Liberazioni

Dachau, il carcere, l’impegno: è morta Lucy Salani, la nonna trans d’Italia

di Simone Alliva   2 dicembre 2021

  • linkedintwitterfacebook

Sopravvissuta al campo di concentramento e ad altre vicende drammatiche, è stata prostituta e ballerina, fino all’operazione. Scompare a 98 anni: la sua vita era stata raccontata in un documentario

È un frammento di storia che arriva dal Novecento. Eppure, non trova spazio nei libri di scuola, nelle serie tv, nei salotti buoni. Per entrare nella vita di Lucy Salani bisogna attraversare strade, carceri, forni crematori e manicomi. Entrare in quelle fessure di un mondo che da tempo è stato lasciato ai margini, invisibile soltanto perché abbiamo deciso di non guardarlo, non vogliamo.

La voce e il corpo di Lucy sono stati ripresi per mesi da Matteo Botrugno e Daniele Coluccini nel film-documentario “C’è un soffio di vita soltanto”. Lucy Salani, la “nonna trans” d’Italia sopravvissuta a Dachau prima e all’Italia omotransfobica dopo, oggi ha 96 anni e abita a Bologna. Si racconta sul grande schermo, una storia tutta italiana ma ignota alla narrazione mainstream.

Luciano che diventerà Lucy anche fisicamente solo a 58 anni, nasce nel 1924 a Fossano, vicino a Cuneo, da una famiglia antifascista, di origine emiliana che negli anni Trenta si trasferisce nel bolognese, dove Lucy affonda le sue radici. Con le mani nodose, gli occhi liquidi e l’ironia di chi ha sofferto molto ci fa entrare nel suo appartamento al secondo piano di un alloggio popolare e ci accompagna nelle notti della sua vita. Le attenzioni pedofile da parte del parroco da piccolissima: «Sento ancora i brividi a pensarci» racconta in debito d’ossigeno: «Oggi, quando vengono a benedire la casa, la porta non la apro. Suona pure, dico, stai fuori».

Poi i rifiuti in famiglia: il padre non crederà ai suoi racconti delle violenze subite. Poca cosa rispetto a quello che dovrà affrontare più avanti. Si sente donna da sempre. Sopravvive. Da Dachau fino al dopoguerra, dall’operazione per il cambio di genere alla perdita della sua figlia adottiva. Di sé parla al femminile soltanto quando racconta il dopo Dachau. Prima, dall’infanzia alla Liberazione, ricorda Luciano. Declina al maschile le memorie di un uomo che non c’è più. Quasi come se ci fosse un primo e un secondo atto dentro questa storia che è una fuga da qualcosa che non si può neanche nominare. Non ha mai voluto cambiare nome all’anagrafe. «Quante volte me lo hanno chiesto. Ho sempre risposto no. Me lo hanno dato i miei genitori. È sacro. Perché una donna non si può chiamare Luciano? Perché no?».

È il 1943 e Luciano ha 19 anni. C’è la guerra nelle strade e la guerra dentro di lui. Cerca subito di fuggire dall’esercito: «Mi presento militare e faccio la visita. Dico: sono omosessuale, non posso farlo. Mi rispondono: dite tutti così ma con questa guerra non c’è più sesso». L’esperienza sotto le armi però dura poco, solo tre settimane. L’8 settembre con l’armistizio l’esercito si dissolve. È un’altra fuga mancata. A Vercelli viene catturato, costretto a entrare nell’esercito tedesco. Passa qualche settimana. Luciano si adatta. È quell’istinto di sopravvivenza che lo porterà lontano. Riesce a farsi assegnare il posto di addetto alla fureria, cioè l’ufficio militare che si occupa della stesura degli incaricati dei servizi giornalieri e delle licenze della truppa. Qui, da solo, prepara le carte per tornare a casa: «Mi sono fatto i permessi e sono arrivato fino a casa. I tedeschi mi cercavano perché ho dato un indirizzo e un nome falso. Peggiorando la mia situazione».

Rischia la pena di morte. Luciano è consapevole, ma Bologna è la sua casa. Ritrova i suoi amici. Frequenta gli unici luoghi concessi agli omosessuali del tempo: bagni, parchi, cinema in terza visione. «Facevamo marchette. C’erano i tedeschi e pagavano anche bene. Una volta arrivò un capitano tedesco e mi portò all’Albergo Bologna. Ma fecero una retata. Erano tedeschi anche loro: a lui dissero “taglia la corda”, io venni arrestato. Scoprirono tutto». Processato come disertore dell’esercito tedesco e condannato a morte per fucilazione. «Chiesi la grazia a Kesserling (il generale tedesco che nel 1943-44 guidò la ritirata ndr), accettarono ma con lavori forzati in Germania. La mattina ci caricarono su un carro merci, per poi scaricarci a Dachau».

