Se tornasse il fondatore dell’Eni, il manager geniale abituato a realizzare un’opera in una notte, chissà cosa penserebbe di un Paese che impiega 15 anni per completare lavori da 100 milioni. Il ricordo di chi lo ha conosciuto bene

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Il sogno di una notte d’inverno: Enrico Mattei torna tra gli italiani per svolgere un nuovo compito, quello di manager della ricostruzione. Il servitore dello Stato, poco più che cinquantenne, viene catapultato nella Roma del 2021. Irrompe con abiti d’epoca nel Parlamento in cui è stato deputato della prima legislatura. E senza scomporsi annuncia: «Cari concittadini, mi sono rimaste molte cose in sospeso nel 1962, quando mi hanno costretto a lasciarvi. Ma ora che dopo tante preghiere mi hanno permesso di tornare, vorrei occuparmi di questa nuova ricostruzione, di cui ho sentito tanto parlare».

Come ha scritto una volta Giancarlo Pajetta, nella ricostruzione del dopoguerra Mattei «scoprì da solo la sua strada, anzi se la costruì, tra le rovine che altri gli aveva dato da sgombrare». Prima il politico e manager marchigiano ha impresso il suo segno sulla nascita della Repubblica italiana attraverso l’impegno tra i partigiani cristiani. Poi con Agip ed Eni ha incarnato lo sviluppo impetuoso del sistema di economia mista. Fino al crollo del suo aereo, il 27 ottobre 1962, che ha interrotto la sua corsa.
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Chi ha incrociato Mattei è spesso stato preso dall’impulso irrefrenabile di raccontarlo. Meglio di chiunque altro l’ha fatto Giuseppe Accorinti, che ha lavorato nel gruppo Eni dal 1956 al 1993. Accorinti, morto nel gennaio 2019, ha passato gli ultimi anni della sua vita a scrivere e a riscrivere un unico libro, dedicato al suo “Principale”, conosciuto con un colpo di fulmine nel Capodanno 1959. “Quando Mattei era l’impresa energetica, io c’ero” è stato pubblicato originariamente nel 2006 dalla casa editrice Halley a Matelica, città adottiva di Mattei (nato ad Acqualagna).

Una nuova versione di quel libro, pubblicata pochi mesi fa direttamente dall’Eni, grazie alla cura di Lucia Nardi, racconta Mattei come un capo mai estraneo, ma intimamente partecipe del lavoro dei suoi collaboratori. È un uomo diverso da quello reso celebre sul grande schermo dall’interpretazione di Gian Maria Volonté nel film di Francesco Rosi del 1972 (accompagnato da un libro, oggi di difficile reperimento, del regista sul “corsaro” al servizio della Repubblica, con testi di Eugenio Scalfari). La leadership del Mattei di Accorinti ha una peculiare tenerezza. Emerge in lui la fede. Traspare la dimensione cristiana su cui si costruiscono alcuni dei suoi più importanti rapporti umani, da Marcora a Vanoni, nella lotta partigiana o nella lotta di palazzo per far emergere l’impresa pubblica.

Con le sue opere, già quindici anni fa Accorinti interpretava un nuovo sentire sul fondatore dell’Eni, un tempo accusato dei mali della Prima Repubblica da chi non immaginava cosa sarebbe venuto dopo. Per esempio, Guido Carli riteneva Mattei «un ossesso, un invasato», «pervaso da spirito anticapitalistico». Negli ultimi anni attorno a Mattei è nato un piccolo ma significativo culto, in cui si riconoscono italiani di diverse generazioni. Oggi la sua figura riceve una fiducia inversamente proporzionale alla statura geopolitica dell’Italia. Basta scorrere i video dedicati al fondatore dell’Eni su YouTube, dai contenuti di Nova Lectio (Simone Guida) alle magistrali interviste di Sergio Zavoli nel 1968, per rendersi conto del consenso e dell’ammirazione unanimi che accompagnano oggi il manager marchigiano. A prescindere dalle sensibilità politiche.
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Perché Mattei, tra i padri della ricostruzione italiana, genera così tanta emozione? Pesa senz’altro il mistero della sua morte. Lo stesso Accorinti ci tiene a specificare che, sulla base degli accertamenti della magistratura, e in particolare di Vincenzo Calia, l’aereo di Mattei a Bascapè non è caduto da solo. Ma non giunge a indicare i mandanti dell’omicidio. Lascia questo compito alle ricerche degli storici (che invita a recarsi negli archivi del Kgb e a seguire le piste dell’intelligence francese), oltre che alle testimonianze dirette dei pochi sopravvissuti di quell’epoca.

