«È brava, ma ha un brutto carattere». «Ha esperienza, ma è aggressiva». «È un elemento valido, ma non sa lavorare in team». Mara Caverni, manager di lungo corso, oggi alla guida della società di consulenza finanziaria New Deal Advisors, li definisce cliché: «È la regola sentire frasi così nei consigli d’amministrazione di piccole e grandi società», dove Caverni siede in qualità di consigliere. «La discriminazione di genere non invecchia mai. In teoria donne e uomini sul posto di lavoro dovrebbero gareggiare alla pari, ma quando c’è da discutere avanzamenti di carriera e stabilire bonus economici, guarda caso i maschi sono sempre più meritevoli». Il fenomeno si chiama gender pay gap, vale a dire discriminazione salariale di genere: con la crisi provocata dal Covid-19 si sta intensificando e, nonostante gli avvertimenti della Commissione Europea all’Italia, la politica continua a trascurare il problema.
Anche nel Recovery Plan, dove si da spazio alla realizzazione di asili nido per consentire alle donne di avere più tempo per lavorare, nulla è stato previsto per ridurre la discriminazione nel mondo del lavoro: Eppure, secondo il Gender Equality Index 2020, è proprio questo il punto dolente del paese: l’Italia è venti punti sotto la Svezia per disparità di genere nel mondo del lavoro, nove sotto la media europea.
Il gender pay gap è più elevato per le donne manager e coloro che svolgono i lavori meno qualificati, le prime schiacciate dal “soffitto di cristallo”, le seconde impantanate sul “pavimento vischioso”, come spiega l’economista Alessandra Casarico, docente di Scienze delle Finanze in Bocconi, autrice con Salvatore Lattanzio, dottorando all’Università di Cambridge, di un articolo scientifico sulla disuguaglianza salariale di genere che prende avvio dall’analisi da un ventennio di dati Inps su 22 milioni di lavoratori occupati in 1,6 milioni aziende: «Il 30 per cento del gender pay gap deriva dalle politiche di remunerazione adottate dalle aziende», spiega l’economista che, dati alla mano, racconta come i vertici aziendali distribuiscono riconoscimenti economici in pari diseguali.
Il giuslavorista Giampiero Falasca la definisce discriminazione diretta: «Si rispettano i minimi salariali previsti dai contratti collettivi e dalla Costituzione, poi si applicano in modo discrezionale i superminimi, cioè una voce della retribuzione concordata direttamente fra datore e dipendente in sede di assunzione o come integrazione al contratto. La parte variabile si attesta attorno al 20 per cento dello stipendio, a cui vanno aggiunti bonus e premi di produttività, anch’essi assegnati in modo discrezionale e per lo più a sfavore delle donne. Queste variabili salariali non sono visibili e una donna non può sapere se il suo collega guadagna di più».
Mentre il fenomeno è evidente analizzando le comunicazioni all’Inps: si scopre infatti che, fra i lavoratori con le paghe più alte, il salario settimanale di un uomo va dai 2 ai 10mila euro, mentre una donna guadagna tra i 1.200 e i 4.800 euro.
Racconta Mara Caverni che «gli aumenti e i premi dovrebbero essere legati all’anzianità e al merito, calcolato in modo oggettivo attraverso la rendicontazione dei risultati. Tuttavia gli obiettivi diventano qualitativi - ad esempio si premia la capacità di lavorare in team, di risolvere problemi - che non si possono calcolare oggettivamente. Per risolvere il problema bisogna agire sui sistemi di accountability, cioè sul calcolo oggettivo dei risultati. Ma questo vorrebbe dire modificare un’intera mentalità di familismo, profondamente radicata in Italia».
Nel Regno Unito le imprese sono obbligate a pubblicare i dati sul gender pay gap e in Islanda è stata introdotta una norma che obbliga le grandi imprese a dimostrare il rispetto della regola “stessa paga per lo stesso lavoro”. E in Italia? «Dal 2016 le imprese di grandi dimensioni sono tenute a riportare risultati attinenti alla gestione non finanziaria, tra cui le misure volte a favorire la parità di genere. Tuttavia l’azienda ha la libertà di scegliere quali informazioni pubblicare», dice Casarico.