Il campo di concentramento segna uno spartiacque nella vita di Lucy. Entra da triangolo rosso, non rosa. Conosce un orrore che racconta con fatica, la voce rotta da un principio di pianto: «C’erano pidocchi, cimici, topi. Ma non riuscivamo a prenderli. Altrimenti li avremmo mangiati». Con gli occhi lucidi ricorda la sua mansione: «Insieme a un polacco dovevo prendere tutti cadaveri che la notte morivano e metterli fuori, attaccar loro una targhetta con il suo numero. Perché non c’era un nome. Poi li caricavamo sopra un carro e li portavamo al forno crematorio». La voce si rompe, alcuni dei corpi destinati al crematorio erano vivi: «Quello che ho visto è allucinante. Mettere un essere vivente dentro a un forno». Come si fa a convivere con questi ricordi? Su quale mensola della coscienza si colloca l’immagine di quei giorni, per non pensarci più? «È dentro di me. Come quando leghi qualcosa che non scappa. Lo leghi stretto e ti senti schiacciato. Stanotte sarà un’altra notte».

 

Lucy ritorna in famiglia ma viene rifiutata di nuovo. Il ritorno è da disertore sopravvissuto a Dachau, ma in Italia prova quello che moltissimi omosessuali hanno vissuto nel dopoguerra: traumatizzati dalle violenze subite e dalle atrocità, vanno avanti non nominati nelle cerimonie di commemorazione. Omessi dalla collettività ed esclusi dalla cultura della memoria. Non sono sopravvissuti ma si sono semplicemente salvati. «Guai a dire che ero donna», racconta: «Dicevo ai miei: mi avete fatto voi così. Io non ho voluto nascere in queste condizioni. Ma vi ringrazio perché a me piace essere così. Mio fratello mi ha detto: non ti chiamerò mai Lucy, per me sarai sempre Luciano».

All’inizio vive di espedienti: la prostituzione, sotto il nome Carmen, ma anche la ballerina e l’attrice in uno spettacolo en travesti. Poi decide di trasferirsi a Torino. Un’altra fuga, un’altra vita alla luce del sole. Qui è Lucy nella sua pienezza. Assume gli ormoni, inizia ad avere il seno, ad arrotondare i fianchi. Impara l’arte della tappezzeria e inizia a lavorare. Una donna tappezziera, un’altra eccezione dentro quegli anni. Ma non era più Luciano di Dachau, non era più Carmen, sotto la Mole è semplicemente sé stessa: Lucy.

Nel 1981 si opera a Londra, lo stesso anno in cui viene varata la legge in Italia. Un intervento chirurgico che le ha sottratto il raggiungimento del piacere sessuale, destino condiviso da lei e da molte altre donne trans. Dopo amori finiti o mai iniziati. Adotta una ragazza madre di diciotto anni: «L’ho conosciuta che era una bambina. Il padre lavorava nelle miniere, aveva la silicosi ed è morto presto. La mamma è morta poche settimane dopo. La bimba è venuta da me. Inizialmente faceva dei lavoretti, poi si è innamorata di un idiota ed è rimasta incinta».

Lucy l’accoglie in casa e per non farle mancare niente torna a fare la prostituta. «Era come mia figlia. Poi è morta anche lei a 57 anni». Lucy che per istinto e talento continua a reinventarsi ogni volta, risorgere guardare la luce davanti a sé, non il buio che c’è dietro. Oggi convive a Bologna con Sahid, operaio marocchino praticante musulmano. Sembra siderale la distanza culturale tra lui che prega in direzione della Mecca e lei donna trans, ex prostituta di via Stalingrado. Ma quella con Sahid è qualcosa di più di una semplice relazione tra coinquilini: «Per me è come un nipote» dice lei. Le fa eco lui: «Quando andiamo insieme al supermercato io dico che lei è mia nonna e lei mi tratta da nipote».

È il talento di Lucy quello di tessere relazioni per vivere: c’è Maria, la vicina di casa che va chiederle consigli amorosi. Ci sono Ambra e Simone. E poi la comunità Lgbt, come l’attivista storica del movimento trans Porpora Marcasciano. La vita di Lucy è una fuga verso gli affetti: inizia a Bologna passa da Dachau e fa il giro del mondo. Lucy non è una militante, non lo è mai stata. Eppure, è sempre riuscita a organizzare reti di prossimità e a vincere quella battaglia contro i fondamentalismi di ogni sorta. È una vita piccola, illumina quelle di chi le sta intorno, lontano dalle urla oscene di Parlamento italiano contro le persone transgender, molto vicino alla solidarietà tra gli ultimi.

Nella posta trova ogni anno lettere da Dachau. Sono biglietti di auguri e inviti alle celebrazioni per la liberazione del campo di concentramento del 29 aprile 1945. Inizialmente erano destinati a Luciano Salani. In occasione del cinquantesimo anniversario della liberazione, Lucy si presenta fisicamente a Monaco. L’accoglienza diventa un momento di commozione e ovazione unico per la comunità europea. Da allora le lettere che arrivano sono declinate al femminile.

Ogni anno non manca il suo pellegrinaggio in quell’inferno, dove si è consumato la fine dell’umano. Di fronte a quello che resta del campo di Dachau una certezza: «È la nostra volontà che comanda il mondo». La storia di Lucy è un soffio di dolore, certo, eppure di luce che esplode nel sorriso di chi non si arrende, non lo farà mai. In un mondo ideale sarebbe celebrata e indicata come una coscienza che ci guida.