro Boccia, l’ha detto ieri in una trasmissione». L’ha dovuto sapere, cioè, da un programma tv. Silvia Sala insegna a Monza. Ha appena ricevuto un messaggio via WhatsApp da una sua alunna: «Prof, ma allora domani rientriamo in classe oppure no?».

Sul rientro a scuola dopo la pausa natalizia governo e regioni sono riusciti a creare la massima confusione possibile, aggiungendo, come se ce ne fosse bisogno, incertezza e stress a otto milioni di studenti, di loro famiglie, e a oltre un milione di insegnanti. Ogni programmazione sulla riapertura ha dovuto vacillare fino all’ultimo, sospesa da un duello politico che sembra dimenticare il valore che la scuola rappresenta, e che andrebbe protetto. In mancanza di comunicazioni ufficiali, presidi e docenti si sono trovati così a inseguire agenzie di stampa o talk show per sapere che sarebbe toccato loro di lì a pochi giorni, tenendo in subbuglio turni di lavoro per i genitori, organizzazione per i pranzi, i trasporti, scelte didattiche per i docenti, gestione del personale. Lo scontro tardivo in Consiglio dei ministri ha fatto slittare alla fine l’ingresso in aula per le superiori all’11 gennaio, oltre la data del 7 prima comunicata. Gli epidemiologi, preoccupati, chiedono di aspettare i dati del weekend per decidere. Spaccato al proprio interno, il governo ha trovato un compromesso solo a due giorni dal suono della campanella. Nel frattempo alcune regioni si erano mosse da sole, decidendo di far rientrare in aula professionali, tecnici e licei a febbraio: in Veneto, Friuli, Calabria, Sardegna e Marche. Puglia e Campania hanno posticipato l’ingresso al 15 e al 18 gennaio per tutte le classi, dalle primarie in poi.
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«Sento 70, 100 presidi ogni giorno. E posso assicurare che il disorientamento di genitori e personale è enorme. Capiamo che l’epidemia abbia un andamento complesso e che è necessario intervenire con flessibilità, ma la diaspora di decisioni fra governo e regioni, e le partite politiche giocate su un territorio così delicato, non fanno bene alla scuola». Mario Rusconi è presidente per il Lazio dell’associazione presidi e non può che osservare qual è «il messaggio che arriva alla popolazione se le piste di sci riaprono prima delle aule, in alcune regioni». In Veneto il via alle seggiovie è assicurato, per ora, al 18 gennaio. La strada per i banchi è chiusa fino al 31. «Non c’è personaggio pubblico che non dica di mettere la scuola sempre al primo posto», conclude Rusconi: «Ma ci troviamo a inseguire poi nel concreto un teatro dell’assurdo fra dichiarazioni superficiali o contradditorie». «Regioni e governo continuano ad avere visioni diverse sulla stessa situazione, sugli stessi numeri. Le scuole hanno fatto il massimo per adeguarsi ai protocolli di sicurezza. Se il problema sono i trasporti, che venga chiarito. Ma è possibile che da marzo ad oggi non sia stato possibile trovare una soluzione coinvolgendo gli enti locali?», aggiunge Antonello Giannelli, presidente nazionale dell’associazione.

