«Alla vigilia della giornata internazionale contro la violenza sulle donne, L’Espresso e Cgil Piemonte e Umbria hanno raccolto le voci delle lavoratrici che hanno subito aggressioni, minacce, ricatti sessuali. E lanciano la campagna #lavoromolesto, per rompere il silenzio

«Faccio fatica a pensare alle parole ma ricordo molto bene la sua mano che scivola sulle mie gambe. “Ti fermi?”, sussurra mentre il suo viso si avvicina al mio orecchio. Mi volto per guardarlo negli occhi: “No”, rispondo secca, escludendo ogni indugio. Mi alzo decisa per andar via, cade il silenzio per qualche secondo. “Stai pure a casa, non è il caso che torni, sei licenziata”, dice. Ho preso la borsa e sono uscita, senza una lacrima, senza il tempo per la debolezza, perché così so fare». V. aveva ventun anni e lavorava da poco più di due settimane come segretaria in una piccola azienda che produce escavatori. Era nel suo ufficio, seduta alla scrivania, di fronte al pc, quando un giorno, poco prima della pausa pranzo, è arrivato «il padrone» della ditta e si è accomodato accanto a lei per rivedere il bilancio. 

 

«Mi ha messo le mani addosso e mi ha licenziata quando l’ho respinto», ha raccontato V. alla nonna. «Questa volta piangevo, perché con lei potevo lasciarmi andare, senza alcun timore di apparire debole. Lei era la mia forza, mi capiva, mi conosceva e mi appoggiava nelle mie battaglie». Il compagno di V. era in carcere dopo aver partecipato ad una manifestazione interrotta dalle cariche della polizia, la figlia di un anno a casa con i genitori e i nonni. Tutto era pronto per un pranzo che nessuno ha consumato. «La moglie del titolare ha telefonato a casa, voleva incontrare qualcuno della mia famiglia per spiegare perché ero stata mandata via senza preavviso. Ha detto che era colpa mia, avevo attentato alla virtù del povero marito, l’avevo provocato. E lui, così, era stato costretto ad allontanarmi e licenziarmi. Mio fratello e mia madre le hanno creduto: ero io la poco di buono». Era V., per i familiari, colpevole di aver perso un’occasione, di essersi comportata male con un uomo che, invece, aveva fatto tanto per lei, offrendole un lavoro. «Mia nonna mi stringeva forte le mani». 

 

 

V. non è sola. Secondo l’ultimo rapporto Istat, pubblicato nel 2018, il prossimo nel 2022, sono 1 milione e 404 mila le donne che hanno subito molestie fisiche o ricatti sessuali sul posto di lavoro. Colleghi, superiori o altre persone che hanno provato a toccarle, accarezzarle, baciarle, fino ad arrivare al tentativo di utilizzare il loro corpo come merce, con la richiesta di prestazioni, rapporti o disponibilità sessuali in cambio di assunzioni, crescite professionali, accessi all’occupazione. Ha subito violenze di questo tipo l’8,9 per cento delle lavoratrici attuali o passate, incluse quelle in cerca di un impiego. Soltanto nei tre anni precedenti all’indagine, tra il 2013 e il 2016, sono 425 mila le vittime di molestie fisiche sul lavoro. Con una incidenza maggiore tra le più istruite e tra i 25 e i 44 anni. Mentre è in costante diminuzione il numero di donne che ha subito molestie sessuali nel corso della vita, a oggi almeno 8 milioni e 800 mila, non scende il dato di chi le subisce in ufficio o in fabbrica.  

 