Se in passato si pensava che la disuguaglianza salariale derivasse da un minor grado di istruzione delle donne, dalla scarsa esperienza lavorativa e poca propensione al lavoro straordinario, «oggi i fattori rilevanti sono differenti e fra questi l’impatto delle politiche salariali spiega il 30 per cento del gender pay gap, di cui i due terzi dipendono dal fatto che le donne lavorano in aziende con paghe mediamente più basse, il restante terzo deriva dalla minor capacità contrattuale», dice la docente della Bocconi.
Con l’avvento del Covid-19 la situazione è oltremodo peggiorata: «Dobbiamo evitare che lo smartworking diventi una forma di lavoro riservata alle donne perché anche questa, in modo implicito, è una forma di discriminazione. Il mercato del lavoro, fatte salve alcune aziende illuminate, in modo pragmatico e cinico, per via della difficoltà del momento, ha pochissime accortezze per la salvaguardia dell’occupazione femminile. Sono i meno garantiti, giovani e donne, titolari di contratti precari e a termine, che stanno scontando la crisi più di tutti», spiega il giuslavorista Falasca.
Il Comitato Europeo per i diritti sociali ha più volte criticato l’Italia per la mancanza di trasparenza nelle retribuzioni: «A più riprese il Parlamento ha varato norme a favore dell’uguaglianza salariale. La prima risale al 1991, l’ultima è stata approvata all’unanimità dalla Commissione Lavoro lo scorso novembre. Ma restano inapplicate», spiega Maurizia Iachino, presidente di Fuori Quota, associazione che si batte contro la discriminazione di genere, e membro della task force Colao, che prosegue: «La questione di genere è sempre un elemento prioritario a parole, mai nei fatti. Nel Recovery Fund la disuguaglianza di genere viene ridimensionata a priorità di secondo livello, come tema di inclusione con giovani e Sud; nel Piano Colao è indicata come uno dei tre Assi di Trasformazione del Paese per il Rilancio. Nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza troviamo dichiarazioni ma non dettagli che definiscano chiaramente costi, tempi, misurabilità dei risultati, impatto e vincoli. Non ci sono indicazioni sugli investimenti, a parte l’incremento degli asili nido, che è solo uno degli strumenti irrimandabili per alleviare il carico di impegno delle donne e ridistribuire il lavoro di cura.
Ad esempio, il governo ha recepito con interesse la proposta di Fuori Quota per una Valutazione di Impatto di Genere sulle leggi, così da analizzare ciascuna norma in base all’impatto che avrà sulla riduzione delle discriminazioni. Ma nella pratica non viene applicata». Iachino con Fuori Quota ha aderito al manifesto “Donne per la salvezza – Half of it”, un documento da consegnare al Governo per meglio sfruttare i soldi del Recovery Fund. Svariate le proposte, dal cashback sui servizi di cura e assistenza, a una campagna assunzioni di donne e giovani nei servizi pubblici, una riduzione dei contributi previdenziali per le lavoratrici autonome, l’intensificazione del tempo pieno nelle scuole, fino all’introduzione del gender procurement sugli appalti del Recovery Fund per premiare le aziende che mettono in pratica l’uguaglianza di genere: «Ci sono grandi aspettative e c’è tutta l’urgenza di affrontare questo problema. Anche se la politica non sta dando reali segnali di interesse».
D’altra parte, la politica, come buona parte della nostra società, è ancora prevalentemente in mano agli uomini, al cui sguardo mancano la diversità di visione e di esperienza di cui sono portatrici le donne, creando miopia rispetto a molti problemi e povertà di soluzioni di ampio respiro. «Mentre la ricostruzione che ci aspetta», conclude Iachino, «è un obiettivo di vitale importanza, da affrontare con pluralità di pensiero, competenze e sensibilità, ed è pertanto indispensabile che, nel progettare il nostro futuro, donne e uomini lavorino insieme, con pari ruolo e responsabilità».