Al di là della morte di Mattei, su cui probabilmente non avremo mai risposte, conta il messaggio profondo del manager ricostruttore. È la potenza di quella che, nonostante i giudizi ingenerosi di Carli, si può definire una vera “ossessione”: superare il complesso di inferiorità nazionale. Nella sintesi di Cossiga, «Mattei è l’ultimo italiano che tenta la sfida di rifare gli italiani». L’azione del fondatore dell’Eni ha un’anima costante. Mattei non accettava l’idea che un popolo sconfitto dalla guerra fosse destinato a un ruolo subordinato, incapace di scelte politiche ed economiche autonome. Non sopportava che all’Italia fosse preclusa la grande organizzazione industriale che genera potere.

A questi pregiudizi, Mattei ha contrapposto un nuovo mito: quello degli italiani che rifiutano gli stereotipi su loro stessi per sorprendere chi li sottovaluta, con capacità organizzativa e manageriale, con l’investimento sulla formazione e sulla ricerca. Questa è la bussola di Mattei, il contenuto, il mistero della sua vita. Fino a raccontarsi, nel 1962, con un personale “whatever it takes”: «Sono semplicemente un uomo che, di fronte alle necessità in cui si è venuta a trovare l’Italia, ha fatto tutto quello che era possibile per raggiungere gli attuali traguardi».

Il decisionismo e la rapidità sono caratteristiche essenziali di Enrico Mattei manager della ricostruzione. Da capo, fomentava nella sua prima linea “lo spirito combattivo”, per rispondere all’urgenza di fare, di costruire. La cosa che sopporterebbe di meno del sistema italiano attuale è l’incertezza sui tempi di realizzazione degli investimenti. Stiamo parlando di un uomo che era abituato a far realizzare infrastrutture la notte. Al suo ritorno tra noi, non appena appreso che in Italia per realizzare un’opera di più di 100 milioni ci vogliono più di 15 anni, prima si metterebbe a piangere e poi concentrerebbe tutte le sue energie sulle soluzioni a questo problema.

Dopo e dentro la ricostruzione, viene la prova della maturità, che l’Italia ha di certo mancato. La fine di Mattei, insieme ad altri episodi, misteri ed errori, ha incarnato le occasioni perdute per il nostro Paese di essere protagonista in salti tecnologici con rilievo geopolitico. Da questo punto di vista, si dimentica spesso il suo investimento nel nucleare, l’idea che l’Eni dovesse evolvere in un Ente italiano sull’energia, protagonista a tutto campo in un’Europa da considerare mercato domestico.

Quest’ambizione ed evoluzione per Mattei si realizzava attraverso un mezzo ben preciso: le Scuole, i corpi della formazione dei tecnici e delle classi dirigenti. Si può dire che l’Eni - di certo negli anni ’50 e ’60 - è stata la nostra Ena, per il serbatoio di intelligenze, anche irregolari e contrapposte, che sono passate per l’azienda. La centralità della formazione, nel disegno di Mattei, tracciava anche l’ambiziosa prospettiva geografica aziendale, che pensava già in termini di “Mediterraneo allargato”: protagonismo nel Medio Oriente, presenza decisiva in Africa. La leadership del fondatore era alimentata dalla curiosità continua per l’attività della sua squadra, dei suoi pionieri. Nel 1962, durante il loro ultimo incontro, Mattei disse al giovane Accorinti: «Chi te lo avrebbe mai detto da ragazzo che un giorno saresti andato proprio tu in quei paesi dell’Africa dei quali leggevi sui libri? Sei stato in Mali? Raccontami».

La nostra ricostruzione fa i conti con un’epoca diversa. Basti pensare che la potenza delle temibili “Sette Sorelle” di Mattei non esiste più. I giganti petroliferi sono oggi alle prese con le sfide dei cambiamenti dell’energia e della sostenibilità: davanti ad esse non si muovono come belve, ma più spesso come gattini disorientati, con crescente difficoltà finanziaria. Per l’Italia non ci sarà un’improvvisa epifania d’inverno: Mattei non tornerà mai più tra noi. Possiamo solo tenerci strette le lezioni, ancora attuali, del manager della ricostruzione.