Erano minuti lunghissimi quelli in cui gli occhi scrutavano oltre la finestra di casa, e poi oltre il giardino e aldilà della siepe lungo il muro di confine, alla ricerca della sagoma di un tetto di lamiera bianca. Allora con la nonna spalancavamo il portone d'ingresso e sistemavamo i palloncini di benvenuto. La mamma era tornata a casa.
La borsa di volo sulla spalla, la Samsonite di plastica dura rossa trascinata sul viottolo d'ingresso, quell'odore di vuoto pneumatico appiccicato alla camicetta stropicciata da una notte insonne, ci veniva incontro. Di sicuro in valigia nascondeva un regalo con cui farsi perdonare l'assenza, una pashmina indiana oppure un paio di scarpe da ginnastica americane, una collana africana o, ahimè, una ridicola borsa che ci avrebbe costretto a indossare tra le risa delle compagne di scuola.
Ricordo ancora il rumore che faceva nel richiudersi lo sportellone del camioncino che trent'anni fa la veniva a prendere e la riportava a casa dall'aeroporto: la campanella che ha scandito l'infanzia mia e di mia sorella, figlie di un pilota e di una hostess dell'Alitalia. Il papà lo vedevamo poco, per anni infiniti è stato pilota di medio raggio. Ma la sua presenza era tangibile: i cannoli da Palermo all'ingresso, il caviale da Mosca in frigo o, sul tavolo in salotto, un nuovo, colorato pacchetto di fiammiferi, cortesia di un albergo in giro per l'Europa, che aggiungeva alla sua collezione.
Tra un volo e l'altro, lui, figlio di contadini diventato pilota per riscattarsi dalla povertà ma che odiava viaggiare, si rinchiudeva in una nuvola di fumo a studiare fisica ed economia in taverna. Era l'assenza della mamma quella che notavamo di più. Lavorava sui voli intercontinentali, di “lungo raggio”: al tempo erano poco frequenti perché i biglietti erano ancora troppo cari per la maggioranza degli italiani che, quando salivano in aereo, indossavano un bel vestito, l'aeroplano insieme luogo ed evento eccezionale. Erano i tempi in cui stava via anche dieci giorni di fila, in alberghi bellissimi, nei quali però era irraggiungibile: non esisteva internet, e le telefonate extra urbane, per non parlare di quelle intercontinentali, erano proibitive.
«Nessuna notizia, buone notizie» era il motto della famiglia. Così non la sentivamo mai. E non c'erano fine settimana, e nemmeno feste comandate, per non parlare delle recite scolastiche. «È Natale quando siamo tutti insieme», dicevano. E spesso i brindisi avvenivano in bicchieri di carta in aereo, al posto dei parenti i membri dell'equipaggio, come una grande famiglia allargata.
Perché l'Alitalia è stata anche un po' questo. Una famiglia di persone al di fuori degli schemi del tempo, che spalancavano le porte del mondo ad un popolo che, dopo anni di emigrazione forzata, poteva cominciare a viaggiare per piacere. Ricordo ancora l'emozione con cui la mamma, che negli anni Sessanta parlava cinque lingue, raccontava delle conversazioni intrecciate con persone che nella vita a terra non le avrebbero rivolto parola. Sorrideva, con l'orgoglio di chi sapeva di incarnare un modello di donna nuova, “moderna” e indipendente, al di fuori di quegli schemi che volevano ancora le donne italiane “angeli del focolare”. L'Alitalia era l'immagine della nuova Italia, e il personale navigante uno stuolo di ambasciatori del made in Italy. Tanto che gli stilisti più famosi facevano a gara per vestirli, dalle sorelle Fontana a Mila Schon, da Balestra a Armani.
Certo, l'apparenza glamour aveva un prezzo. Quello di famiglie spezzate e mai ricomposte. E di un'aspettativa di vita ridotta di una decina d'anni rispetto alla media, dopo migliaia di notti insonni e fusi orari, coi timpani presi a pugni da decolli e atterraggi infiniti.
Ma per anni il privilegio e l'orgoglio di fare parte della flotta italiana hanno prevalso. Poi, il declino dell'Alitalia ha coinciso con quello dell'Italia. I conti dell'una sono diventati sempre meno sostenibili come i conti dell'altra. Fino allo scoppio della Grande crisi nel 2009 e, contestualmente, della trasformazione di Alitalia in C.A.I. per mano di capitani coraggiosi che alla fine furono tutto tranne che coraggiosi.