La campagna
Molestie sul lavoro: è ora di rompere il silenzio
23/11/2021

I ricatti e le molestie sul lavoro, cioè quei comportamenti indesiderati che hanno lo scopo o l’effetto di violare la dignità delle lavoratrici e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo, si verificano maggiormente nei centri delle aree metropolitane e nei comuni con oltre 50 mila abitanti. Prevalentemente si tratta di un ricatto sessuale per mantenere, ottenere il lavoro o un avanzamento di carriera. Per tre vittime su dieci si ripete più di una volta a settimana. La lavoratrice in questo modo si trova a essere in una condizione asimmetrica di potere rispetto all’autore della molestia e a subire ripercussioni sia fisiche, in quanto la molestia coinvolge il corpo e comporta un contatto non voluto, sia psicologiche, perché indipendentemente dall’atto, è volta a piegare la volontà della donna affinché, per timore, accetti le attenzioni indesiderate. Gli autori delle molestie a sfondo sessuale sono in larga prevalenza uomini. Questo vale per il 97 per cento delle vittime donne e per l’85,4 per cento delle vittime uomini. L’indagine Istat, infatti, per la prima volta stima che siano 3 milioni 754 mila gli uomini ad aver subito molestie sessuali nel corso della vita, incluse quelle fisiche, verbali, l’esibizionismo, il pedinamento, le telefonate oscene, l’invio di materiale pornografico, le molestie attraverso i social network e la sottrazione di identità. Per gli uomini e per le donne le molestie verbali sono la forma più diffusa. 

 

 «Che cosa posso fare oggi?», chiede A. al vicedirettore dopo essere entrata nella sua stanza. Era agosto, la filiale semivuota, il lavoro da svolgere scarso. A. era stata assunta da poco. «Potresti metterti sotto la scrivania», risponde lui prima di scoppiare in una fragorosa risata. A. racconta ai colleghi quanto è successo ma nessuno dà peso all’accaduto: «Non c’è da preoccuparsi, il vicedirettore è solo una simpatica canaglia». Al contrario di quanto ha scelto di fare A., sono pochissime le donne che parlano in azienda delle molestie subite. Quasi nessuna denuncia alle forze dell’ordine, anche se la maggioranza sa che si tratta di fatti gravi. Tante non ne parlano perché vengono considerati una consuetudine, la normalità e per paura di ritorsioni e conseguenze che potrebbero portare al deterioramento della carriera. Così spiega D. che lavora in un’industria tessile e ora fa parte della rappresentanza sindacale unitaria: «Altre volte, invece, capita di non dire niente per ignoranza, intesa come mancanza di informazione al riguardo. Io, ad esempio, non conoscevo i miei diritti, solo il dovere di lavorare bene e, per troppa dedizione, sono stata la prima a non mettere un argine alle richieste del mio responsabile, per me era come un padre». D. si è resa conto dell’ambiente malsano che aveva intorno quando ha comunicato ai colleghi la data del matrimonio: «Aspetta almeno una decina d’anni per rimanere incinta», le ha risposto il capo. E non  scherzava. Quando, invece, è accaduto, D. è stata demansionata. «Subito dopo essere rimasta incinta mi hanno spostata e non sono tornata più alla posizione lavorativa che avevo prima. Ero distrutta psicologicamente: negli anni mi avevano assegnato ruoli di rilievo che mi facevano sentire appagata, ma le responsabilità non erano mai state riconosciute dal contratto. Così ho capito che mi avevano soltanto usata».

 

Come è scritto nell’articolo 1 della “Convenzione sull’eliminazione della violenza e delle molestie nel mondo del lavoro”, redatta dall’Ilo (International labour organization), l’agenzia delle Nazioni Unite che promuove la giustizia sociale e i diritti umani in ambito lavorativo, ratificata da poco anche dall’Italia, la violenza o le molestie sul lavoro sono «un insieme di pratiche e comportamenti inaccettabili». Ma lo è anche solo «la minaccia di porli in essere, sia in un’unica occasione, sia ripetutamente». La stessa convenzione spiega che consistono in azioni che «possano comportare un danno fisico, psicologico, sessuale o economico, e includono la violenza e le molestie di genere». Rappresentano, quindi, una minaccia alle pari opportunità e sono incompatibili con il lavoro dignitoso, sano, sicuro, per tutti.  In un ambiente lavorativo in buona salute devono essere favorite le relazioni interpersonali basate su principi di eguaglianza e di reciproca correttezza.

 

Le storie di V. A. e D., insieme ai racconti e le testimonianze di tante altre lavoratrici vittime di molestie, sono state raccolte dalla Cgil Piemonte e Umbria che dal 25 novembre, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, insieme a L’Espresso lancia la campagna #lavoromolesto al fine di dare una voce e un volto alla lotta contro la violenza di genere nei luoghi di lavoro.