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Scuola, ecco i danni della didattica a distanza: gli studi riservati del ministero dell'Istruzione
8/1/2021
Un’utopia di buon governo avrebbe previsto orari dedicati sui mezzi, tamponi frequenti negli istituti, turni delle classi, maggior divisione delle mense, aumento del personale. Ma sul piano della realtà la risposta è sempre la stessa: la didattica continua a distanza, che problema c’è? Il problema c’è, eccome, assicurano gli insegnanti. «Perché a distanza può continuare la didattica, appunto, ma non la scuola. La scuola è un luogo di confronto, di appartenenza, dove la dimensione umana dell’incontro vale quanto i contenuti trasmessi a lezione», riflette Silvia Sala, insegnante alle scuole medie dell’istituto San Biagio di Monza: «Durante il primo lockdown i ragazzi sono rimasti attaccati alle lezioni online: erano una linfa. Chiedevano anche ore aggiuntive, dove potessero parlare più liberamente, perché quello spazio era spesso l’unica porta fuori dal confine domestico. Questo ci ha uniti. Il secondo lockdown, a novembre, è stato diverso. Si è sentita di più la delusione forse, la stanchezza. La frustrazione stessa della tecnologia - “prof non vedo i segni sulla whiteboard”, “prof salta la connessione” etc - si è fatta più pesante. Quando ti accorgi allora che stai iniziando a perdere uno studente, la sua attenzione, e l’unica dimensione che hai per raggiungerlo è uno schermo, ti rendi conto di quanto sei impotente. Per quanto possa usare bene il mezzo, o essere disponibile, a volte sento di non avere le parole: sono la sola cosa che resta, le parole, ma mi sento senza voce. Essere lì, in aula, renderebbe tutto più semplice».
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Riccardo Giannitrapani, di Udine, professore di matematica e fisica al liceo scientifico, noto per un blog, un canale YouTube e un account Twitter dove scrive con il nickname “Orporick”, condivide la stessa preoccupazione. «Per gli studenti più bravi - seppur stian facendo fatica anche loro, adesso - seguire online non è un grande ostacolo. Ma per i ragazzi che in aula guardano fuori dalla finestra, o hanno bisogno di alzare muri contro i compagni, a volte, contro gli insegnanti, questa situazione è devastante. In classe, in presenza, provo, riesco, ad abbattere quel muro, ad instaurare una dialettica. Mentre online un adolescente che si sente in questo modo, semplicemente: sparisce. Non c’è discussione, non c’è conflitto. Si limitano a evaporare. Questo non mi fa dormire la notte». «A marzo ho dato il mio numero a tutti gli alunni e ai loro genitori. Provo a scrivere mail, ad essere vicino. Ma a volte non basta», continua Giannitrapani: «Per molti adolescenti la scuola è l’unico momento di distacco dall’ambito familiare. Non uscire di casa, non andare in una stanza diversa, non incontrare, oltre ai propri pari, degli adulti diversi... È ovvio che in questo momento, di fronte al rischio per la salute collettiva, è giusto fare subito un passo indietro rispetto alla presenza in aula. Non ha alcun senso contestare delle misure che vengono prese per proteggere la popolazione. Ma rivendico il diritto alla tristezza».

Emergenze
Gli studenti disabili, e le loro famiglie, sono stati abbandonati
11/1/2021
La stessa didattica a distanza, poi, può essere usata in molti modi: «Io cerco di fare lezioni brevi, perché io stesso se ascolto qualcuno che monologa durante un incontro online, mi distraggo dopo 20 minuti, come potrebbero resistere loro? Vedo mio figlio, di 16 anni, che trascorre cinque ore al computer ogni mattina e altre tre o quattro al pomeriggio per i compiti. Sempre allo schermo...», conclude Orporick: «E sono contrario all’obbligo di accendere la telecamera. Non lo chiedo mai a lezione: mi sembra un’invasione della loro intimità, del loro spazio personale. Lascio che siano loro a scegliere».

Lorella Carimali, docente di matematica e fisica al liceo scientifico Vittorio Veneto di Milano, finalista italiana al Global Teacher Prize nel 2018, in classe non stava mai alla cattedra: gli alunni lavoravano in piccoli gruppi, insieme, portando a termine esercizi che veniva poi discussi con lei. «Ho provato a traslare questo modello laboratoriale online. Ho tutte sezioni da 26, 30 alunni. Tenerli nella stessa discussione, a distanza, è evidentemente impossibile. Non permette loro di agire, ma solo di ascoltare passivamente», racconta: «Ho provato allora a dividerli in sottoinsiemi. Così possono collaborare, pochi per volta, su degli esercizi che sto scrivendo apposta, mentre io entro nelle loro “stanze” digitali a coordinare o aiutare nei passaggi su cui stanno lavorando. In questo modo hanno anche più occasioni per costruire dei legami, per confrontarsi. Penso soprattutto ai ragazzi della prima, che praticamente non hanno avuto modo di conoscersi di persona fra loro. L’altro giorno ad esempio ho chiesto di costruire un dinamometro. Dovevano organizzarsi autonomamente, a gruppi, e poi spiegare agli altri come l’avevano costruito e perché. È stato bello vedere la responsabilità con cui si sono attivati: chi aveva più dimestichezza con gli strumenti manuali si è messo a disposizione in un modo, chi con la scrittura della presentazione in un altro. La loro chat era diventata un luogo di scambio meno virtuale, più pratico».

Fra le soluzioni provate in questi mesi di chiusura, l’unica che eviterebbe è quella delle classi “ibride”, con studenti metà in presenza metà a distanza: «Ho provato», racconta Carimali: «Ed è stato impossibile. Non riuscivo a dare la giusta attenzione o il giusto coinvolgimento né agli alunni seduti ai banchi né a quelli connessi da casa». Anche per lei tornare a insegnare in presenza sarebbe la cosa migliore, «ma se non è possibile, allora attiviamoci per valorizzare tutti i possibili aspetti positivi della didattica a distanza. L’altro giorno, per esempio, i ragazzi mi hanno detto: “Prof, vedendola così siamo tutti al primo banco”». È come se la relazione fosse diventata più intensa, più diretta». Lo schermo è una mediazione, che ne toglie altre. «La scuola non è un edificio: è una comunità aperta. Il nostro dovere è preservarla e farla crescere anche in questa situazione».