Erano cambiati anche i tempi: con la globalizzazione l'aereo da trasporto di lusso è diventato poco più di uno scomodo bus, i pasti sontuosi di bordo, gloria dell'Italia, sono diventati snack stantii, si sono moltiplicate le compagnie low cost. Per gli assistenti di volo intavolare conversazioni con i passeggeri ha smesso di fare parte dei compiti della professione, che ha perso lustro e requisiti.
L'Alitalia, la compagnia di Stato, da patrimonio prezioso si è trasformata in zavorra, trascinando con sé tutto il suo piccolo “corpo diplomatico”. Alitalia, specchio di un Paese, unico tra i Ventisette, in cui in trent'anni i salari medi sono scesi e mai saliti.
Alitalia, sineddoche di un prezioso mondo antico di cui Roma ha saputo conservare solo il mito. Così Alitalia appare oggi tra i necrologi dei principali quotidiani europei. Altrove, in Francia o in Germania, le compagnie aeree di stato continuano a volare, i lavoratori che, con la fine del Covid, riprendono funzioni e stipendi. E non sono costretti a guardare gli aerei con il naso all'insù. In Italia, scalda i motori Ita, una compagnia aerea in formato ridotto, fin dal nome, e dal futuro incerto. Dei diecimila dipendenti di Alitalia meno di tremila sono stati riassunti, con stipendi che permettono di vivere, certo, ma che cancellano decenni di lavoro. «A 50 anni ho dovuto rispondere a domande come “Cosa ti attrae della possibilità di lavorare in Ita?”», racconta Lele, un responsabile di cabina che oggi assume servizio nella nuova società. Lui, perché invece la moglie, anche lei navigante, è rimasta in cassa integrazione, dopo 25 anni di Alitalia. Prima guadagnavano 2800 euro ciascuno, oggi 1800 soltanto lui. Ogni anno di anzianità azzerato, come se non avesse mai lavorato. E la pensione, con il salario base a 600 euro mensili, in prospettiva è dimezzata: «Hanno calcolato che avrò 700 euro al mese, poco più di quella sociale». La rabbia è più forte guardando ai colleghi d'Oltralpe: «Lufthansa ha ritoccato gli stipendi del 7 per cento (portando quelli dei comandanti a 13.500 euro mensili), Air France li ha lasciati invariati (a 15mila euro per i comandanti). Nessun altro Paese fa dumping salariale e sociale».
Per chi il mestiere l'ha scelto come stile di vita e non è nemmeno stato assunto dalla nuova società, la cassa integrazione è una pugnalata alle spalle: «Ho cominciato a fare la hostess quando ero all'università per hobby», racconta Barbara: «Poi ho preso la laurea in ingegneria ma sono rimasta per passione. A vent'anni potevo scegliere ed è stata una scelta lavorativa. Oggi a 47 anni non ho più nulla. Negli studi di ingegneria dove ho inviato il curriculum mi dicono che sono rimasta indietro, ora ci sono software di cui non conosco il nome. E nella grande distribuzione assumono solo chi ha meno di 28 anni. Però sono divorziata con un figlio disabile a carico». E sono tante le donne come Barbara, con figli disabili o al di sotto dei 12 anni, che la nuova società non ha assunto, denunciano i sindacati.
I limiti anagrafici sono un cappio al collo per chi vola: è difficile che un pilota con più di 52 anni trovi lavoro se non è diventato comandante. Fuori dall'Italia è considerato troppo vecchio: la regola non scritta è che un pilota entri da primo ufficiale e accetti uno stipendio ridotto fino a quando non sarà promosso a comandante. Ma Alitalia, in crisi da un ventennio, sono anni che non forma nuovi comandanti. Così i più giovani hanno accettato l'assunzione nella nuova società; altri rimangono in bilico, aggrappati alla speranza che Ita li riassuma in futuro, sempre che non perdano prima le licenze di volo.
La maggior parte dei comandanti più anziani (se anziani si è a 55, 56 anni) sono invece costretti ad accettare una generosa cassa integrazione come scivolo verso la pensione. «So di essere fortunato, il mio è ancora uno stipendio che mi consente di vivere», dice Marco, comandante di lungo raggio che ha venduto la sua casa alla periferia sud di Roma, su cui pesava un mutuo, per essere pronto ad un futuro con meno fronzoli: «Ma che vita è a terra, senza più volare? Senza più identità?». In tanti guardano oltre i confini nazionali, pronti ad emigrare, armi e bagagli, a qualsiasi età. «Cercano personale in Wizzair, base Tirana», aggiunge Barbara. Una pausa. «Un tempo dai Paesi dell’Est venivano da noi».